Due parole, ma giusto due parole su quanto è successo sabato scorso a Milano, nella cornice di Wired Next Fest. Giusto due parole, per provare ad incorniciare nel giusto contesto un diluvio di commento sul web ma, soprattutto, un diluvio di presenze (15.000? 20.000?) negli spazi del Parco Indro Montanelli a Milano, per l’apparizione del Divino Giorgio. Il quale Giorgio, attenzione, è “divino” solo se voi volete farlo apparire come tale. Se fate cioè un atto di fede, e volete per una volta abbandonare la ragione per concedervi alla religione.
Si può fare. Eccome. Non c’è nulla di male nel volersi abbandonare ad una percezione e ad una pratica vagamente mistica nell’approcciarsi alle cose del mondo, musica compresa. Nulla di male. Anzi. Basta esserne consci. Basta ammettere che se ci si è sentiti in dovere di non mancare al set di Moroder, questo è successo per motivi che esulano completamente dalla qualità di quello a cui si sarebbe andato ad assistere. E’ successo perché si voleva tributare l’omaggio feticistico ad un uomo che ha fatto la storia della musica (attenzione al verbo al passato: sono decenni che Moroder non fa nulla di significativo, e certe sue recenti sortite nel campo dell’elettronica sono state mediamente tra l’inutile e l’imbarazzante). E va bene, va benissimo. E’ la stessa spinta che porta orde di persone ad andare in discoteca a vedere qualche comico di Zelig, qualche Velina o qualche confuso ex del Grande Fratello giusto per vederli, per “catturarli” coi propri occhi e col proprio sguardo e percepire finalmente – in questi anni che iniziano ad essere un po’ troppo spesso virtuali nelle emozioni – un sano di boccone di realtà, di fisica realtà.
Oppure, si può essere andati lì non tanto o non solo per feticismo, ma perché con la propria presenza si voleva manifestare la propria gratitudine nei confronti di Giovanni Giorgio, per le emozioni fantastiche che c’ha dato (ma “Notti magiche” con Bennato e la Nannini o Limahl che canticchia di storie infinite sono veramente così fantastici? Li trovavate tali anche quando uscirono, anche quando sentiste questi pezzi per la prima volta?). Ci sta. Altro che comici, veline ed ex gieffini, altro livello ed alto livello. Un certo tipo di approccio ai sintetizzatori è stato infatti veramente rivoluzionario e magistrale. I meriti di Moroder sono immensi, non c’è bisogno dei Daft Punk per saperlo (…e se invece ce n’è bisogno, hanno fatto bene i Daft Punk a ricordarcelo e confermarcelo). Però ecco, in questo caso sappiate che siate andati ad omaggiare una statua, un monumento, un reperto storico, un’icona; non qualcosa di significativo per l’oggi, per il qui&ora. Ecco perché certi “aviciismi” o “deejaytimeismi” a cui il nostro eroe sottopone oggi alcuni pezzi remixandoli nei suoi set è effettivamente qualcosa di stonato ed inopportuno (chi c’era e chi ha ascoltato, sa a cosa ci riferiamo).
Ad ogni modo la scelta di Wired è stata di base ottima. C’è chi ironizza sul fatto che un “festival dell’innovazione” chiami un uomo di 74 anni: beh, l’uomo di 74 anni ai suoi tempi ha innovato eccome, e può essere quindi considerato un ottimo simbolo. Ma un necessario controcanto dovrebbe in ogni caso farci dire che se ciò che ha reso grande Moroder è stata l’innovazione, lo stesso entusiasmo dovremmo allora darlo (anche) per personaggi che sono più vicini oggi, nel 2014, ad innovare, ad essere vitali e coraggiosi artisticamente. Lo facciamo veramente? O ci facciamo più abbagliare dalla combo ingresso gratuito + Giorgio-Moroder-gran-figo-lo-dicono-pure-i-Daft-Punk?
In sintesi: non c’è nulla di male se 15.000 o 20.000 persone si sono radunate per un dj set di Giorgio Moroder nel 2014, è stata una serata divertente (difficoltà logistiche a parte, reti telefoniche miseramente crollate a parte), ma non è il caso di appuntarsi questa cosa come una medaglia al petto. Lascia infatti un po’ l’amaro in bocca che tanto entusiasmo si scateni solo quando si mette in moto una dinamica molto televisiva (voler vedere a tutti i costi in carne ed ossa il “famoso” non per quello che fa, ma per quello che ha fatto). Questo non è né colpa di Moroder né colpa di Wired, né ci si deve sentire in colpa se si è andati là giusto a vedere un po’ com’era la serata: mica si deve sempre andare a spendere le serate lì dove c’è il massimo della creatività e dell’intellettualanza, fanno così solo le persone un po’ tristi nella vita che rifugiano certe frustrazioni nell’ossessione e guardano con disprezzo chi non è come loro, non ha i gusti loro, non ha le abitudini loro.
Tuttavia, l’importante è essere coscienti di cosa questa serata del 17 maggio sia stata e di cosa abbia rappresentato. Il concetto di “innovazione” alla fine è stato molto meno veicolato del concetto di “evento mondano”: questo è un fatto. Non è colpa di nessuno in particolare, ma è una cosa su cui riflettere. Per un sabato sera è stata una libera uscita, è stata la voglia di un po’ di feticismo o quella di omaggiare frammenti importanti di storia passata della musica. Basta saperlo, basta ammetterselo. Ma il modo migliore per celebrare Giovanni Giorgio Moroder e quello che Giovanni Giorgio Moroder può rappresentare per noi sarà quando qualcun altro tirerà fuori dei pezzi nuovi così radicali e al tempo stesso pop come “I Feel Love”, segnando una generazione. Il segno che lascia una serata con Moroder, oggi, è purtroppo invece quello lieve, gradevole ed inoffensivo di un aperitivo con gli amici a parlare di serie tv. Fino a quando? La risposta sta a noi. Non a Giovanni Giorgio.