L’ASOT, per gran parte dei trancer, è più di un semplice programma radiofonico. E’ un appuntamento fisso, una tradizione, quasi un rito. Da 13 anni, con puntualità svizzera, ogni giovedì accompagna gli ascoltatori alla scoperta delle novità discografiche, spesso anticipando i trend, non senza reazioni discordanti da parte dell’audience, il tutto con l’inconfondibile tocco del suo ideatore e conduttore, Armin Van Buuren. A partire dalla 400esima puntata, le celebrazioni per il raggiungimento delle pietre miliari annuali (ogni 50 episodi), hanno assunto proporzioni sempre più imponenti, fino a diventare dei veri e propri mini tour mondiali, di cui la tappa olandese rappresenta la punta di diamante, per dimensioni (quattro stages, di cui i due principali potrebbero tranquillamente essere festival a se stanti), line up (mediamente tra i 40 e i 50 nomi in cartellone ogni anno, dai big ai nuovi talenti, dalla progressive alla tech-trance) e aspettative. Vi raccontiamo perché le nostre, ancora una volta, non sono state deluse.
Jaarbeurs, voto 6,5: smisurato. Una delle novità di quest’anno (le tre precedenti edizioni si sono tenute al Brabanthallen di s’Hertogenbosch), si rivela una scelta azzeccata dal punto di vista dello spazio, decisamente più ampio, forse troppo: le due main areas, ad occhio, sono più grandi di un campo da calcio, ma per passare da uno stage all’altro servirebbe la navetta. Nonostante un’ottima gestione della “viabilità”, quindi, siamo costretti a perdere sistematicamente la fine o l’inizio dei set. Peccato.
Audio, video e luci, voto 9: sempre meglio. Gli allestimenti sono mastodontici: i palchi del mainstage e della “Who’s Afraid of 138?!?” sono delle vere e proprie astronavi, ledwall enormi si estendono per tutta la larghezza delle sale, e insieme ad un impianto luci a dir poco imponente, creano un impatto visivo che lascia senza fiato. L’audio è perfetto in tutte e quattro le aree, e nonostante in alcuni punti l’acustica degli spazi non giochi a favore, i line array L Acoustics fanno il loro lavoro in modo impeccabile, il che è assolutamente necessario per godere a pieno di un’esperienza di questo tipo.
Protoculture e Max Graham, voto 9,5: due certezze. Voto unico, perchè anche se stavolta non suonano back to back ma uno dopo l’altro, il flow non si interrompe e sembra quasi un set unico. Il primo parte con groove morbidi e melodie eteree, a cui alterna beat più saltellanti e graffianti talking bass di ispirazione electro, in cui, al momento giusto, incastona un paio di vocal. Il secondo, semplicemente, le indovina tutte, sia quelle che ti aspetti (le sue hit e le uscite più popolari della ReBrand), che quelle che non ti aspetti (il remix di Orjan Nilsen di Talk To Me, o quello di Solarstone di Howl At The Moon, ad esempio). Il risultato è una sequenza perfetta, mixata con una tecnica impeccabile, che fa pensare che forse, Max è un po’ sottovalutato come produttore, ma anche come dj.
Sean Tyas, voto 8: acido. Se potesse sposare una TB-303, credo che lo farebbe. Il suo set è una pioggia di cassa dritta e riff taglienti (di quelli che possono uscire solo dalla magica scatolina Roland), interrotta da pause melodiche lunghe e struggenti e ripartenze dai ritmi serratissimi. Ascoltarlo è sempre un piacere.
New World Punx, voto 8,5: energia pura. Le loro performance si contano sulle dita di una mano, motivo per cui sono sicuramente tra gli act più attesi della serata. A suonare insieme si divertono, e in pista si percepisce. I loro sound sono diversi, è vero, ma si amalgamano perfettamente. Il set, non troppo articolato sul piano melodico, è un concentrato di groove e bassoni che arrivano dritti dritti allo stomaco. Di tanto in tanto buttano li qualche break (tra cui uno clamoroso, con il vocal di Silence dei Delerium), quando sentono che la folla ha bisogno di rifiatare.
Jorn Van Deynhoven, voto 7,5: viaggione. Potente e melodico come suo solito, apre con la sua “New Horizons”, anthem di quest’anno (della serie “ti piace vincere facile”), poi, dopo una ventina di minuti la cassa si fa più secca, e gliene bastano altre due o tre di quelle giuste, quelle che ti fanno alzare le braccia e chiudere gli occhi, per conquistare definitivamente il pubblico, e spianare la strada al gran finale.
Aly & Fila vs John O’Callaghan, voto 9: duri e puri. Hanno il compito di tenere vive per l’ultima ora e un quarto, le quasi diecimila persone rimaste nel mainstage. Per nessuno dei due è la prima volta, sanno entrambi benissimo cosa fare, e portano a termine la missione nel migliore dei modi: bombe a 140 bpm, e ballano anche i sassi.
Armin Van Buuren, voto 10: mattatore. Si esibisce tre volte, nel warm up riservato ai duemila fortunati possessori dei ticket limitati, nel mainstage, e nella “Who’s afraid of 138?!?”. E’ la sua serata, e ovviamente il bagno di folla è tutto per lui. Quando suona lui, le sale sono sempre colme al limite della capienza, tanto che gli addetti alla sicurezza sono costretti a non far entrare più nessuno. Suona bene, molto bene, in tutte e tre le occasioni, ci va pesante anche nel mainstage, dove non tutti se lo sarebbero aspettato, si esalta nella 138, a conferma del fatto che a lui, quel sound piace davvero. Si diverte, si emoziona, rimane anche senza voce, e il pubblico fa lo stesso. I set magari non sono i migliori in assoluto della serata, ma il 10 se lo merita comunque, e non potrebbe essere altrimenti.