C’è così tanta techno in giro in questo periodo che finiamo per parlarne anche qui in #crumbs. Non che la cosa ci dispiaccia, anzi: testimonia il fatto che la scena resta vivace e piena di personaggi attivi, e a noi questo non può che far piacere. Ma quanto appare in forma la techno di questi primi scorci di 2014? È ancora nella fase di riscoperta della propria dimensione underground originaria, introversa come l’abbiam vista spesso nell’ultimo periodo, o c’è qualcosa di nuovo all’orizzonte? Parliamone di fronte a tre dischi usciti di recente e un bicchiere di rum liscio.
[title subtitle=”Ø, allucinazioni contagiose”][/title]
Se vi capita di farvi un giro tra le recensioni di “Konstellaatio” sul web e vi ritrovate a leggere di “coltri elettroacustiche”, “frequenze apocalittiche” o “ellissi protocosmiche”, non fateci troppo caso. Ok, farsi una risata è quantomeno doveroso. E ok, chiedersi stizziti perché uno che vuol solo sapere come suona un disco debba prima sorbirsi lo Zanichelli tascabile del piccolo esteta e una reazione comprensibile. Ma armatevi di pazienza e provate anche a capirli, quei recensori. Il problema è che la musica di Mika Vainio non ti ha mai permesso di ragionare in termini concreti. Da due decadi si fonda su strutture fortemente astratte e su un profilo comunicativo di pura suggestione, soprattutto quando il producer finnico opera come Ø. È una di quelle cose che nella techno non cambieranno mai. O le ami o le odi. Chi le ama, ha ancora l’occasione di perdersi tra le incognite spaziali di “Otava” o le ambientazioni asciutte di “Elaman Puu”, né più né meno che con altri pezzi dello stesso artista, di cinque come di venti anni fa (“Set The Control To The Heart Of The Sun” – 2008, “Stratostaatti” – 1996), e magari va a finire che ti scappano i cinque minuti di stilnovismo allucinato dove ti capisci solo tu, come dicevamo prima. Chi invece le odia, perché magari preferisce suoni più netti o perché in musica cerca sempre dei passi avanti concreti, le ascolta un paio di volte in rispettoso silenzio e poi le accantona con un “ok, questo disco l’ho già sentito”. Noi stavolta non vi daremo alcun assist, né in un senso né nell’altro: ascoltate e decidete da che parte state, avrete ragione in qualsiasi caso.
[title subtitle=”Terrence Dixon: le risposte di uno specialista”][/title]
Detroitiano di Detrot, arrivato sulla scena a meta ’90, a distanza sufficiente dai primi fermenti per rappresentarne una sintesi equilibrata di prima e seconda ondata, non troppo ossessiva né troppo docile. Con “Far From The Future” realizza il suo apice estetico, mentre “Far From The Future Pt. 2” libera diversi anni dopo quelle intuizioni melodiche che nel tempo gli son valse l’appellativo di “Aphex Twin della Detroit Techno”. Oggi torna con “Badge Of Honor” e un sound particolarmente incattivito, inasprito da certi giri infernali acid che spesso si impongono in maniera autoritaria (“Operation Acoustic” e “High Current” sono scosse elettriche ad alto voltaggio), accompagnato da pattern ritmici duri e serrati (“Lock Out Chamber”, “Deploy”, veloci e intransigenti come un treno lungo il tunnel). Il militare pluripremiato rappresentato in copertina racconta già molte cose, no? Questa è la techno di chi oggi non vuol perdere troppo tempo dietro ai virtuosismi, è la risposta di servizio a chi ha bisogno delle sue velocità prevalentemente per lo sballo fisico e mentale. È semplicemente un prodotto che risponde a una domanda di pubblico, che oggi non sente più troppo il bisogno di frammenti di futuro, magari rassegnato all’idea che si possa aver già detto tutto, e intenzionato quindi a riprendersi le specialità tecniche proprie del genere. E “Badge Of Honor” è esattamente il disco di uno specialista, lo studio di un professore frequentato da chi vuole esperienza e praticità, non colpi di genio. Perfetto per i tempi d’oggi.
[title subtitle=”Un demone blasfemo ai tempi dei Disclosure: Perc”][/title]
E alla fine arriva Perc. Quello che sulla carta doveva essere il più grezzo di tutti. Quello che solitamente gioca tutto sulla muscolarità e che quindi avrebbe dovuto fare semplicemente un album di sudore e quadratura, senza tante sorprese. Invece la sorpresa è che questa techno nera, drogata d’energia sfacciata e insolente, che l’anno scorso ha trovato il suo apice nell’album di Gesaffelstein, sta prendendo piede e si appresta a diventare una delle cose più eccitanti del momento. Certo “The Power And The Glory” non è “Aleph”, ma è bello vedere che tende alle stesse direzioni, che non si arrende alla potenza della cassa. È bello vedere una traccia come “Galloper”, che comincia sul beat quadrato come mille altri pezzi techno moderni e poi si fa più esplicito e aggressivo, pur tenendo il contatto mentale col mood sintetico di sfondo. È ancora più bello vedere quelle energia industriale distorta diventare la materia unica che fa di “David & George” un girone infernale di lame affilate. E poi ovviamente è fantastico vedere il disco infiammarsi soprattutto nella seconda parte, coi martellamenti ansiogeni di “Dumpster”, l’elettricità libera di “Bleeding Colours” e la violenza gratuita di “Take Your Body Off”. Siamo nei tempi in cui conta quel che mostri, non quel che sei, e questo implica dover dare al presente una risposta netta e intelligente: “io sono la bestia più immonda che tu abbia mai conosciuto”. Poi in realtà non è vero, ma la techno che si veste da demone blasfemo nei tempi in cui tutti van matti per il sound-Disclosure è uno spettacolo che vogliamo goderci tutto.