Poco tempo fa, quando ci siam ritrovati a ripassare tutto quel che è successo nel 2013, abbiamo ragionato di sfuggita sul dubstep, definendolo ormai “molto e sepolto”. Beh, forse è il caso di essere più precisi: non è più un genere vivace e pieno di stimoli come qualche anno fa e non son più in molti che ne parlano, ma il dubstep classico in realtà resiste ancora, sia tra nomi nuovi (come ci faceva notare tempo fa Mixmag) sia tra gli habitué di quel suono. Oggi ripercorriamo via #crumbs i luoghi dove il dubstep non molla, guardando insieme cosa significa ribadire il profilo classico nel 2014. I nomi son quattro e nemmeno tanto piccoli.
[title subtitle=”Om Unit: potere introspettivo”][/title]
Quando a fine ottobre uscì il primo album di Om Unit, eravamo tutti curiosi di come Mr. Coles sarebbe riuscito a gestire la sua larga ragnatela di interessi in un unico formato. Il ragazzo col dubstep si è sempre trovato bene ma era anche interessato a certe varianti melodiche, e poi c’è quella passione recente per il mix footwork-jungle esplorato come Phillip D Kick e con Machinedrum come Dream Continuum. Su album però ha mantenuto un profilo di suggestione, con pezzi fondamentalmente d’ascolto e poco spazio per sperimentazioni affilate (al contrario, uno dei pezzi migliori è “The Silence”, fondamentalmente una ballata malinconica con l’elettronica ridotta all’osso). Il bagaglio dubstep è servito a dare al disco un’aria buia e introspettiva. Ha funzionato bene, tant’è che è finita per riempire metà tracklist e far di “Threads” un ascolto robusto e ben controllato. La Civil Music lo presentava come “un disco dal forte potenziale classico” ed è questo infatti l’effetto che fanno pezzi come “Jaguar”.
[title subtitle=”Tempa, una certezza inamovibile”][/title]
Poi è naturale, quando si parla di dubstep classico la prima cosa che viene in mente è “andiamo a vedere che aria tira alla Tempa”. La storica label londinese negli anni d’oro del dubstep è stata un vero faro guida, ha pubblicato tutti i big del genere e, anche quando il genere stava prendendo una deriva nuova (post o pop che sia), è rimasta sempre fedele al sound originario, coi suoi artisti core e i suoi Dubstep Allstars. Certo, oggi non è proprio l’etichetta più vivace del pianeta e la stampa sembra aver smesso di seguirla, eppure ogni volta che ci passi trovi sempre qualcosa di nuovo: l’ultima uscita è un singolo di Youngsta e Seven sotto il nome Architects, una di quelle classiche colate di wobble che ci fan tornare indietro di cinque anni. Perché non importa l’attenzione dei media o la numerosità del proprio pubblico, far musica è anche una missione. E la Tempa è sempre una certezza.
[title subtitle=”Boxcutter: andare contro, sempre e comunque”][/title]
Quello che invece ti stupisce quando meno te l’aspetti è Boxcutter. Resti per un attimo senza parole, pensieroso, e poi esplodi: “ma come, tu non eri quello che per tutto il periodo dubstep eri stato il più sfuggente? Quello che le groovosità funk ce le aveva già nel periodo Glyphic, quello che ‘The Dissolve’ era quasi un disco acid jazz, quello che come The Host s’è ripreso tutta la cosmica e l’elettronica intelligente degli anni che furono?”. Sì, quello. Poi a dicembre torna su EP, per la Cosmic Bridge proprio di Om Unit, e ti ritrovi tra le mani proprio il breakbeat del dubstep più popolare, l’eredità Burial, l’asse halfstep. Giusto quel pizzico meno oscuro di quel che si sentiva intorno al 2006-2007, ma perché quello di andar contro la regola consolidata è un principio che non lo ha mai abbandonato. E ora che la regola sarebbe “capitalizzare l’eclettismo di cui sei capace”, ecco cosa ti tira fuori…
https://soundcloud.com/omunit/cbr008-boxcutter-gnosis-e-p
[title subtitle=”Feadz, prima di tutto la fantasia”][/title]
Fabien Pianta è uno Ed Banger al 100% già da diversi anni, quindi col dubstep sulla carta non dovrebbe entrarci nulla. Prima era nella BPitch, e anche lì, dubstep proprio zero. Eppure in qualche modo le affinità -step han fatto presa, perché “Instant Alpha”, l’album di debutto uscito a gennaio, ne è pieno. Dubstep come può esserlo un disco Ed Banger, ovvio, quindi pieno di fantasia e irriverenza, coi giusti additivi electro e la componente ritmica mai ferma. Eppure dubstep in quantità tali che alla Ed Banger non si erano mai viste, tant’è che viene da chiedersi se non sia proprio oggi il momento giusto per la riscoperta consapevole di quel sound, ora che se ne può applicare liberamente l’elasticità senza che scoppi lo scandalo. Soprattutto se si riesce ad andare oltre la gabbia di genere, come fa il singolo “Metaman”: una specie di ibrido ribelle figlio di dubstep, footwork e trap che in realtà resta fuori da ogni inquadramento possibile. Prima di tutto la fantasia.