Nonostante molti dibattiti – ormai obsoleti – in pochi si soffermano sulla globalità artistica di un dj che rifugge da ogni catalogazione stilistica, condividendo invece una cultura inter genere, trasversale a mode e tendenze, facendone una forma mentis e contribuendo attivamente allo sviluppo della stessa. In questo incontro, abbiamo dato voce a colui che da sempre incarna a pieno questa missione: Volcov. Questi, a dispetto del suo fare mite e quasi distaccato, attraverso la sua musica riesce a trasmettere un’energia trascinante, un alfabeto invisibile alle parole e capace di controbattere qualsiasi negatività. Che lo si ascolti in un club o attraverso le sue produzioni, divise principalmente tra le sue Archive Records e Neroli Productions, Volcov trova sempre il modo di sorprendere con la sua arte, che mossa dalla passione, non si lascia schiavizzare dai limiti oggettivi della vita umana, creando un’esperienza memorabile.
Volcov, sei indubbiamente un dj e produttore con un grande “bagaglio musicale” alle spalle: tra influenze del passato e del presente, cosa, chi, o addirittura quale episodio, ha ispirato la tua concezione musicale odierna?
Due album, entrambi del ’92 sono stati la mia grossa influenza: “Introduction” di Mr Fingers e l’intero lato B di “Journey Through The Lonely” di Lil’ Louis. Sentire che i tuoi produttori preferiti di house, nei loro album, inserivano dei pezzi soul mi ha aperto la mente.
Possiedi un album, una singola traccia o un artista che non ti stanchi mai di ascoltare, seguire?
L’album “Solo” di Egberto Gismonti su ECM del ’79.
Adesso ci troviamo intrappolati in un periodo d’immobilismo creativo dove le idee sono veramente poche. Per quanto concerne la musica elettronica, quale approccio hai conservato nel tempo? In particolare, dove e come eri/sei solito fare ricerca?
In questo momento esce molta musica, ma il controllo qualità è spesso assente. È diventato troppo facile fare un pezzo e stamparlo su vinile oppure vendere dei file. Senza un certo “filtro” da parte di A&R e distributori non c’è nemmeno la possibilità di crescita per l’artista che rimane schiavo di software, in alcuni casi, oppure del sogno analogico in altri, ma che in fondo è tecnicamente poco pronto per fare un disco, almeno se vogliamo dare una certa sacralità al fatto di stampare su vinile. Per quanto riguarda la ricerca di cose recenti quando scopro un artista che fa un disco notevole, mi dico “non può essere un caso” e cerco di sentire la maggior parte delle cose che ha fatto per vedere se ci sono altri pezzi che suonerei. Per il materiale jazz, soul, disco ovviamente si leggono i credits sulle copertine per vedere se si riconoscono i nomi dei musicisti, oppure si cerca per etichetta o per produttore. Ad ogni modo sono sempre stato più attirato dallo scoprire la traccia suonabile e poco conosciuta nell’album da 5 euro piuttosto che dai singoli molto rari.
Circolano sempre un mucchio di chiacchiere in merito al dibattito sul vinile/digitale e sulle catalogazioni stilistiche cui molti ne sono avvezzi. Dal tuo canto, come ti poni rispetto a queste diatribe.
Sono uno che viaggia con due borse di vinile però non mi appassiona molto questo dibattito. Mi concentro di più sul fatto che un dj suoni musica di qualità. Recentemente ho suonato in un noto club di Parigi e un giradischi si è rotto senza che ci fosse un ricambio, se non avessi avuto anche un po’ di cd avrei avuto qualche problemino. In quanto alle differenziazioni di genere, per carità, per me è essenziale non essere etichettato.
Si dice che con Francis Grasso, a New York, nasca la figura del disc jockey contemporaneo, capace di farsi portavoce di un personale gusto musicale e di un’idea di set alla stregua di un viaggio o di un lungo racconto. Dal tuo punto di vista, avrei il piacere di chiederti, come intendi il concetto di dj-set?
Sono piuttosto eclettico e mi adatto (abbastanza!) anche allo spazio, l’orario del set, al pubblico che ho di fronte. Comunque mi interessa specialmente porre l’accento su cose molto musicali. Suono brani strumentali anche scarni per fare risaltare meglio le “canzoni”. Cerco di avere un suono il più caldo possibile anche suonando cose elettroniche e proporre questo tipo di “altalena”. Inoltre provo a sorprendere, ad incuriosire su che tipo di disco metterò dopo, ma sempre mantenendo un certo filo conduttore.
Considerate le tue capacità, avresti potuto ambire a molto, proprio mentre hai mantenuto le distanze dal sistema. Perché questo distacco dalla scena musicale (elettronica) italiana, rispetto all’ambiente in cui operi? E soprattutto, è tuttora così?
La stima che mi dimostrano alcuni dei miei artisti/dj preferiti è ciò che mi appaga di più. Non mi sento però un esiliato, negli anni ho suonato non nel circuito di club tradizionali ma in posti come ad esempio Pergola a Milano o il Roots a Verona che sono magari fuori dai radar. Non farei paragoni con altri dj o gente che parla di “club culture”, ho fatto un mio percorso.
La tua etichetta, Archive Records, vanta già all’attivo 15 anni di vita nel mercato discografico. Come mai intraprendesti questa strada proprio con un distributore inglese, ormai estintosi nel 2007, Goya Music?Dall’altro lato, perché hai deciso di creare in tempi relativamente più recenti Neroli Productions.
Archive è in realtà del gruppo Di Più di Milano, io e Frank Siccardi, che lavorava già per loro e mi ha aiutato nella gestione dell’etichetta nei primi anni, eravamo alla ricerca di un distributore a Londra. Quando abbiamo realizzato che un suo amico di lunga data, Mike Slocombe, era uno dei soci di Global Distribution (che precedette Goya) e che era pure dietro la People Records, etichetta per cui impazzivo, la scelta fu chiara. E’ stato un connubio molto intenso e un momento di vivacità musicale difficilmente ripetibile. Malgrado la chiusura di Goya siamo comunque riusciti a far uscire cose interessanti anche dopo, specie con Phil Asher. Neroli è nata circa nel 2000 come mia casa di produzione e come etichetta. All’inizio ci siamo concentrati su cose meno concettuali e da collezione rispetto ad Archive, negli anni credo sia diventata però più avventurosa e sofisticata. Gli ultimi 6-7 dischi usciti sono per me tra i più belli del catalogo, quindi sono molto soddisfatto.
Con il progetto più housey sotto il monicker di Isoul8, hai rilasciato il tuo album “Balance” (2006) per un’etichetta indipendente berlinese, l’unica in grado di racchiudere al suo interno molteplici stili musicali, la Sonar Kollektiv. Come sei entrato in contatto con i produttori del gruppo Jazzanova?
In realtà il disco è stato prodotto tutto da me per Neroli, anche i remix di Just One e Pirahnahead per i due singoli erano già pronti, nonché la grafica per la copertina. Quando ho dato un sampler con tre pezzi ad Alex Barck dei Jazzanova per il suo programma radio ha talmente insistito per averlo su Sonar Kollektiv che alla fine ho scelto di darlo a loro anche per una maggior visibilità e migliore distribuzione. Le cose erano talmente avanti che il disco era già uscito in licenza in Giappone per un’altra etichetta, la Village Again. Ho conosciuto i Jazzanova sul finire degli anni ’90, abbiamo suonato insieme numerose volte a Milano e Berlino.
Sempre per una label legata alla famiglia Sonar Kollektiv, la Jazzanova Compost Records, hai pubblicato il tuo primo album “This World” (2003) sotto l’alias Rima, usato per definire la collaborazione con Dominic Stanton aka Domu. In termini di sonorità in che modo si differenzia rispetto a “Balance”?
Il progetto Rima era nato da varie conversazioni con Domu sulla musica fusion e il nostro comune amore per Airto Moreira, Flora Purim, Return to Forever, etc. Ci siamo immaginati di fare un disco che avesse le caratteristiche di un album fusion sia per scelte stilistiche che per una certa ridondanza presente anche in quegli album che tanto amiamo. Alcune tracce sono state fatte completamente da lui, altre da me, altre fatte insieme in Inghilterra, altre ancora mandandoci file avanti e indietro. E’ un disco che, anche se abbastanza diverso dal classico suono di fine anni ’90/inizio ’00 West London, risente comunque di quelle frequentazioni. “Balance” invece si stacca completamente da tutto questo mondo e riflette il mio desiderio di tornare alle mie origini, quello di amante di una certa musica house ma anche territoriali, e di concentrarmi più sulla “canzone” e gli arrangiamenti che sulla parte ritmica dei pezzi.
Domu, As One (Kirk Degiorgio), Theo Parrish, Ricardo Miranda, Soul 223, Dego (4 Hero, 2000 Black), Skymark: in ordine sparso hanno tutti inciso sulle tue due piattaforme. Con quali criteri hai selezionato/selezioni artisti con i quali collaborare? Al di là dei loro diversi imprint musicali, esiste un unico comune denominatore?
È un mix di cose, produttori che ammiri da anni e che finalmente riesci ad avvicinare (penso a Kirk e 4 Hero ad esempio) piuttosto che artisti più giovani in cui trovi quel qualcosa di speciale che ti entusiasma da subito (penso a Domu o Skymark) cosa piuttosto rara comunque, o magari altri che incontri ad una serata e che ti lasciano un cd (Just One). Guardando il tutto io ci trovo un filo conduttore però non è detto che il messaggio possa arrivare a tutti.
Non a caso, parlando di collaborazioni, il tuo pseudonimo Volcov viene spesso accostato al nome di Theo Parrish, con il quale oltre a condividere consolle, hai anche prodotto un 12” intitolato “Stop Bajon”, cover dell’omonimo pezzo italo disco di Tullio De Piscopo e Pino Daniele. Esiste una motivazione dietro questa curiosa scelta?
Durante il viaggio a Detroit del ’99 in cui ci accordammo sul suo singolo “That Day” per Archive (uscito poi nel 2002) parlammo di “Stop Bajon” e di quanto gli sarebbe piaciuto farne un remix. Anni dopo mi ricordai dell’episodio e provammo a rintracciare Tullio De Piscopo per farne un singolo. Dopo un sì iniziale, visti anche i tempi lunghissimi di Theo in quel momento, Tullio cambiò idea e quindi abbiamo optato per fare delle cover vere e proprie risuonando il tutto. La versione di Theo è molto più astratta mentre quella mia con Mark de Clive Lowe è più vicina all’originale. Conosco Theo dal ’97 però solo negli ultimi due anni a qualcuno è venuto in mente di farci suonare insieme.
In tempi recenti sei entrato a far parte a tutti gli effetti dell’agenzia di booking a nome Sounds Familiar di Roma. Ti riconosci nella missione che porta avanti in ambito musicale?
In realtà si tratta di un ritorno, in quanto, con Ornella Cicchetti abbiamo collaborato anche a metà anni 2000. Sono felice si stia costruendo un’agenzia con artisti che stimo e che non lavorano solo per il quarto d’ora di notorietà. Con quasi tutti gli artisti c’è conoscenza e stima reciproca, più una famiglia che un’agenzia.
Ora guardando per un secondo al futuro, a cosa punti?
Abbiamo in programma una compilation per i quindici anni di Archive chiamata “The Crystal Collection” con pezzi di Dego&Kaidi, Domu, Nu Era, As One, Nubian Mindz e altri, poi vorrei terminare un progetto iniziato con Gerald Mitchell (Los Hermanos, UR) che è praticamente un vero e proprio album con ospiti quali Paul Randolph e Pirahnahead. Infine dovrebbe uscire una mia compilation per BBE ma al momento siamo ancora in fase di licenze. In generale vorrei fare poche cose ma fatte bene.