Gli Aucan non hanno rilasciato molte interviste nella loro carriera, il loro nome è avvolto da una nebbia di mistero. Oggi escono il nuovo singolo, sotto l’etichetta americana Ultra, s’intitola “Riot” in free download, e “You”, primo brano a circolare sul web del progetto solista di Jo Ferliga; Svrface. Abbiamo avuto l’occasione di scambiare due parole proprio con lui. Jo mi è stato presentato da un amico comune e organizzatore di una serie d’interessanti eventi a Berlino, sotto il progetto Incunabula. In una di queste occasioni ha presentato la premiére del suo nuovo progetto solista: SVRFACE. In un pomeriggio gelido di questo febbraio berlinese, abbiamo fatto una piacevole chiacchierata (al caldo), sondando cosa c’è sotto la superficie. Le scelte e le aspettative di tre ragazzi che, a tratti, hanno rivoltato quella che è stata la normale concezione di “produzione e live all’italiana”.
Bene, il nuovo singolo degli Aucan in free download è uscito oggi.
Sì, s’intitola Riot, ed è basato su una struttura trap, rallentata rispetto allo standard normale. Parte dall’idea di opporsi al sistema, come recita il titolo e, nonostante sappiamo che può essere un concetto abusato, avevamo voglia di mostrare anche il lato “Black Bloc” della nostra anima.
Allora parlami dell’EP di prossima uscita.
In realtà sono due EP che usciranno uno in successione all’altro, il primo intitolato EP I e il secondo EP II. L’idea è nata per una serie di contingenze; stavamo cercando un’etichetta internazionale per uscire dall’Europa, ma non avevamo un’idea precisa di label a cui proporlo, così abbiamo cercato di metterci dentro tutto il nostro immaginario. Ci siamo ritrovati con decine di tracce, avevamo una grossa quantità di materiale tra le mani, ma per le demo abbiamo scelto quelle con più impatto, più vicine all’energia live. Ad ogni modo, per EP II ci saranno delle grosse sorprese, credimi, ma ora non posso dirti niente. (ride)
Perché avete deciso di chiamarli EP I ed EP II?
Volevamo sottolineare che per noi questo è un nuovo inizio, ma anche perché qualsiasi altro titolo avrebbe circoscritto troppo quello che volevamo esprimere, dato che, purtroppo, è una cosa molto complessa.
Purtroppo?
Dico purtroppo perché credo che la gente ora sia abituata a cose semplici, mentre, alla base di questo nostro ultimo lavoro c’è un’idea complessa, quindi potrebbe risultare difficile.
C’è un’altra traccia in preview sui vostri canali, la quale immagino andrà a far parte dell’EP 1: un featuring con Otto Von Schirach, producer a cui, pare, siete molto legati artisticamente.
Certamente, tanto d’aver stretto amicizia. Inizialmente dovevamo trovarci per fare il videoclip del singolo, dato che lui era in Europa, ma poi l’operazione è saltata e così abbiamo organizzato un mini tour insieme. Cinque giorni in giro per l’Italia in furgone, tra concerti, feste e pochissime ore di sonno. In pratica Otto apriva il nostro live, ma finivamo sempre tutti insieme sul palco, durante i suoi set, a far festa.
Diciamo che Otto Von Schirach è un tipo piuttosto bizzarro.
Lui arriva dalla scuola breakcore, poi, vivendo a Miami, s’è fatto catturare dalla scena Miami Bass, (una branca della booty music in voga già dagli anni ottanta e novanta), fondando i Miami Bass Warriors insieme ad altri due strani elementi, ma onestamente non so se stiano ancora lavorando insieme. Sta di fatto che i suoi primi fan, quelli legati alle sonorità più dure, sono rimasti piuttosto sorpresi.
Mentre, immagino, ha iniziato ad avere un buon riscontro sul pubblico femminile.
Esatto, ma non solo. Conoscendolo, in realtà, capisci che fa parte del suo personaggio. E’ un festaiolo e gli piace tirare in mezzo la gente, soprattutto sul palco, cosa che tra l’altro facciamo anche noi con Aucan Djset.
Perfetto. Aucan Dj Set, vogliamo parlarne?
L’importanza che diamo al dj set è la stessa che diamo al live, è un progetto a cui teniamo molto. Siamo io e Fra, lui si occupa anche della parte visual. E’ uno show molto interattivo, abbiamo voluto mantenere la stessa energia che abbiamo nel live. Vogliamo che sia una via di mezzo tra un viaggio, un’esperienza punk/hardcore e il rave. In ogni caso, alla base di tutto, quello che vogliamo trasmettere è che la musica deve essere, sempre e comunque, una collisione. E’ infatti fondamentale l’elemento visual, come nel nostro ultimo tour live “Visualize”. Io urlo su alcune tracce e, come ti ho detto, proviamo a mantenere l’interattività con il pubblico, facendolo partecipare e prendendoci anche l’energia della gente che viene ad ascoltarci. Nel nostro tech rider richiediamo anche i fumogeni, ma solo per le date estive (ride).
E a livello di proposta musicale?
Un buon 40% è roba di Aucan, ci sono bootleg, remix e tutta una serie di tracce che produciamo e usiamo esclusivamente per il dj set. Alcuni sono pezzi che non pubblicheremo mai, perché sono concepiti proprio per suonare su un altro tipo d’impianto. Devi immaginarlo come un set diviso a zone; c’è una parte più lenta e scura, tendenzialmente techno ed electro molto distorta. Una seconda fetta di derivazioni hip hop e bass in cui cerchiamo di mischiare le due cose, come abbiamo fatto anche con il feat. di Otto Von Schirach. A noi interessa l’ibrido tra vari mondi, partiamo da una struttura di base che richiama il dancefloor e la contaminiamo. Per farti un esempio, nell’ultimo tour del live chiudevamo il concerto con una cover dei Rotterdam Terror Corpse.
Addirittura?
Infatti, credo che in molti non se ne siano nemmeno accorti. Sono tipi di aggressività sonora che amiamo esplorare e in ogni caso siamo gente che arriva anche dal mondo rave.
E’ proprio questo che vorrei capire, l’esplorazione. Da DNA alle ultime produzioni con Guè Pequeno, fino ad arrivare al remix dei Bloody Beatroots feat. Paul McCartney, avete attraversato diverse sfumature. Avete passeggiato tra sonorità post rock, dubstep, rap, trap, electro. Intendi questo con esplorazione?
E’ una cosa di cui abbiamo sempre parlato molto anche tra di noi. Il fatto di cambiare sempre. C’è un episodio che non dimenticherò mai, risale all’incisione di Black Rainbow, nel 2011: il giorno che ho consegnato tramite mail il master definitivo eravamo a Londra in studio e la label francese che doveva fare il vinile, ascoltando il file, decide di non volere più stampare l’album, perché lo riteneva un disco troppo “commerciale”. Noi abbiamo semplicemente cambiato label. Questo per dirti che non siamo quella tipologia di band che mantiene per tutta la carriera la stessa linea, questo però non vuol dire snaturare l’identità di Aucan.
Insomma, vi siete allontanati un poco dalle sonorità dubstep che vi hanno caratterizzato, soprattutto perché suonata dal vivo e vi siete avvicinati un po’ di più alla realtà rap. Si può dire?
Noi abbiamo sempre ascoltato rap, fin da ragazzini, quindi è una cosa a cui siamo legati e di conseguenza era impossibile che non ci contaminasse. Per quanto riguarda la dubstep, invece, non ci siamo mai definiti una “band dubstep”, anche se avremmo potuto, sfruttando l’onda che stava arrivando.
Considerando che siete stati i primi in Italia a proporre una sorta di “dubstep suonata”.
Il genere si prestava, è questa la verità. Mi ricordo che, ai tempi, io ascoltavo molte cose di Planet Mu, Vex’d per esempio, ed entrando in sala prove ho sentito che quelle sonorità potevano benissimo adattarsi alla nostra idea di musica. Così abbiamo capito che poteva funzionare ed è nato DNA. Dopo di ché, già nel 2012, stava venendo fuori un tipo di dubstep che non ci piaceva, sonorità commerciali che molto velocemente sono diventate mainstream. Penso che il salto al mainstream sia una cosa normale, non sono risentito, ma non era più una cosa per noi, così attraverso un lungo percorso di sperimentazione ci siamo inventati quello che facciamo oggi.
A livello puramente pragmatico, non è un po’ penalizzante l’obiettivo di non legarsi ad un genere?
Lo è nell’immediato, perché fai fatica a fidelizzare il pubblico. Quando mi chiedono che genere di musica fanno gli Aucan, mi trovo sempre un po’ in difficoltà a spiegarlo, perché sono produzioni che spaziano tanto, ma quando le metti insieme hanno una linea comune. Sulla lunga distanza invece vince chi si riesce a trasformare mantenendo la propria identità.
Come sono cambiate, nel corso degli anni, le tue prospettive?
Posso parlarti a titolo personale dicendoti che per me, innanzitutto, questo è diventato un lavoro e quindi quello che era un sogno si è trasformato, fortunatamente in una realtà. Io faccio musica da quando avevo cinque anni, per me è sempre stata una costante e tre anni fa, quando siamo usciti con Black Rainbow, si è concretizzato qualcosa. Mi sono detto: Ok Jo, adesso puoi fare solo questo.
Quindi anche le aspettative cambiano.
Non solo, anche il modo in cui lavori cambia. Il confronto con questa cosa diventa più professionale, non lo stai facendo più soltanto per te. Stai creando una squadra con persone che hanno lavorato insieme per anni. Capisci di avere delle responsabilità.
E’ una cosa che, a volte, può metterti in difficoltà.
Ci sono dei periodi che ti destabilizzano, soprattutto quelli in cui siamo fermi ad aspettare l’uscita del disco, in cui riflettiamo e ci poniamo diverse domande: Cosa succederà dopo? Se il disco dovesse andare male? Che cosa faremo l’anno prossimo? Questo perché, nonostante noi stiamo lavorando quotidianamente per la gente è come se fossimo scomparsi e c’è questo senso di attesa che prende entrambe le parti. Quando il meccanismo ingrana però, tutto torna alla normalità, ovvero il riscontro del pubblico, il tour, i concerti. Negli ultimi due anni abbiamo macinato centocinquanta date, ed è bellissimo, ma c’è il rovescio della medaglia, perché in questo modo smetti di avere una vita tua. In realtà, io sono fortunato, lavoro con il mio migliore amico, quindi è rassicurante. Vedo tanti produttori che lavorano da soli e, spesso, cercano un consiglio esterno perché sono in difficoltà nel prendere una decisione, mentre per noi è diverso: facciamo tutto insieme.
Insomma, avete annullato la vostra vita privata per dedicarvi ad essere dei rockers.
(ride) Ti deve piacere stare in tour e viaggiare moltissimo. Per me è diventata una droga, ti dico la verità. Sto male quando non sono in tour, infatti ora che siamo fermi, sono scappato a Berlino, dato che a casa non riuscivo a stare.
Ieri è uscito il vostro nuovo sito Aucanism, Ho notato che ha di base un’idea particolare, ce la racconti?
Sì, è un sito solo d’immagini, o meglio, c’è anche la parte dei contenuti video e audio, ma nella parte principale abbiamo scelto di mettere il nostro mondo sotto forma di fotografie, un immaginario che deriva dalla città e dall’urbano, dalla realtà degradata e abbandonata dei rave, come anche dai concerti, dal misticismo della natura e dal lato oscuro della psichedelia.
Chi sceglie le foto?
E’ una collaborazione con i fan, nel senso che noi selezioniamo le foto che corrispondono al nostro immaginario, ma chiediamo a chi ci segue assiduamente, di inviarci gli scatti che rappresentano la loro visione del mondo. Ti faccio degli esempi, un ragazzo ci ha mandato uno screenshot dell’ultimo video di Jon Hopkins, un altro ragazzo ci ha inviato uno scatto di sé incappucciato in una strada deserta. Cerchiamo sempre di avere una buona interazione con il nostro pubblico, sono esperimenti che è interessante fare insieme.
Chi è invece Svrface?
Svrface è il mio nuovo progetto solista, sono io che faccio quello che voglio in totale libertà. Tra l’altro è nato in un modo strano, ovvero in un momento in cui ero chiuso in casa con la polmonite da due settimane, picchi di quaranta di febbre. Una sera, stanchissimo, ho iniziato a visualizzare una serie di parole e ho capito che potevano essere la tracklist di un album. Il giorno dopo ho iniziato a dare un senso a quelle parole e a costruirci intorno un’idea, ma sapevo che avevo poco tempo, perché una volta guarito avrei avuto mille cose da fare. Così in cinque giorni nel mio studio, malato, ho chiuso tutto, produzione mix e mastering di dodici tracce. Ho deciso di non concentrarmi sul suono e ho lasciato gli errori, perché in quel momento non m’interessava che suonasse bene, ma che fosse autentico. Alla fine ho scoperto che suonava bene comunque. Ho lasciato il noise di fondo del mixer, canali aperti a caso di rumore bianco. Le tracce per cui non trovavo un finale li ho tagliati a metà. I synth sono tutti suonati, non uso computer, ma solo macchine analogiche, alcune delle quali anche lo fi, oggetti tra l’altro che amo molto. Non ci sono quasi mai sequenze, solo alcune che ho ricavato utilizzando un sampler Korg usurato che ha il sync imperfetto e che risulta stranamente più umano.
Mi pare di capire che è un lavoro molto emotivo, ma come lo definiresti razionalmente?
E’ introspettivo. Mi sono immaginato dei luoghi o delle immagini che non esistono, ma che ho provato a rappresentare con la musica. In alcuni casi ci sono delle sensazioni complesse, come per esempio in “Randomizer” in cui viene figurata quella fase della vita in cui ogni cosa è completamente fuori controllo, a caso, ma tu stai comunque bene. Insomma, quando sono Svrface mi affido all’istinto, non voglio decidere quasi niente, non voglio fare scalette o compromessi con la mia musica. Accendo i synth e comincio a suonare, molto spesso tengo buona la prima, se poi capisco che non mi piace, butto via tutto. “Svrface” era, inizialmente, il titolo di una traccia, che rappresentava l’idea della superfice, il momento in cui non sei completamente sotto, ma nemmeno completamente fuori. Ho pensato che, probabilmente, più che il titolo di una traccia, poteva descrivere l’intero progetto.
Non accetti variabili.
No, non m’interessa. Se quello che faccio io ti piace va bene, se non ti piace non m’interessa. Voglio che sia una cosa vera, perché la musica, in fondo, non è stata inventata dall’uomo, ma è un qualcosa che esiste ed esisterà a prescindere. Quello che possiamo fare noi è soltanto prenderla e trascriverla, renderla ascoltabile. Svrface deve essere completamente libero. Per esempio, una label di Londra vuole fare uscire un’EP di Svrface e mi hanno spiegato che, però, hanno un format standard per le copertine. Io gli ho risposto che la copertina voglio farla come dico io, perché non m’interessa conformarmi, piuttosto lo metto in free download.
Non vuoi avere recinti. E’ per questa ragione che sei andato a Berlino?
(ride) Abbiamo suonato diverse volte a Berlino con gli Aucan, ma quando sei in tour le città non le vedi; stai nel backstage, suoni e poi torni in albergo. Il nostro amico comune, per caso, mi dice che a casa sua si è liberata una stanza e gli ho risposto che, per un mese, potevo prenderla io. Insomma, alla fine Berlino mi ha sorpreso, sono molto ispirato, ho fatto nuove amicizie e quindi è molto probabile che io mi trasferisca qui, traslocando ovviamente anche il mio studio e magari ingrandendolo.
pics credits:
DAMIANO NAVA and MUSTAFA SABBAGH