Ritornare all’Hiroshima Mon Amour è come portare indietro le lancette dell’orologio. Qui, nella ex scuola elementare, generazioni di liceali si sono fatti le ossa con il pogo, hanno ascoltato tutto quello che di emergente offriva la piazza e hanno ballato per decenni. Ricordo che la prima volta che ci misi piede era per uno spettacolo di indiani, non quelli metropolitani, ma veri pellerossa. Da lì in avanti ci sono state serate imprendibili e poi è arrivato Club To Club. All’inizio era una delle venues per le serate più importanti, poi, aumentando ogni anno il pubblico, si sono spostate nello spazio decuplicato del Lingotto. È stato all’Hiroshima che abbiamo ballato sulla musica di Ellen Allien e Apparat ai tempi di Orchestra Of Bubbles…
Giovedì sera c’era un’atmosfera diversa, decisamente più raccolta. Considerato che l’Hiroshima si trova dall’altra parte della città – zona Lingotto, Mirafiori è dietro l’angolo, (ex) fabbriche e dormitori – il fatto che ti devi fare qualcosa come mezz’ora di bus ti prepara mentalmente. Niente cuffie, per preparare il terreno. Coda composta, atmosfera piuttosto tranquilla all’ingresso. Siamo a Londra? No no, Torino. Ce lo chiederemo più volte nel corso della serata.
SOHN arriva accompagnato dalla sua band, formata da Albin Janoska ai synth e Stefan Fallmann al basso. La performance è intimissima, quasi religiosa: SOHN sembra un druido con il maglione lungo e il cappuccio in testa, dietro una serie di luci che sembrano le candele di un rito. Chitarra, sintetizzatori e drum machine per creare un’atmosfera tanto dark e sommessa, quanto affascinante. Languida al punto che vorresti continuasse per almeno un’altra ora. La capacità di modellare la voce dell’inglese di stanza a Vienna è talmente convincente che ti fa crogiolare in questa sonorità notturna, ma così calda allo stesso tempo. “Tremors” è un album eccezionale, ad ogni brano – in perfetto stile British – ringrazia il pubblico e verso la fine “a couple of songs more, you dance all night long while I’m here singing, I am so jealous!” Il pubblico si lascia andare e capta l’atmosfera giusta, teste penzolanti e spalle morbide, anche se abbiamo i bassi un po’ più potenziati. Ottimo come starter.
Parlare di cosa è successo con Oneohtrix Point Never, accompagnato dall’artista Nate Boyce per la parte visual, non è facile. Da segnalare la compostissima risposta del pubblico, che – diciamocelo – per il 70% era venuto per Hopkins, rimane in ascolto per tutto il tempo. O in trans. Dipende, perché il set messo in piedi dal ragazzotto con il cappellino in testa (già, Brooklyn!) è qualcosa che farebbe venire gli incubi, o perlomeno dei dubbi, ai surrealisti. Non c’è una linea, dico una, che porti a costruire un basso, un lead, appena pensi “ok, adesso si assesterà, così almeno posso muovermi” ecco che tutto ti scrolla addosso, implode, si fonde in un magma che mangia tutto e butta fuori tutto l’opposto di quello che ci è finito dentro. Curioso vedere la gente che all’inizio guarda, alcuni si piantano a fissare i rendering allucina(n)ti sullo schermo, altri sono lì in attesa, li vedi che stanno per scattare, ma poi, come dicevo, le cose prendono un’altra direzione. Altri sono increduli, pensano che sia una specie di nerd dei synth. Lo sarà anche, ma questa è roba da installazione di arte contemporanea. Una sberla in faccia, che può piacere o meno, che però è studiata al dettaglio. Daniel è concentratissimo, non si muove di un millimetro, gli occhi piantati sul laptop e godete. A volte sembra che la stanza stia crollando su sé stessa, o che un braccio meccanico si stia muovendo tra il pubblico, o che le pale di un elicottero stiano roteando sulle nostre teste. Un set da acido, in sostanza.
Per capire che il pubblico fosse però indirizzato su Jon Hopkins, è bastato il fuggi fuggi generale dalla pausa all’aperto quando abbiamo sentito le prime note di “We Disappear”. La potenza del nostro londinese è tale da sfiancare anche i più accaniti. Ci insegna come dare cartellate – ma con stile – come far arrivare il drop perfetto, come ci si muove dietro ad una consolle. Glitchate e pugni nello stomaco, tenuti per il collo ci passa davanti tutto “Immunity”, assieme ai video della ragazza in preda alle allucinazioni della notte precedente (“Collider”), al ragazzo con l’occhio nero che si gira il mondo in skate (“Open Eye Signal”) fino a qualche reminiscenza di “Insides”. Non ne sbaglia una, è una lezione. In particolare per quelli del pubblico – è una specialità torinese – che stanno impalati a fissarlo con le fessure degli occhi, come a registrare ogni gesto, ogni metodo. Poi si girano, guardando gli altri con il sopracciglio alzato come dire “e allora? Ma ti sembra che devi ballare questa roba?” Fortunatamente la maggior parte non la pensa così e si lascia andare a quello che realmente voleva. Un potentissimo act taumaturgico, da cui ne esci liberato da tutte le ansie accumulate.
Chiudono la serata quelli ‘di casa’, vale a dire Wood Step, apprezzatissimo dj nostrano e mente di We Play The Music We Love, che si occupa di riempire di techno ragionata posti come il Boiler e il Bunker; quindi Guido Savini, membro dei DID e resident all’Astoria, altra calamita per i clubbers cittadini in cerca di qualcosa in più che elettronica e basta. La scorsa sera era però in veste SRSLY, uno dei partner della serata e must indiscusso, una di quelle cose che ti fanno rimpiangere Torino. Ancora Giorgio Valletta, uno dei fondatori di Xplosiva e dei padri di Club To Club, per il resto non ha bisogno di presentazioni, lo conosciamo tutti!
Lo abbiamo detto e lo ripetiamo, Club To Club è un valore che non possiamo perdere e che ci ha permesso di vivere dei momenti indimenticabili, ha educato un pubblico, sforzandolo a volere e ad accettare musica non solo da consumare in serata, ma che lasciasse qualcosa in più, un valore artistico. Per un festival che si è gemellato ormai con tutte le metropoli musicalmente più vivaci al mondo, ci auguriamo che continui la partnership con Field Day, nell’attesa di conoscere i dettagli della prossima edizione. Possiamo affermare intanto che quando si dice London calling non si sbaglia…