Se prendessimo come riferimento il mondo dance nei giorni nostri, nella percezione diffusa che di esso si può avere, un ragionamento ampio sulla techno e i suoi percorsi storici potrebbe suonare come un’operazione nostalgica e antiprogressista. Perché molto è cambiato rispetto ai riferimenti della memoria storica, perché anche la techno ha oramai imboccato la direzione dello spettacolo, coi contenuti e i personaggi volentieri estremizzati per esigenze di business e con la forbice tra “divi” e “underground” sempre più larga, a disegnare un divario di esigenze e concezioni al limite della conflittualità. E invece è proprio adesso che è utile gettare di nuovo l’occhio alle radici, osservando ciò che è stato con la consapevolezza di ciò che dopo è diventato, senza l’ansia di dover giudicare il bello e il brutto, interpretando il noto, diffuso, ricorrente trend della retrologia, che vuole ribadire – prima di tutto a sé stessi, poi a chi ascolta – quali son stati i momenti più alti dell’estetica in questione.
Occhio alla scelta di parole: quei momenti non li si è definiti “belli” o “efficaci”, ma “alti”. La techno non si è mai mostrata troppo interessata ai concetti di piacevolezza, di accompagnamento, di seduzione dell’ascoltatore. Quelli vengono generalmente lasciati alla sorella d’arte, la house. No, la techno è musica che insegue il tempo, che spinge verso il domani, che catalizza l’uomo e lo proietta lungo le forme sonore più progredite che possano stimolare la sua corteccia cerebrale. Quando nasce, nei primi anni ’80, sta seguendo fedelmente ciò che i Kraftwerk avevano iniziato, tirando le fila dei vari percorsi electro, funk e disco e proponendo un’accelerazione delle naturali conseguenze. È musica dotata di energia alfa dominante. Di più: è filosofia. Non a caso l’origine è convenzionalmente collocata a Detroit, ai tempi un territorio economicamente al declino e dominato dal pessimismo, con una generazione giovane estremamente bisognosa di una dimensione altra, magari anche irreale, in cui poter coltivare speranze per il futuro. E allora il futuro diventa il punto di fuga, la divinità a cui votarsi, la via della salvezza. E la techno è la creatura nata dalla sua costola: un’entità inquieta, dal cuore scuro, geneticamente incline all’avanguardia, che nel tempo ha saputo evolversi in mille modi. Ha voluto alternare momenti più spigolosi ad altri più armonici. Ha saputo offrire l’eccesso dello sballo ma anche il suo opposto. Ha voluto inseguire l’arricchimento per poi ripiegare sull’essenziale. Ha deciso anche di interagire con l’attitudine pop, di farsi musica di successo, mentre dietro le quinte ruggiva e magari arrivava a oltrepassare i limiti di velocità del ritmo.
Quelli che vedrete qui sotto non sono “i migliori dischi techno di sempre”, ma piuttosto dieci tappe che rappresentano altrettante fasi storiche cruciali della techno. Qui troverete prima di tutto un percorso, una traiettoria evolutiva. Una storia. Perché la techno, prima ancora che personaggi, album, tracks e festival, è un racconto: mentre è cresciuta e si è fatta grande ha toccato ogni tipo di forma, quindi non stupitevi se tra questi dischi ne troverete qualcuno che “forse forse non è esattamente techno”, e magari ne mancheranno altri che “oh sì, questo come techno non potevi mica escluderlo!”. Perché le storie sono fatte anche per rimescolare le carte, per introdurre visioni diverse. E magari vogliono provare a vedersi come qualcosa capace di coinvolgere un orecchio diverso dal nostro, di tornare utili anche a chi non si è mai integrato coi suoni a noi familiari. Per noi, invece, è un’occasione per rispolverare le nostre radici, ma anche un modo per disegnare un percorso storico più aggiornato, dove finalmente rientrano anche i giorni nostri. Perché fare la storia della techno citando in maniera enciclopedica solo dischi di almeno vent’anni fa è – diciamolo – da nostalgici diffidenti verso la modernità. E noi qui vogliamo troppo bene alla techno per considerarla una faccenda da mettere nella bacheca dei ricordi. Voi seguiteci: si parte dall’inizio-inizio e si arriva ad avantieri.
[title subtitle=”Cybotron – Enter (1983)”][/title]
Che la techno nasca a Detroit, per mano dei famigerati ‘Belleville Three’ Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson, è pacifico. Non tutti però concordano sul primo brano techno della storia, dividendosi prevalentemente tra chi riconosce in “Clear” dei Cybotron – anno 1983 – il primo pezzo compiuto e chi invece vede quel pezzo come figlio dell’electro europea e per sicurezza preferisce invece arrivare a “No UFO’s”, hit datata 1985. In entrambi i casi la testa creativa è quella di Juan ‘The Originator’ Atkins, ma è nell’album dei Cybotron, gruppo creato da Atkins insieme al più navigato Richard Davis, che si percepiscono in maniera chiara le origini e lo spirito fondante della techno. Quel che c’era prima e quel che dopo sarebbe divenuto: perché ci sono sì i Kraftwerk (quelli di “The Man-Machine”, praticamente in ogni traccia, con tanto di campionamento esplicito di “The Hall Of Mirrors” in “Clear”), c’è l’influenza europea lato electro e synthpop, ma c’è anche l’impianto ritmico più cattivo e meccanizzato (“Cosmic Raindance”), l’immaginario robotico (“El Salvador”), l’uso dei sintetizzatori in modo quasi claustrofobico (“R-9”). E sopra ogni cosa, la dimensione filosofica, proveniente più da Davis, espressa con versi da predicatore (‘The new day begins tonight’, ‘Enter the next phase’, ‘Technofy your mind’) che non intendono lasciar dubbi sulla natura di spartiacque che la techno vuol rappresentare tra l’ieri e il domani. Qui le etichette di genere contano poco, per chi subisce il fascino del progresso e del futuro questo è disco della vita.
[title subtitle=”Various Artists – Techno – The New Dance Sound Of Detroit (1988)”][/title]
Come sia stato possibile che dalla sola mente di tre giovanotti appartati sia nato uno dei movimenti musicali più duraturi e articolati di sempre resta uno dei misteri più affascinanti della storia della musica. Eppure è successo: Atkins, May e Saunderson (con Eddie “Flashin'” Fowlkes subito a ruota) si fecero le loro etichette, si misero in gioco come dj dentro e fuori la città, si mantennero allineati con le novità house che venivano da Chicago e fu il boom. La parte centrale degli ’80 vide Detroit farsi conquistare da questi nuovi fervori e la comunità di produttori divenne improvvisamente folta e affiatata. Paradossalmente, però, il disco più importante ed emblematico della prima Detroit techno non fu un’iniziativa locale. Lo mise in piedi Neil Rushton, storico dj della scena northern soul inglese: la raccolta “Techno – The New Dance Sound Of Detroit” fu quella che per l’Europa intera diede l’identità definitiva al sound techno, battezzandolo una volta per tutte (nonostante non fu il primo a usare il termine ‘techno’) e provando a mettere un po’ d’ordine nella percezione confusa che ai tempi gli europei avevano della “nuova musica USA”. Dentro ovviamente ci sono tutte le tracce più importanti della prima ondata di Detroit: “It Is What It Is”, la celebre didascalia fornita da Derrick May, incarna perfettamente la fantasia e l’eclettismo che solo lui ha saputo dare a una techno fluida quanto il funk, “Big Fun” era il volto del successo globale firmato Saunderson, “Techno City” è la lezione acida fatta dal padrino, e poi via per i nomi a contorno, il Fowlkes spastico di “Time To Express”, la groovosissima “Sequence 10” di Shakir, doppio Blake Baxter con “Forever And A Day” e “Ride Em Boy” e pure “Share This House”, una delle primissime produzioni del Mike Banks pre-Underground Resistance. Compilation di altissimo valore storico e sempre capace di provocarti un tuffo al cuore.
[title subtitle=”LFO – Frequencies (1991)”][/title]
Nel 1991 l’Inghilterra è un posto piuttosto movimentato: i nuovi suoni house e techno importati dagli USA han fatto breccia negli ambienti europei, la cosiddetta ‘second summer of love’ è ancora cosa fresca e il fenomeno rave ha dimensioni tali che ormai la cara Thatcher lo considera un problema di ordine pubblico. In questo contesto, su una label semisconosciuta che però sembrava promettere bene di nome Warp, esce “Frequencies”, quello che un Reynolds abbastanza di parte definì successivamente ‘il primo grande album techno della storia’. La cosa più curiosa però è la dedica contenuta nel booklet, dove gli LFO parlano di house, citano nomi di genere come Phuture e Mr. Fingers (oltre che Depeche Mode e Yellow Magic Orchestra, quando il pop arrivava per primo…) e su techno e Detroit nemmeno un accenno. Una stranezza che si spiega in parte con la percezione ancora confusa e ibrida di ‘ciò che veniva dagli USA’, in parte con l’attrazione che i due di Leeds sentono forte per le teorie acid d’oltreoceano. Non è un caso che “Frequencies” diverrà poi il capostipite della variante nota come bleep’n’bass: bassi profondi da mandare al manicomio i sonici dell’epoca e quell’intreccio di inserti sintetici d’ispirazione acid house che diverrà poi il marchio a fuoco della rave music. Il singolo omonimo fu uno dei più suonati nei famigerati party di periferia, ma a resistere meglio oggi sono pezzi come “Simon From Sidney” (un flirt micidiale tra aggressività technoide e armonie melodiche già pronte per il tag ‘intelligent’), “Freeze” (un martellamento di stomp e synth analogici orchestrato senza correre, penetra la corteccia cerebrale ma con un calmo sorriso sulle labbra) o “Mentok 1” (tributo proprio al suono urticante delle “Acid Tracks” dei Phuture). È lo stile inglese, coraggioso, eterogeneo e beffardo come lo conosciamo oggi, che inizia a farsi un nome anche tra le nuove avanguardie dance.
[title subtitle=”Jeff Mills – Waveform Transmission Vol. 1 (1992)”][/title]
Siamo al ’92 e tocca tornare a Detroit, perché nel frattempo sta succedendo qualcosa di grosso. C’è una nuova generazione di produttori che sta portando il sound techno oltre il proprio spirito originario: quel che nasceva dagli umori kraftwerkiani e dalla meccanizzazione delle teorie funk sta diventando più pungente e cattivo, l’aria si fa più asettica, i tempi accelerano e le direzioni iniziano a moltiplicarsi: è quella che chiameranno la “seconda ondata della Detroit Techno”, proprio a volerne sottolineare un carattere diverso, un altro modo di relazionarsi con la propria idea di futuro. Ne farà parte una fila ben più eterogenea di produttori, dagli Underground Resistance della militanza urbana al Robert Hood della ricerca dell’essenziale, dai virtuosismi di Carl Craig all’entusiasmo di un canadese trapiantato nella motor city di nome Richie Hawtin. Gli album imprescindibili qui diventano troppi, ma se ce n’è uno che più degli altri fa saltare agli occhi la rivoluzione sonica del periodo, quello è il primo Waveform Transmission firmato Jeff Mills: lo stacco netto lo senti limpido ancora oggi, quando schiacci play e partono i 150 bpm di “Phase 4”, una corsa sfrenata lungo metalli stridenti e stomp marziali, il robot che prende il sopravvento e improvvisamente rifiuta il controllo umano, distruggendo ogni cosa. Sparisce ogni componente armonica e prendono posto le velocità dei rave europei, l’hardcore è a portata di mano eppure resta una componente intellettuale che non cede alla fisicità, mantenendo sempre una tacita relazione insana con le connessioni neurali. L’album non rallenta mai, anzi arriva ad annegare ogni simmetria rassicurante nell’agonia sintetica di “The Hacker”, e “Changes Of Life” sembra quasi un errore, un cameo non richiesto del Derrick May di “Strings Of Life”, subito aggredito da una cassa killer che lotta per il sopravvento, il cobra contro la mangusta. Forse il disco che più ti mette in gioco in prima persona, esigendo una parte attiva da un ascoltatore improvvisamente messo in soggezione. Tremendo.
[title subtitle=”Various Artists – Artificial Intelligence (1992)”][/title]
E di nuovo in UK. Eccolo qua, il famoso androide disteso in poltrona coi vinili dei Pink Floyd e Kraftwerk sul pavimento. Il disco che ha inventato l’etichetta ‘intelligent’ e ha di fatto creato le condizioni per l’ascesa a mito dei mostri sacri dell’IDM anni ‘90, iniziando ufficialmente l’età d’oro Warp. La compilation esce nell’estate del ’92, esattamente nell’apice storico del fenomeno rave, con un concept estremamente ambizioso: intellettualizzare i fermenti ‘ardkore del tempo, conciliarli col risvolto chillout che regolarmente si portavano dietro e innalzarli a uno stadio più nobile, finalmente accessibile a un pubblico da salotto incompatibile per natura con sballo e eccessi. Non esattamente un ‘fuck dance, we are artists’, ma più un modo per portare le basi dell’ambient music a un nuovo livello di complessità. Il primo disco della serie è una delle tappe fondamentali per l’evoluzione della techno: dentro ci sono tutti, l’Aphex Twin misterioso di “Polygon Window”, gli Autechre con uno dei loro pezzi migliori di sempre (“The Egg”), i Black Dog/Plaid nel massimo stato di forma (“The Clan”), l’Alex Paterson già metà dei The Orb in una delle sue prove più space (“Loving You Live”) e anche un paio di personaggi che presto si sarebbero fatti un nome su lidi totalmente diversi, Speedy J e Richie ‘Plastikman’ Hawtin, sorprendentemente atmosferico il primo in “De-Orbit” e “Fill 3”, già aggressivo il secondo in “Spiritual High”. Un ascolto illuminante per comprendere le mutazioni dell’elettronica nei novanta.
[title subtitle=”Basic Channel – BCD (1995)”][/title]
L’eccitazione prodotta dai nove 12” firmati Basic Channel, usciti tra il ’93 e il ’94 dietro un impenetrabile alone di mistero, è una di quelle leggende moderne che i presenti raccontano ancora oggi. Un suono che sembrava provenire da un’altra dimensione, le frequenze basse che prendono vita e scandiscono il battito cardiaco del verbo techno, i tempi che improvvisamente non sembrano più voler accelerare verso un futuro da inseguire ma preferiscono guardare dentro loro stessi. Come se la techno a un certo punto si fosse distesa sul divano, in una singola seduta psicanalitica volta a trovare la sua vera identità. Ed è qui, in mezzo a quell’assetto asciutto e a quei riverberi profondi che gli valsero l’etichetta dub-techno, che si scopre la parte umana dell’organismo techno: il sangue che circola in “Radiance II”, i timori che si agitano beffardi in “Presence”, le ambizioni e le speranze (“Q1/II”), il calore e il bisogno di contatto (“Quadrant Dub I”). Più avanti si scoprì l’identità dei due berlinesi nascosti dietro la label, Moritz von Oswald e Mark Ernestus, ma nel frattempo era già stata scritta una delle pagine più importanti della storia techno, nonché uno dei volti che più hanno alimentato l’amore viscerale delle file intellettuali del pubblico techno (insieme a quella glitch-techno astratta che si andava sviluppando in parallelo soprattutto per mano di Mika Vainio coi suoi vari alias). Ai nove vinili seguì “BCD”, compilation atta a sintetizzare su un unico, necessario ascolto lungo l’intensità dei singoli precedenti, come analogamente accadde qualche anno dopo per Maurizio, l’altro prolifico alias del duo. Il lato più intimista e introspettivo che la techno abbia mai avuto è tutto qui.
http://youtu.be/OAz4XkonQb8
[title subtitle=”Joey Beltram – Classics (1996)”][/title]
A metà anni ’90 qualcuno dalle parti di Londra vedeva la techno come una scena ormai satura e con poco futuro. Sarà che l’Inghilterra aveva un suo personale punto di vista sulla cosa, determinato dalla predilezione per il materiale jungle/d’n’b (e i suoi vari risvolti intelligent dai nomi strani: drill’n’bass, braindance, neurofunk…) e risultava abbastanza impermeabile a ciò che stava accadendo fuori confine. Gli ambienti mitteleuropei, invece, mostravano da tempo una certa attenzione a quel che proveniva dagli USA, la Tresor di Berlino aveva già stretto un’alleanza di ferro con i personaggi d’oltreoceano e nessuno sembrava perdersi alcuna espressione della second wave of Detroit. In quel periodo ci pensò l’etichetta belga R&S a fermare per un attimo la storia, con la raccolta dei pezzi europei di Joey Beltram intitolata senza troppi peli sulla lingua ‘Classics’, tanto per alimentare il culto di uno dei personaggi storicamente più influenti per la techno del tempo. La compilation conteneva ovviamente “Energy Flash” (capostipite riconosciuta della hard techno ma la cui influenza arriva anche all’electrorock e al big beat di diversi anni dopo), “Mentasm” (quella del terrificante ‘hoover sound’ targato Roland Alpha Juno, il suono rave per eccellenza), “Subsonic Trance”, “My Sound”, tutti pezzi fondamentali per l’hardcore. Eppure l’ascolto complessivo non può dirsi davvero aggressivo, racchiudendo in sé la fase di passaggio tra il prima (tipo i Technotronic, vedi “The Melody”) e il dopo (nei suoi eccessi sempre più spinti, verso “Sub-Bass Experience” e oltre). La classica perfezione estetica che si raggiunge quando hai 20 anni e che ti trasforma nell’emblema di un’intera epoca.
[title subtitle=”Ricardo Villalobos – Alcachofa (2003)”][/title]
“Easy Lee” è un pugnale affilatissimo lanciato dritto per strappare il telo della percezione di massa. Un lungo giro ipnotico di vocoder impiantato su un ritmo essenziale, scarnificato di ogni elemento superfluo, l’impianto crudo volto a far risaltare la potenza del ritmo, teso a creare lo spazio necessario per la massima efficacia dei singoli strati in modo che l’ingresso della linea di basso, o del raggio melodico, o dell’inserto sintetico, diventi penetrante al punto da costringere l’ascoltatore a focalizzarsi sull’essenza del suono. Il concetto fondante della minimal è tutto qui. Non che la minimal l’abbia inventata Villalobos, ovvio. Ci aveva già pensato la seconda generazione detroitiana, con Robert Hood in testa, a propugnare per tutti i ’90 un suono rigoroso e ortodosso, che facesse da contraltare intellettuale all’ipertensione generata dalla deriva hardcore. Però, ecco, perché facesse davvero presa ci voleva qualcosa in più. E quel qualcosa in più il dj cileno ce l’ha sempre avuto: la sensibilità latina gli consente di entrare in dialettica con le linee classiche di produzione techno, di giocare di fantasia pur tenendo fermo l’orizzonte concettuale, inserendo giri di corda, alleggerimenti atmosferici, grinta electro e spinte EBM in modo da solleticare tutti i centri nervosi messi a disposizione dal pubblico di settore. “Alcachofa” è il primo album, l’espressione più amata di un producer destinato a diventare una delle superstar del clubbing mondiale. Presto la sua diverrà una figura discussa per certi rapporti poco equilibrati con le droghe (non è il primo e manco l’ultimo, ma sicuramente uno di quelli che si è nascosto di meno) e anche il processo minimal subirà un degradamento verso l’omologazione tipica dei prodotti in serie, ma qui sono entrambi nel loro massimo stato di forma. E si sente anche dieci anni dopo.
[title subtitle=”Mr. Oizo – Moustache (Half A Scissor) (2005)”][/title]
Ora ragioniamo: a metà anni 2000, dopo vent’anni in cui la techno ha coperto qualsiasi terreno possibile e con la fissa minimal ancora freschissima, cosa può significare produrre techno? Beh, ancora moltissimo. Mentre un po’ tutti cercano la riscoperta, il nuovo affondo nei volti storici del genere (anche come reazione alla massificazione in corso), c’è ancora chi è capace di guardare avanti. Nel modo più naturale e allo stesso tempo arduo possibile: usare la techno come massimo ambiente di libertà creativa e farne un’alcova di sperimentazione estrema. D’altronde resta uno dei generi che storicamente hanno posto meno paletti formali ai propri discepoli, no? Ecco dunque che arriva Mr. Oizo, un francese mezzo pazzo da poco salito agli onori di cronaca per via di “Flat Beat” e del famigerato pupazzetto giallo, ma che ora ha intenzione di divertirsi sul serio. “Moustache” è pura avanguardia molesta e insolente, atta a distruggere ogni possibile appiglio di comprensione o accoglienza per l’ascoltatore, nonché l’unica vera chiave di lettura del mondo Oizo. 17 tracce di ribellione violenta per circa mezz’ora di ascolto in cui non c’è un suono che mantenga la continuità con quello immediatamente precedente, un futurismo folle atto a confondere, mettere a disagio, respingere. A meno di non sentirlo un numero di volte adeguato a entrare dentro la sua natura psicotica. Sul booklet, tra le varie altre cose, sta scritto: “Do you like normal music? What is normal music? Are you frustrated? Do you think music can help you? Why?”. Quando lo sentì Laurent Garnier, lo bocciò come “inascoltabile” e gli negò a primo impatto la pubblicazione nella sua F Communications, causando la rottura e il passaggio di Oizo verso la Ed Banger, mentre “Moustache” fu poi ristampato nel 2011 dalla Brainfeeder di Flying Lotus. Nessun altro disco ha mai avvicinato così tanto la techno a Trout Mask Replica.
[title subtitle=”Paul Kalkbrenner – Berlin Calling (2008)”][/title]
E così arriviamo ai giorni nostri. La techno non è più feticcio per pochi, da lungo tempo riempe i festival e ha un suo pubblico di massa. E soprattutto, ha i suoi divi: personaggi sui quali convogliano i desideri escapisti di un pubblico mai stato così generalista, e che nello stesso tempo raccolgono l’odio degli appassionati più ortodossi, che contestano una spettacolarizzazione non necessaria di un genere storicamente fondato su una fruizione più intima (sia quella mentale o quella dedicata a una comunità di clubbers comunque ristretta). È la techno delle rockstar, dei Richie Hawtin e dei Villalobos, coi loro eccessi e le loro controversie, performers d’arena prima ancora che producers. Tra i miti techno della nuova generazione, però, Paul Kalkbrenner è probabilmente quello che più di tutti fa scattare nei fan il meccanismo di identificazione. Il perché è ovvio: “Berlin Calling” è sì il film che l’ha reso una superstar ma è soprattutto la rappresentazione definitiva della cultura techno per i giovani d’oggi, con le dipendenze nocive e le aspirazioni benefiche, con l’ambizione naturale di voler “essere qualcuno” che si scontra con la vita reale. Di quel film Kalkbrenner è l’attore protagonista ma soprattutto l’autore di una colonna sonora che incarna il profilo più pulito e accessibile che la techno possa avere: senza alcuna imperfezione, tagliata su misura per il grande pubblico da un professionista della dimensione popolare. Ovviamente la primadonna è “Sky And Sand”, l’inno dei techno-fighetti ma anche una delle tracce più amate dalla generazione odierna, eppure la perfezione delle forme, in “Berlin Calling”, sta anche nel passare dal calore morbido di “Aaron” e “Azure” alle durezze urbane di “Torted” e “Castenets”, nel coprire un ventaglio completo di umori, speranze e depressioni, ansie e liberazioni, tutto quel che spontaneamente l’ascoltatore può proiettare nella “sua” musica. È anche per questo che la techno è tanto amata, su livelli diversi, da anime di natura differente, come solo con le grandi arti può accadere.
Adesso possiamo immaginare cosa state pensando. “Ma come, hai messo Oizo e Kalkbrenner e non (nomi in ordine casuale) Drexciya, Plastikman, Underworld, Carl Craig, Laurent Garnier, Sandwell District, Underground Resistance, Sven Vath?”. Naturale quanto respirare: l’aspetto più intrigante di ogni selezione o classifica è la possibilità di potersi identificare in essa, l’ebbrezza di veder rappresentate le proprie preferenze. Ma l’intenzione principale del nostro percorso ve l’abbiamo presentata già nel titolo e nella intro, ossia raccontare i cambiamenti, le sfide che la techno ha affrontato – e affronta tutt’ora – nel suo restare viva e attiva in tutti i suoi 30 anni di vita, e anche chi vi scrive si è ritrovato a dover ingoiare dei bocconi amari in onore di una copertura orientata a questa mission (in quanti avremmo voluto un Lory D lì in mezzo, e non solo per romanticismo). Ma quel che ci sembra importante oggi è coltivare l’idea di una techno mai ferma, che non si chiude in sé stessa, che conosce il mondo in cui vive e ha sempre una risposta autorevole da dargli. È per questo che la nostra storia è arrivata fino ai tempi recenti. Voi lo sapete, da queste parti amiamo la techno, e non ci arrendiamo a considerarla un’entità che ha alle spalle le sue migliori espressioni e che dunque deve salvaguardare il proprio spirito originario. Di lei amiamo il fatto che da sempre i tempi li detta, non li subisce. C’è ancora tanto futuro che sfugge alla nostra comprensione, e ancora oggi lei è la sola che può spiegarcelo.