Spesso capita di pensare “Vent’anni, e sembra ieri”. Anche nella musica elettronica, ormai: ci sono artisti freschissimi – un nome fra i tanti, Lone – che in realtà rimettono in campo soluzioni che erano state inventate, sviluppate, masticate vent’anni fa. Per non parlare della techno, dove le vette più interessanti e chiacchierate oggi rimettono in campo spesso e volentieri vibrazioni industrial (Regis e accoliti vari), o dove uno come Jeff Mills non è certo percepito come vecchio arnese superato ed obsoleto. Ma gli esempi potrebbero essere tantissimi.
Quindi ecco, il tempo si è ristretto. Ma ci sono rari casi, rarissimi, in cui vent’anni sono un mare. Un oceano. Un qualcosa che si perde nelle nebbie del tempo, fino ad assumere i contorni di un sogno, di qualcosa che forse non è nemmeno esistito – e ti chiedi in realtà come sia possibile che sia esistito davvero. Un po’ come oggi faremmo fatica ad immaginarci che dei ventenni si sparano fra di loro perché la vedono diversamente in politica: negli anni ’70 era la regola, oggi follia. E stiamo decisamente meglio oggi.
Ma vent’anni fa stavamo meglio, almeno se il nostro obiettivo si concentra su una storia unica ed irripetibile: il Link. Quello originale. Quello dietro la Stazione Centrale di Bologna (non seguire per l’uscita principale, sceso dai binari, ma cerca l’uscita posteriore di Via de’ Carracci – si commuoveranno in tanti, a leggere questa semplica frase). Quello che soprattutto nei primi cinque, sei anni di vita è stato un pazzesco concentrato di culture, di eventi, di innovazioni, di sperimentazioni. Qualcosa che non aveva eguali in Italia, e che in realtà non aveva nemmeno eguali in Europa, soprattutto se si recupera il periodo d’oro in cui nella città felsinea c’erano anche il TPO (quello di Via Irnerio) e il Livello 57 (quello sotto il ponte di Via Stalingrado): tre posti a dieci minuti a piedi l’uno dall’altro, un triangolo incredibile che ogni weekend offriva una programmazione che, anche oggi, dovresti mettere insieme cinque weekend a Berlino per averne una uguale.
Di questo triangolo magico e maledetto, il Link era il vertice più interessante. Soprattutto per chi masticava elettronica di qualità, senza nulla togliere agli altri due vertici (che avevano comunque una programmazione ad altissimo livello, che spaziava dai rave più estremi al jazz di ricerca, con tutte le colorazioni intermedie tipo concerti live e performace teatrali). Al Link ti muovevi fra sale (quattro, cinque, sei… a seconda delle serate) e sapevi che trovavi ogni volta qualcosa di super-interessante, avanguardistico, ad altissimo livello. Il Link era il posto dove Aphex Twin arrivava ed era una star, anche quando in Italia lo conoscevano in pochi. Era il posto dove arrivava Jeff Mills e suonava assieme agli Underground Resistance dopo secoli. Era il posto dove i Pan Sonic erano di casa, dove la Planet Mu era pane quotidiano per tutti, dove arrivava James Lavelle ai tempi del primo UNKLE (quando era ancora una semi-divinità, insomma) e dove trovavi anche i gruppi “minori” della Warp che però poi, quando li vedevi live, ti cambiavano la vita (per chi scrive, il pensiero va subito ai Red Snapper: di concerti ne avrò visto centinaia, se non forse migliaia, ma la botta data dai due live degli Snapper è ancora adesso fra i ricordi più vividi ed indelebili).
Insomma, una programmazione curatissima, di ricerca, che già sarebbe all’avanguardia oggi, figurati cos’era venti/quindici anni fa: quando non c’era internet, quando le informazioni erano molto meno accessibili, quando in Italia la club culture e l’elettronica erano un mistero ancora tutto da scoprire, e solo poche isole di pazzi e visionari (il Maffia, il Brancaleone, la Pergola…) ti facevano sentire nel cuore di Londra, la Londra più “nuova” e rivoluzionaria.
Di solito le programmazioni curatissime, di ricerca, eccetera eccetera attirano un pubblico selezionato: attentissimo, preparatissimo, ma selezionato – leggi qualche centinaio di persone, se non qualche decina. Il Link no. Il Link, per delle dinamiche tanto splendide quanto inspiegabili, era diventato un posto dove si facevano ogni weekend 5.000 ingressi, qualsiasi fosse la programmazione. Riuscite ad immaginervelo? E’ come se oggi un posto con una programmazione fatta al 90% di cose tipo Ron Morelli o Actress facesse più numeri del Cocoricò. Fantascienza pura.
Fantascienza pura nel 2014; e nel 1994? Nel 1996? Nel 1998? In qualche modo, per una allucinazione collettiva bellissima, era percepito quasi come “normale”, come quotidianità, almeno da chi ha vissuto intensamente “quella” Bologna. Per tutti gli altri, il Link era una mecca, un luogo incredibile, un qualcosa che non aveva eguali a Milano, Roma, Torino, Napoli, nemmeno lontanamente. Ma pure, come si diceva, non è che all’estero si trovasse molto di meglio (avevi il mito del Blue Note, a Londra, e ti accorgevi che era un sotterraneo da 400 persone; avevi il mito del Tacheles, e ti accorgevi che era più un condominio, una residenza per artisti, e per i concerti ti infilavi in stanze nemmeno troppo grandi).
Il Link, come luogo fisico, ad un certo punto è stato abbattuto: le solite lungimiranti politiche speculativo-edilizie-culturali delle istituzioni italiane. Ci si è trasferiti altrove, è nata un’altra storia, che moltissimi di voi conoscono e che ha molti meriti; ma non è la stessa cosa. Non lo è per niente. E’ un gran bel locale, un posto con una capienza notevole dove poter ascoltare club culture che mette insieme qualità e numeri, ben gestito; ma non è un luogo di follia ed assurdità, di assurda contaminazione tra cultura altissima (le sperimentazioni più nobili elettroniche) e cazzeggio bassissimo (la Church Of Funk: dei geniali cretini che facevano funzioni religiose con colonna sonora tra il funk e il trash), non è un posto che fa da laboratorio – come è successo col “vecchio” Link – per collettivi di teatro, scenografia, videoarte, un posto dove perfino delle icone dell’indie rock, i Massimo Volume, erano a casa e si sentivano di casa. Anche perché il meglio della scena post-punk, noise e post rock si infilava spesso e volentieri, nella programmazione.
E’ stato l’abbattimento e il trasloco a distruggere tutto questo? Sono state le istituzioni stupide e cattive? Le istituzioni sono spesso stupide e cattive, sì, ma il Link, “quel” Link si è suicidato già da prima. Come succede con tutti i miracoli inspiegabili, all’inizio c’è lo stato di grazia dato dall’incoscienza, ma poi quando inizi a confrontarti coi problemi reali – e gestire l’impatto sociale ed economico di 5.000 persone a weekend è un problema reale, eccome – tutto crolla perché nascono le prime discussioni, le divisioni in gruppi, in fazioni, ci si rende conto di una serie di sprechi e di irrazionalità (ce n’erano in quantità imbarazzante) e nascono discussioni reali, concrete. Necessarie. Ma al tempo stesso letali. Perché significano che lo stato di grazia è finito. Bisogna tornare sulla terra.
Nei primi anni della sua storia, il Link non è stato sulla terra. E’ stato un sogno bellissimo. E’ stato un generatore ed acceleratore di idee, come si ama dire oggi, che al confronto realtà virtuose tipo H-Farm sono poca cosa, robetta. Era la Silicon Valley delle arti digitali e delle pratiche innovative nel campo culturale, solo che non se ne rendeva minimamente conto. E se non se ne rendeva conto lui, e chi all’interno di questo cosa ci viveva, figuriamoci gli altri. Gli avventori. Che il Link, questo Link, lo davano per scontato, e si lamentavano perché il biglietto costava 10.000 lire e non 5.000, perché c’era da pagare la tessera, perché per entrare non potevi praticare l’autoriduzione, perché era un centro sociale ma si era venduto al commerciale (certo, come no, facendo gruppi di noise italiano il sabato sera come main act: molto commerciale…).
In questo weekend si commemora il ventennale dalla nascita di “quel” Link. Con una bella staffetta generazionale, l’evento conclusivo si svolgerà nel Link attuale, radunando moltissimi dei resident che hanno portato avanti per anni quella incredibile realtà parallela più qualche ospite di riguardo. Qui trovate tutte le informazioni del caso. Se siete in zona, passateci. Seguitevi magari anche i dibattiti del giorno prima. Se c’eravate, sarà bello ricordare certe cose, certi nomi, certe pratiche. Se non c’eravate, sarà bello e sorprendente sentirne parlare.
Il rischio del “reducismo”, della nostalgia fine e se stesso, della stanca autocelebrazione di qualcosa che non c’è più? C’è. Ma è molto importante poter tramandare a tutti i contorni di quell’esperienza che è stata, lo ripetiamo, unica, incredibile, assurda, magica, inspiegabile. In pieno stile vecchio Link, ci sono già stati dei contrasti tra le varie anime che componevano il nucleo storico originario, gente che ha fatto polemica sul web, che si è sfilata dall’operazione. Ci sta. Al Link, soprattutto da un certo punto in avanti, si litigava tantissimo. Sembrava di stare nei Balcani durante la guerra nell’ex Jugoslavia, in certe occasioni, durante alcune riunioni di direttivo. Non ne facciamo una colpa. Non ne facciamo una critica. Non poteva essere una utopia bella e pulita, non poteva essere un lugo di Amore Universale, le personalità e le intelligenze che si erano riunite lì – un po’ per caso, un po’ sulla scorta di alcune precedenti esperienze controculturali bolognesi – erano troppo taglienti e troppo visionarie per essere armate anche di buon senso e animo pacificatore.
Per un weekend, c’è la possibilità di ricordare tutto questo. Per un weekend, c’è la possibilità di capire che tutto questo è esistito, è stato vero, non è stata solo un’allucinazione perché in dieci hanno mangiato troppe fette di space cake (ah be’, girava pure quella, e in abbondanza, nel Link dei bei tempi… con effetti tra il ridicolo, il divertente e il catastrofico). Una storia incredibile. Unica. Ed è accaduta. E’ accaduta in Italia. Non accadrà mai più, non lo riteniamo possibile, troppe cose sono cambiate da quegli anni lì, molte in meglio, non abbiamo più bisogno di assurdi eroi visionari ma di gente che lavora con serietà, lungimiranza e professionalità. Ma è stato bello. E’ stato bellissimo.