Crescere non è mai una cosa semplice, soprattutto se come ragione sociale ti sei scelto un diminutivo e quel diminutivo ti è rimasto attaccato per tutta la vita: Alberto Di Molfetta, è per tutti Albertino. Da sempre. Lo era prima di entrare a Radio Deejay, prima di diventare il conduttore del programma radiofonico più importante (anche a livello di numeri) degli anni ’90, prima di riempire i palazzetti dello sport di tutta Italia e portare in onda il rap quando il rap non aveva la fama e il seguito che ha adesso. Ha continuato a esserlo anche una volta che l’esperienza del Deejay Time si è conclusa e sono arrivati Zelig, Asganaway e la sua carriera è entrata ufficialmente in una nuova fase. Una maturità acquisita sul campo, che pur restando irrimediabilmente connessa all’universo giovanile si è via via spostata verso il puro intrattenimento. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa, a trent’anni esatti dal suo debutto su Radio Deejay, e ne abbiamo approfittato per fare un po’ il punto della situazione sul passato, il presente e il futuro di un personaggio che, a modo suo, ha cambiato la club culture italiana.
Partiamo dall’occasione celebrativa, intanto: se non sbaglio quest’anno festeggerai i tuoi trent’anni di radio…
Trent’anni di Radio Deejay, perché altrimenti la somma diventa anche più alta!
I tuoi veri inizi a quando risalgono?
Io sono arrivato a Deejay nel 1984, ma ho cominciato molto prima. Diciamo intorno al 1979, avrò avuto diciassette anni. Ho fatto un paio di anni in quella che era la vecchia Radio Milano International. Cavoli, è davvero tanto tempo!
Immaginavi che ci saresti rimasto per tutto questo tempo, che Radio Deejay sarebbe diventata la tua casa?
La verità è che non ho mai davvero avuto il tempo di pensarci, di farmi questa domanda, perché tutto è passato talmente in fretta che davvero non è stato possibile ragionarci su. Trent’anni fa, quando ho cominciato a fare questo mestiere, neanche pensavo potesse essere considerato un lavoro o che si potesse fare il dj dopo trent’anni di carriera, figuriamoci, poi, continuare a mettere i dischi nei locali pur non essendo più un ragazzino. Ora invece mi guardo e mi ritrovo adulto, a cinquant’anni, che ancora passo i weekend nei club mettendo musica per ragazzi che hanno meno della metà della mia età mentre ogni giorno affronto il mio lavoro in radio con grande divertimento ed entusiasmo, e anche se adesso è più spostato verso l’intrattenimento continuo a ritagliarmi i miei spazi dedicati alla musica. Che poi resta la motivazione principale per cui ho cominciato a fare tutto questo. Per cui no, non lo immaginavo, era impossibile immaginarlo.
Hai iniziato prima con la radio o come dj nelle discoteche?
Sai, all’epoca fare lo speaker radiofonico voleva dire dovere sapere fare un po’ tutto quanto. Non era come ora, dove il mestiere del dj è composto da diverse discipline: c’è chi fa una cosa e chi ne fa un’altra, chi parla e chi cura la regia, la parte tecnica. Non potevi lavorare in una radio se non sapevi cosa fare con certi aggeggi, bisognava avere una buona manualità e non solo sapere parlare correttamente. Era obbligatorio sapere usare bene il mixer, i giradischi e le due cose si sviluppavano in maniera parallela. A quel punto farlo in radio o farlo in discoteca era la stessa identica cosa. Cambiava poco.
Si può dire che trascorrendo trent’anni dentro Radio Deejay tu abbia vissuto da protagonista almeno tre rivoluzioni tecnologiche e che il modo di fare radio sia cambiato quasi radicalmente. Giusto?
Eh sì, io sono passato dai giradischi a cinghia, a quelli a presa diretta, alle audiocassette. Quelle col nastro più grande rispetto alle cassette normali e che dovevi usare con il Revox, il mitico registratore a bobina, quando per fare una edit bisognava tagliare fisicamente il nastro con un taglierino e poi incollarlo con lo scotch. Poi c’è stata la Jingle Machine, una macchina che veniva usata perché aveva la stessa velocità della messa in onda delle sigle, dei jingle appunto, e da lì siamo passati al DAT, al CD, e alla fine è arrivato il computer. Per cui pian piano abbiamo eliminato tutto quello di cui ti ho parlato fino a ora, per arrivare a oggi dove tutto passa per un grande server collegato con dei PC, presenti in ogni studio, su cui ci sono delle cartelle di file da cui noi attingiamo per la messa in onda.
Se ci pensi tutto questo è coinciso con il cambiamento della radio anche per quanto riguarda la fruizione da parte di chi la ascolta…
Beh la radio una volta era il posto della musica, il luogo dove lanciare e creare delle mode, dove c’era anche la possibilità di sperimentare perché a differenza di oggi non era concepita come un’azienda dove, ovviamente, contano prima di tutto i numeri. Pensa che il mio momento di maggiore successo, parlo proprio anche a livello d’ascolti, l’ho avuto agli inizi degli anni novanta passando la techno e adesso come adesso non sarebbe possibile replicare qualcosa del genere. Per cui sì, io sono stato coraggioso a insistere per portare una cosa di quel tipo in radio, ma più di me lo è stato chi comandava e me l’ha permesso. La stessa identica cosa che poi si sarebbe ripetuta con l’hip-hop e trasmissioni come Venerdì Rappa e One-Two/One-Two. Oggi quel tipo di coraggio lì un po’ manca, la radio è sempre il mezzo da cui nascono e per cui passano i grandi successi, nonostante siamo diventati un po’ chiacchieroni e la musica è ormai in secondo piano rispetto alla parola, ma il posto dove succedono le cose ormai è un altro. I curiosi, i più giovani anche, li trovi tutti su Internet.
Nomini gli anni ’90 e subito viene spontaneo parlare del Deejay Time. Io ho trentaquattro anni e ovviamente ricordo perfettamente com’era tornare a casa dopo la scuola e sentire una cosa del genere, all’ora di pranzo, in cui la radio si trasformava in un club, i dischi venivano passati uno dopo l’altro e una generazione intera si fermava ad ascoltare una trasmissione che in un certo senso non aveva avuto precedenti.
Guarda devo dire che recentemente mi è capitato di ascoltare delle vecchie puntate e sono rimasto anche io colpito dalla freschezza di quella cosa lì. Alcune cose sono ancora di un’attualità pazzesca, forse anche per via del modo in cui lo show era realizzato. Non credo che esistesse qualcosa di simile prima del Deejay Time e in un certo senso non c’è niente di paragonabile neanche oggi, anche se sento diversi programmi che provano a scimmiottare quello stile, ma con scarsi risultati, copiandoci ma in peggio. Ma parliamoci chiaro, non lo dico con risentimento: copiare in questo mestiere è più che lecito, perché si può prendere un’idea e svilupparla fino a renderla migliore, ma…
D’altronde, sai come si dice, l’emulazione è la più grande forma di adulazione. Chi ti copia, in qualche modo, ti sta anche attribuendo un ruolo.
Ma io non voglio un ruolo, io vorrei solo che venisse riconosciuto che quel modo di fare radio è una cosa che ho inventato io, che prima non c’era, e che in tanti dopo hanno cercato di rifare. Vorrei solo che le giovani generazioni non confondessero la copia con l’originale. È questo che non mi piace, tutto qua.
Il Deejay Time, soprattutto agli inizi, veniva visto come il regno della musica usa e getta, il manifesto generazionale di una generazione che non aveva voglia di pensare. Poi di colpo la percezione è cambiata, il fenomeno è esploso davvero, voi avete riempito i palazzetti e sui giornali si è cominciato a discuterne in altri termini. Eravate quelli che venivano interpellati per “spiegare i giovani”, di colpo siete diventati un modello virtuoso. Col senno di poi possiamo forse dire che sì, passavate tanta fuffa, ma è in quel programma che per le prima volta si potevano ascoltare dischi (penso agli Underworld, a certo rap, la techno) che altrimenti non sarebbero mai finiti in certi spazi, su una radio commerciale, nel programma di punta, all’ora di punta.
Sì, diciamo che abbiamo sicuramente avuto il merito di avere fatto ricerca all’interno di una trasmissione di successo, perché di base il nostro mestiere dovrebbe sempre essere così: tu dovresti scoprire una cosa che ti piace e portarla agli ascoltatori, lanciare cose che pensi possano funzionare e dargli il massimo della visibilità. Ovviamente, per forza di cose, capitava anche di inciampare nella fuffa, ma faceva parte del gioco. In Italia c’è questa tendenza a condannare sempre ciò che è molto popolare, cosa che in altri paesi non avviene. Se ci pensi quello che sta succedendo ora, negli ultimi quattro anni, con la EDM non è molto diverso da quello che era accaduto qui negli anni novanta. Però Guetta è riconosciuto come una superstar internazionale, mentre Albertino era “quello della commerciale”. Definizione che ho sempre trovato orribile, che non vuol dire un cazzo, e che è sempre stata usata in maniera denigratoria. Un certo tipo di pubblico, soprattutto, ha sempre guardato a noi con grande disprezzo, anche quando poi siamo diventati un fenomeno, per certi versi, sociale. Col senno di poi è chiaro che mi fa più piacere avere messo in onda gli Underworld molto prima del boom di Trainspotting, e non Corona che però quando viene riproposta dai Bastille diventa una figata mentre allora per molti era una cagata. Nonostante tutto, io credo che la chiave del nostro successo sia stato il linguaggio perché, insomma, a mettere 30 dischi in fila erano buoni tutti, ma solo noi facevamo quella cosa in quel modo lì, molto serrata, con parlati brevi al limite dello slogan, l’uso dei sampler, i jingle fatti utilizzando le canzoni, l’inserimento di voci esterne che rendevano il programma quasi un cartoon. Per cui sì, rapidamente ci siamo ritrovati a essere ‘quelli che parlavano ai giovani’ e la cosa ci faceva davvero molto ridere.
La forza del Deejay Time, rispetto agli altri programmi dell’epoca, è che era davvero diverso da tutto il resto. Sembrava una trasmissione, perdonami il termine, “prodotta”…
È uno degli elementi che rendeva unico il programma, e di cui ancora vado molto orgoglioso. La nostra bravura per me era proprio quella di riuscire a fare una sorta di produzione in diretta, a fare sembrare pre-montate cose che invece venivano fatte all’impronta, e volendo anche il contrario. Questo era possibile perché tra me e Fargetta c’era un’interazione incredibile, sapevamo esattamente cosa fare e come, ci conoscevamo alla perfezione e funzionavamo come una macchina. Lui è bravissimo tecnicamente a fare quelle cose lì e io in quegli anni ero in stato di grazia, mi sentivo un po’ come quando Pirlo fa un passaggio che tu lo guardi e dici: ‘Ma come ha fatto a metterla lì, e in quel modo poi?’. Ecco, ci venivano naturali delle cose che meravigliavano per primi anche noi.
Probabilmente mi sbaglio, ma è una sensazione che un po’ nasce dalla lettura di alcune tue interviste dell’epoca; per certi versi è come se tu prendessi sempre le distanze da quella che era la musica del Deejay Time, come se non ti rappresentasse del tutto anche se eri in grado di riconoscerne l’impatto e la portata storica, parlo proprio di spirito del tempo, è davvero così?
Sono contento che tu dica questo, perché davvero vuol dire che sei riuscito a cogliere diverse sfumature della mia personalità. Diciamo che è verissimo quello che dici, e in parte è anche il motivo per cui a un certo punto ho sentito l’esigenza di smettere con quel tipo di programma, perché in qualche modo eravamo vittima di un vortice che parte dalla promozione discografica e che passava per certe produzioni italiane davvero tremende. Per cui sì, c’è stato un momento in cui mi sono guardato indietro e ho iniziato a farmi delle domande. Era il periodo in cui andava fortissimo Gabry Ponte con “Hanno impiccato Geordie con una corda d’oro” e io che avevo cominciato a diciassette anni ascoltando Stevie Wonder mi chiedevo davvero come avevo fatto ad arrivare fino a quel punto lì. Che poi, parliamoci chiaro, non voglio sputare nel piatto dove ho mangiato, per esempio “Blue” degli Eiffel 65 per me è un pezzo che ha una sua dignità e che funzionava benissimo, ma intorno a quella cosa lì sono venute fuori delle robe davvero brutte e sono arrivato al punto in cui non ce la facevo più. Era arrivato il momento di smettere, anche se, come hai intuito tu, per molti anni ho semplicemente svolto un mestiere. Mi sono messo al servizio del maggiore numero di ascoltatori possibili, perché il compito della radio è anche quello, dare alla gente quello che la gente vuole. È ovvio che poi, se mi guardo dentro, sono più orgoglioso per essere riuscito a dare spazio, in uno show di grande successo, a cose come appunto gli Underworld, i Public Enemy, o Ultra Nate, rispetto ad altre cose di cui invece, riascoltandole, vado molto meno fiero. E in quei casi cercavo di proporle con leggerezza, ironia, trovando un escamotage che le rendesse quanto meno divertenti nel contesto della trasmissione. Per cui sì, le mie radici sono di certo più alte di quello che la gente può immaginare e che di solito collega a me. Infatti ora, che volendo non ho più il compito di dovere per forza essere il rappresentate di un certo mondo, quando posso permettermi di fare cose che mi piacciono suono tutt’altro. Come quando suono al Titilla (al Cocoricò) o al Muretto e mi prendo delle libertà che la gente non si aspetta. Anche perché non serve che sia io a passare i pezzi che trovi nella classifica della radio, oppure le cose in stile Avicii, Calvin Harris, David Guetta, che tanto non c’è mica bisogno che li metta io, visto che sono ovunque. Però purtroppo siamo in Italia e non sempre puoi seguire le tue inclinazioni. Però oh, non è che voglio fare il fico, o quello underground, io rispetto chi viene dall’underground, io metto di tutto, se c’è da suonare quelle cose lì, perché il contesto lo richiede, lo faccio, ma se penso alle cose che proprio mi piacciono penso ad altro. Come certa roba di deep garage che davvero mi fa impazzire, mi piace proprio, ma purtroppo non è sempre possibile proporla.
Ecco, questa è una cosa interessante: Albertino resident al Cocoricò, ora è normale, una volta sarebbe stato uno scandalo.
Eh, diciamo che ho profanato un sacco di luoghi sacri ormai. E pure quella per me è una scommessa: non avrei mai pensato di venire accolto in certi luoghi, sempre per via della mentalità che c’è qui in Italia. Ma per un disc jockey è fondamentale crescere, cambiare, evolversi come la musica che passa, andare a cercare cose nuove. Io non sono la stessa persona che ero quando avevo i capelli lunghi, io vorrei essere nuovo ogni sei mesi. D’altronde Sven Vath negli ottanta faceva “Electrica Salsa”, ma non per questo è meno Sven Vath.
Ti è mai capitato di pensare di smettere? Ti chiedi mai per quanto ancora potrai continuare a fare serate, hai ancora voglia?
Ci penso spesso, e la risposta alla fine viene sempre da sé: i locali continuano a cercarmi, quindi vuol dire che quel momento non è ancora arrivato. La verità è che, come per la radio, io quando entro in una discoteca, con l’impiantone, la pista piena, la console, torno ancora una volta ragazzino. E mi diverto sempre come se fosse la prima volta, non riesco a farne a meno, è proprio una cosa che mi fa stare bene e che penso farò per tutta la vita. Sai quando me ne sono reso conto? Un mesetto fa, a Milano, dei ragazzi con cui collaboro mi hanno invitato a fare un dj set in un bar. Mi hanno solo detto: ‘Qui quando è pieno c’entrano al massimo cento persone, e ballano tutti tutto’, io non ho voluto compenso, ho preparato un set a bassa battuta, con campioni vari, di roba strumentale pseudo hip hop, ed è stato fantastico, bellissimo. Ho pensato proprio: ‘Cazzo, se la voglio rifare questa cosa’, e anche se ovviamente per ragioni di mercato non è che posso sempre andare a fare serate gratis, ho davvero capito che se mai smetterò di mettere i dischi in giro, vorrò comunque trovarmi una situazione del genere, perché è proprio più forte di me, mi serve, mi fa stare bene!
Prima hai nominato l’EDM, facendo tu stesso un’analogia con gli anni novanta della “commerciale”. Anche qui viene naturale ripensare al boom del Deeejay Time quando tu, Molella, Fargetta e Prezioso avete cominciato a riempire i palazzetti dello sport. Cosa che per l’epoca era abbastanza inedita, mentre ora siamo abituatissimi a vedere superstar della console che suonano nelle arene. Penso per esempio a David Guetta che la prossima estate suonerà a Roma nella stessa location di Bruce Springsteen e…
Forse abbiamo sbagliato decennio, probabilmente ora avremmo più soldi e gireremmo tutti a un cachet più alto. Scherzo eh, ma se ci pensi l’esplosione del’EDM ha ribaltato del tutto quella che era la concezione del dj. Per un dj di successo, ora come ora, è più importante essere un produttore, fare la propria musica, avere delle hit, e poi andare in giro per il mondo a suonare essenzialmente quelle. Calvin Harris lo ammette tranquillamente nelle interviste: mettere in piedi un concerto vero e proprio sarebbe difficile e dispendioso, con i dj set invece si può ottenere il massimo risultato, col minimo sforzo. Io lo rispetto tantissimo, come rispetto tutti i producer di quel tipo che a loro modo sono perfetti e hanno ridato vigore alla musica dance, ma io arrivo da tutto un altro tipo di scuola; suonare per me vuol dire navigare a vista, seguire la pista, sapere quale sarà il primo disco che metterò e non avere idea di quello che metterò per ultimo. Mentre ora va molto di moda portare in giro dei set pre-registrati, che seguono più le dinamiche dei concerti rock, con scalette ben calibrate, e i brani giusti passati nel momento giusto. Oh, capiamoci: non voglio fare il censore, non fanno altro che dare al pubblico quello che il pubblico chiede, ed è giusto così. È proprio il linguaggio del dj a essere cambiato.
“Suonare per me vuol dire navigare a vista, seguire la pista, sapere quale sarà il primo disco che metterò e non avere idea di quello che metterò per ultimo.“
Poco fa hai citato trasmissioni come Venerdì Rappa e One-Two/One-Two, sei pronto a rispondere all’obbligatoria domanda sul successo dell’hip hop italiano? Potremmo chiudere l’intervista così…
Prima di tutto, io trovo scandaloso che ci siano voluti più o meno vent’anni per far sì che quello che è a tutti gli effetti un fenomeno globale diventasse rilevante anche da noi. Poi, sì, un anno fa ho insistito tantissimo perché tornasse in onda One-Two/One-Two. Mi sembrava ridicolo che noi, che in qualche modo eravamo stati i primi e avevamo sposato il fenomeno del rap italiano prima ancora che diventasse popolare, non avessimo uno spazio dedicato all’hip hop proprio adesso che anche il grande pubblico lo ha scoperto. Quello che sta succedendo è molto facile e ha molto a che fare anche col lato teen della cosa, dove comunque conta anche avere una bella faccia. Senza girarci intorno: per un sedicenne di adesso è molto più semplice identificarsi e sentirsi rappresentato da Fedez o da Emis Killa, che da Tiziano Ferro. Ovviamente può ascoltarsi anche Tiziano e può piacergli pure molto, ma la distanza che c’è con certi personaggi del pop italiano, è stata totalmente annullata dalle star del rap. Se sei giovane e cresciuto in periferia, guardi Emis che è di Vimercate, si veste in un certo modo, dice determinate cose e lo fa col linguaggio che tu utilizzi quando parli con i tuoi amici ed è chiaro che lo capisci di più e lo senti più tuo. Poi però ci sono mille distinguo da fare, capire cosa è rap e cosa è hip hop, ed è chiaro che se parliamo solo di musica prendi il disco dei Sangue Misto e ha tutto un altro valore.