Creare delle aspettative nei confronti delle proprie uscite, per un musicista, è un bel casino: certo, in un periodo in cui il “mainstream” propriamente detto non esiste più avere più hype possibile attorno non può che essere un bene, ma il rovescio della medaglia è che creare delle aspettative implica anche mettere in conto la possibilità di deluderle.
Tensnake lo aspettavamo al varco in tanti all’esordio sulla lunga distanza dopo un discreto numero di singoli di successo, e lui ha sapientemente cavalcato l’onda dell’attesa, annunciando già molto prima dell’uscita alcune partecipazioni eccellenti al suo album, come Jacques Lu Cont e Jamie Lidell ma soprattutto come Nile Rodgers, fresco di collaborazione in un altro album molto atteso e che all’uscita ha polarizzato molto le critiche, equamente divise tra entusiasti e delusi.
Ma com’è, alla fine, “Glow”? Ci è piaciuto oppure no? Ha soddisfatto le nostre attese o le ha deluse?
Proprio come per “l’altro album a cui ha partecipato di recente Nile Rodgers”, i pareri tra di noi di Soundwall si sono divisi in maniera abbastanza equa tra chi si aspettava molto di più, chi aveva già chiuso con Tensnake in precedenza e non ne ha voluto sapere e chi invece lo ha apprezzato molto: chi scrive appartiene a quest’ultimo gruppo.
Ma andiamo con ordine: cosa era lecito aspettarsi, e cosa no, da un album di Tensnake?
Abbiamo imparato a conoscerlo e apprezzarlo per il suo talento con gli earworm, quelle canzoni che ti basta sentirle una volta e te le ricordi praticamente per sempre, e giorni dopo ti sorprendi a canticchiarle tra te e te: per molti di noi, probabilmente, il primo impatto con le produzioni di Marco è stato “Coma Cat” o “Need Your Lovin’”, earworms se mai ce ne sono stati: in un album di Tensnake, quindi, ci si aspettava che ci fossero almeno tre o quattro tracce almeno equivalenti.
Promessa mantenuta più che ampiamente già solo con i singoli usciti ad anticipare l’album: già nei mesi passati infatti ci è capitato più volte di sorprenderci con “See Right Through” o “Love Sublime” che ci ronzavano in testa e non se ne andavano più, ma di materiale adatto all’uscita singola e magari a qualche remix gustoso ce n’è in quantità: “Selfish” e “Feel Of Love”, ma soprattutto “Good Enough To Keep”, hanno del potenziale enorme, soprattutto per la bella stagione ormai alle porte, e non ci stupirebbe se facessero il botto, fatte le debite proporzioni, come è successo l’estate scorsa sempre a un brano graziato dal tocco magico di Nile Rodgers.
Probabilmente, però, il principale motivo di delusione per chi si aspettava di più è questo: ce li immaginiamo dire “è tutto qui, Marco? Avevi a disposizione un album intero e hai sfornato solo una collezione di potenziali singoli come dei Disclosure qualsiasi, di quelle che si possono tranquillamente ascoltare in modalità shuffle senza che perdano di significato?”
In realtà di momenti in cui Tensnake cerca di spingersi un po’ di più in là ce ne sono, e in effetti sono forse quelli in cui l’album perde un po’, più che altro perchè si sente molto, forse troppo, l’aspirazione verso quell’altro album, sempre lui: “No Colour” e “Last Song”, anche per posizionamento all’interno dell’album, ricordano un po’ “Within” e “Contact”, ma si sente che, pur essendo tutt’altro che brutte e tutt’altro che fuori posto, Marco non sta giocando in casa.
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, si può comunque apprezzare lo sforzo e pensare che, comunque, avrebbe potuto andare molto peggio, ma è perfettamente comprensibile anche pensare che si sarebbe potuto e dovuto osare di più.
La verità però è probabilmente che Tensnake non è uno da grandissimi azzardi e sperimentazioni, non è certo un Aphex Twin, ma nemmeno un Dj Koze, per cui aspettarsi da lui qualcosa di diverso dalle tracce coi vocal catchy e il sapore anni ’80 che l’hanno reso famoso sarebbe come chiedere a Cristiano Ronaldo di giocare a basket: probabilmente sarebbe in grado di destreggiarcisi e l’esito finale sarebbe migliore di quello di tanti altri, ma il suo sport rimarrebbe comunque un altro.
E’ questo, in fondo, il problema principale di creare delle aspettative: non si è in grado di decidere quali queste aspettative debbano essere per tutti, per cui statisticamente qualche deluso ci sarà sempre.
Stavolta è toccato a chi sperava che Tensnake avrebbe sfornato un concept album variegatissimo, o che avrebbe indicato la via per il pop danzabile dei prossimi dieci anni, mentre a chi si sarebbe accontentato (si fa per dire) dell’equivalente di tre o quattro EP di Tensnake messi assieme, con qualche nuovo anthem di quelli a cui Marco ci ha abituati, è andata più che bene: noi di questa seconda “fazione” siamo a posto così, cantiamo a squarciagola i vocal dei vari Fiora, Jeremy Glenn e Jamie Lidell in attesa dei remix che sicuramente arriveranno, e speriamo che Tensnake continui così, sulla sua strada che ormai ha definitivamente trovato.