Abbiamo parlato con Luca Albino in arte Capibara prima della sua esibizione per una delle serate Kode_1 nelle lande pugliesi e ci siamo ritrovati davanti ad una barba alla James Harden (titolo di una delle tracce del suo nuovo album), l’accento romano ed un ragazzo ben conscio delle sue potenzialità e senza alcun filtro se non quello che teneva tra le dita. Ci siamo dilettati bevendo birra e parlando delle sue origini, della fondazione della sua etichetta (White Forest Records), del suo album “Jordan” e di come la scena italiana non è poi tanto male. Per il resto continuate a leggere.
Non si conosce molto di Capibara, anzi ricercando il tuo nome su Discogs non compari tu ma compare una band della Georgia perciò ci puoi dire com’è nato Capibara, chi sta dietro Capibara?
L’ho notato anche io ed infatti siccome non li vedo più attivi devo chiedere di rimuovere il loro profilo, ahahaha… Su internet in effetti non c’è molto in quanto la mia prima release è uscita a febbraio dell’anno scorso per White Forest Records, che ho fondato qualche mese prima, e quindi in giro si trova poco ma comunque il mio SoundCloud risulta abbastanza fedele anche se non è ancora l’account Premium (risate generali).
L’hai nominata tu quindi mi viene d’obbligo parlarne ovvero la fondazione della White Forest Records che sta oramai avendo una risonanza importante nel panorama italiano… Come mai hai voluto intraprendere un viaggio imprenditoriale in singolo invece di volerti affidare ad etichette europee che avrebbero potuto darti maggiore risonanza già dagli esordi?
In realtà avevo quest’idea prima di iniziare con il progetto Capibara, poiché vivendo a Roma (tralasciando una piccola parentesi di 7 mesi a Torino) per 24 anni ho sempre constatato la presenza di una buonissima scena techno, sempre molto underground, un estenuante scena reggae che ti riduce Roma in una Kingston, ma di elettronica in senso puro non c’era praticamente nulla. Perciò io e Lorenzo dei 12 Inch Plastic Toys ci siamo detti: “proviamo a fare qualcosa noi” ed era nato tutto quasi come uno scherzo ma con l’idea portante di permettere a persone sconosciute come noi, di esprimere il proprio talento. Poi le cose hanno iniziato a prendere una buona piega permettendoci di annoverare nel roster talenti già scoperti come Godblesscomputers e ci prepariamo ad altri bei nomi per l’anno prossimo che per adesso non voglio svelare.
Credo che l’impegno di etichetta risulti molto difficile da sostenere in relazione anche a quella che è un estrema burocratizzazione del sistema, da questo punto di vista quanto è difficile portare avanti un impegno così concreto?
Per la verità questa domanda la dovresti rivolgere a Lorenzo e credo che ti risponderebbe molto male perché è lui che si occupa del lato “burocratico” ed è davvero uno sbattimento totale. Un esempio? Il vinile di “Veleno” di Godblesscomputers: siamo stati in SIAE forse una quindicina di volte e abbiamo avuto anche diversi problemi per la distribuzione fisica dell’album e quindi si, il percorso di un’etichetta non è assolutamente facilitato e c’è quindi da lavorare tanto anche sotto questo aspetto.
Tocchiamo un tema che riguarda le tue ambizioni. Hai co-fondato un’etichetta, è tua, ma sei anche un produttore abbastanza recente quindi c’è da affrontare una sorta di dualismo tra Capibara produttore e quindi la tua carriera in singolo e Luca, fondatore e direttore di un’etichetta ed un collettivo. Hai già pensato a come poter gestire le cose nel momento in cui la White Forest crescesse molto rispetto ad adesso?
La soluzione sostanzialmente è non dormire. Ma al di là del sonno è l’ideale di sottofondo che tiene in vita sia le aspirazioni personali che quelle del collettivo, ovvero permettere di far crescere il talento. Penso a Sabir che ci ha inviato una mail con un laconico link SoundCloud e avendone valutato le potenzialità abbiamo curato tutto l’aspetto di promozione ed esportazione di un talento come facciamo per ogni artista che ci capita fra le “orecchie”. Mettere in luce persone che non hanno avuto ancora la possibilità farsi conoscere.
Quindi il vostro intento all’interno della scena italiana è quello di creare una spaccatura?
Bhe si siamo nati per questo, poi il tempo permette di spendere il nome dell’etichetta e arrivare a nomi anche più conosciuti ma l’intento fondamentale è quello di poter essere una fucina per il talento inespresso.
Parliamo del lato musicale delle cose. Personalmente adoro l’EP Roxanne ed in primis “Anedonia”, ha un tocco profondamente malinconico che ritrovo anche in altre release della White Forest e se volessimo darne una definizione di genere potremmo azzardare ad un post-qualcosa perenne. Post-garage, post-dubstep, comunque qualcosa rivolto al futuro. Ci parli delle tue origini musicali e come credi potrebbe evolversi la scena anche in nome dei “ricorsi” di genere che si stanno presentando? Penso ai suoni afro delle produzioni di Clap! Clap! che aveva usato già Baldelli negli anni ’70.
In effetti Roxanne è stato prodotto in un periodo di attività in cui il tono malinconico è stato molto presente e verrà anche ripreso all’interno di Jordan, l’album è uscito il 2 luglio e l’abbiamo lanciato con un party al Circolo degli Artisti. Proprio in “Jordan” ho voluto esplorare questa dissonanza tra una base molto ritmica, ballabile, da dancefloor che riprende le mie radici affondate nell’hip-hop, e sarà il filo conduttore dell’album, rispetto a tappeti di suoni malinconici come potrete ascoltare in “D” la traccia che ho composto con i Videodreams o in “Neckin U” con gli M+A. è chiaro che nell’album c’è anche la parte più “coatta” come per il pezzo “Toro” in collaborazione con Millelemmi.
Ci puoi parlare del tuo setup di produzione? E poi, l’approccio tra produzione e performance live è completamente diverso. Durante una performance, che a volte può risultare ingabbiata nel riproporre le proprie tracce, c’è la necessità di attirare il floor verso di se. Come ti poni nei confronti della tua audience, guardi davanti e dici: ”adattatevi” oppure muti il tuo approccio?
Il setup di produzione?! Ad esser sincero tutto quello che mi capita tra le mani. Sono arrivato a campionare i suoni della strada, suoni di giocattoli, tastiere e synth classici perciò in fase di produzione tutto quello che posso mettere e che crea armonia lo utilizzo. “Suona Tutto”. Per quanto riguarda la performance, penso che il live si faccia apposta per chi ti viene ad ascoltare e quindi è giusto ed anche normale che tu debba far divertire la gente e quindi che tu (produttore) debba avvicinarti e connetterti alla gente che è li per te. Sarebbe abbastanza spocchioso tirare dritto senza considerare l’audience e quindi per la mia esibizione tendo a riarrangiare molto le mie tracce per smuovere il floor.
Fare il dj, il produttore molte volte porta ad esprimere qualcosa di sé stessi che magari nella vita di tutti i giorni non è così visibile: aggressività, malinconia, stati d’animo sparsi, c’è qualcosa che Luca dà a Capibara e qualcosa che Capibara dà a Luca (lo so la domanda è marzulliana)?
Questa è molto marzulliana in effetti ed non saprei come risponderti… però ti dirò: forse si, forse no… nel senso che io compongo musica da quando ho 10 anni e da un hobby si è trasformato in qualcosa di più presente. Quando produco una traccia non parto con l’idea di voler comunicare qualcosa subito, ma semplicemente magari capita che nel pomeriggio stavo ascoltando una traccia di Ghemon e mi è piaciuto un cambio ritmo che ha fatto oppure che me stavo a sentì (per rendere al meglio la romanità dell’intervista, nda) i The National che non c’entrano un cazzo con quello che stavo ascoltando prima, ma magari c’è un loop di chitarra figo e lo immagino fatto con il sintetizzatore. Perciò è più che altro la curiosità a spingermi a provare le combinazioni.
Ci sono alcune tracce fondamentali che t’hanno avvicinato al mondo della produzione o che prendi come punto di riferimento per la tua produzione?
Sicuramente una delle prime che mi hanno messo in connessione con il mondo della musica elettronica è “At the Edge of the World You Will Still Float” dei Telefon Tel Aviv che ha quel tocco profondamente malinconico quasi pop che mi piace; e poi una di quelle tracce che risulta sempre fonte di ispirazione è “What Goes Around Comes Around” di Justin Timberlake, in cui c’è quel cambio che da traccia soul/r’n’b diventa 2-step con percussioni drum’n’bass e difatti il lavoro di Timbaland su quell’album è stato fondamentale perché in molti casi le mie tracce partono in una maniera ed hanno un cambio brusco su altre direzioni. Ci metto anche “Rusty Nails” dei Moderat in cui si fondono bene la ruvidità dei Modeselektor con l’eleganza di Apparat, tutto “Kiss Land” di The Weeknd e “Channel Orange” di Frank Ocean.
Quale credi sia la situazione attuale della scena italiana? Damir Ivic nell’editoriale “Non sono tempi noiosi (è ora di giocare da grandi)” parla di una scena viva, magmatica. Qual è il tuo pensiero?
Credo che in Italia, anche se con ritardo rispetto all’Europa sta uscendo effettivamente qualcosa che stralcia rispetto al solito commerciale. Penso al lavoro di Kidz106 e Lobo al Leoncavallo che ha portato Tokimonsta, Lapalux, Om Unit, oppure la serata italiana con Go Dugong e Machweo, ma anche a Roma con la serata SINCE che ha portato 96wrld prima che diventasse quello che è adesso e il tutto con un seguito di pubblico non indifferente. Inoltre si sta creando una compattazione tra i producer e le etichette in maniera tale da creare una rete che permetta di scambiarsi gli artisti per le serate, aiutarsi l’un con l’altro, crescere insieme e quindi sono molto contento della situazione che mi trovo ad affrontare in Italia in questo momento.
Ultima: Sei ancora il ragazzo della stanza? Quello del DIY?
Si, lo sarò sempre… Porto, portiamo e porteremo sempre avanti la laptop music ma abbiamo anche band vere e proprie come i Dropp e difatti per la nuova stagione White Forest puntiamo ad “uscire” dalla cameretta e dalla produzione DIY ricordandoci sempre però del ragazzo che sta davanti al Mac con le cuffie. È da lì che veniamo.