Ognuno ha le abitudini che si merita di avere.
Le mie spesso sono orribili.
Il sabato mattina, per dire, mi piace uscire per andare a fare la spesa nel mio alimentari preferito e comprare cose da mangiare di quelle che non trovi in tavola tutti i giorni. Sabato ho acquistato due mini-burrate affumicate, un barattolo di pesto al pistacchio, le “gocce di latte” e del pane.
Ho speso poco più di undici euro, che non è pochissimo se confrontato a quello che ho comprato, ma neanche tanto. Dall’alimentari all’edicola il passo è breve, e anche lì entrano in scena le abitudini: sono cresciuto acquistando le riviste musicali. Lo faccio da sempre. Se mi guardo indietro non ricordo un solo mese della mia vita trascorso senza la solita pila di riviste specializzate da sfogliare e leggere. E non non ne ho mai buttata neanche una.
L’abitudine è diventata un’ossessione quando alle pubblicazioni italiane ho cominciato ad affiancare anche quelle provenienti dall’estero. Non ho mai sottoscritto un abbonamento – non chiedetemi perché, non riesco a non darmi una risposta che non comprenda insulti – ma non ho neanche mai smesso di acquistarle. E l’ho fatto anche questo sabato.
Come sempre.
Ho preso, perdonatemi se faccio i nomi: Il Mucchio, Rumore e Blow Up. Tre riviste per ventidue euro. Altri cinquantotto e ci si vincono le elezioni.
Ventidue. Il doppio esatto di quello che ho speso per mangiare. Si tratta essenzialmente di numeri estivi, quindi raddoppiati e, nel caso di Rumore, con allegati succulenti, ma si tratta comunque di ventidue euro e quella cifra mi è rimasta in testa per tutta la giornata.
Ecco, io adesso lo so che quando si scrive una cosa del genere si corre il rischio terribile di sfociare nel grillismo più deteriore. Il mondo dei conti in tasca e dell’indignazione facilona, e giuro che non è assolutamente il tipo di mondo in cui voglio finire io.
Sono in grado di comprendere il perché una pubblicazione indipendente arrivi a costare quelle cifre: il costo della carta, la mancanza di pubblicità… capisco tutto, lo giuro. Eppure non riesco a non storcere il naso, a non sentirmi quasi a disagio, al punto che viene spontaneo farsi delle domande e, alla maniera di Marzullo, darsi pure delle risposte.
OK, tenetevi forte: siamo nel 2014 e stiamo per tornare al solito, eterno, interminabile dibattito: a cosa serve la carta – le riviste di carta – nell’epoca della rete?
Hanno ancora senso?
La risposta forse sorprenderà più di qualcuno, ma sì. Hanno senso. Hanno ancora un sacco di senso.
E lo scrivo qui. Su Internet. Il luogo del delitto.
In questi anni di crisi editoriale irreversibile, ci siamo talmente affannati a raccontare l’ultimo respiro della carta che quasi ci siamo distratti da quello che stava accadendo alla rete. Stiamo nel pieno di un’epoca che viaggia alla velocità della luce, dove un anno vale un lustro. Tutto si evolve continuamente e lo fa in maniera subdola fingendosi immutabile.
Negli ultimi cinque anni, il linguaggio della critica musicale è cambiato decine di volte e la rete ne ha scandito i tempi. C’è stato il periodo del “tutto-breve” e quello del “troppo-lungo”, quello dei link SoundCloud con due righe di commento e le lenzuolate. Quello dove era importante arrivare per primi e quello dove sembrava più giusto fermarsi sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico. L’epoca in cui si cercava di fare Lester Bangs finendo per somigliare ad Alvaro Vitali, e quella della para-sociologia alla Simon Reynolds. Fino ad arrivare a ora. Fino ad arrivare al vale tutto. Anzi: vale tutto purché raccolga una marea di click. Col tempo è cambiato il fine ultimo e il significato stesso della parola critica, e la colpa è essenzialmente nostra. Di quelli che scrivono.
Quelli che da un certo punto in poi hanno cominciato a fare confusione e associare il loro lavoro a quello della promozione musicale. Tutto è marketing. Tutto serve per promuovere dei brand (e per brand s’intende un musicista qualsiasi come la marca dei jeans che indosso in questo momento). Non si capisce più niente.
Non ci capisco più niente.
Non è la carta che sta morendo, ma c’è un mestiere che forse non è più possibile definire tale e che sembra avere sempre meno senso. Per questo non sopporto gli ultras della rete, quelli che si vantano di avere rovesciato un sistema nel momento stesso in cui il sistema si è mangiato tutto il resto. Compresi loro stessi. C’è la fabbrica del pop e quella dei click, in mezzo ci siamo noi. Gli spendibili.
Le riviste cartacee sono diventate sempre meno importanti e sempre più marginali proprio perché si sono arrese al ruolo delle inseguitrici. All’evidenziare le differenze hanno preferito il rincorrere e appiattirsi al linguaggio della rete, mutuando stilemi e cliché nati già vecchi prima ancora di emettere il primo vagito. Quando apro una rivista musicale e dentro trovo il link a una pagina web, un link a una pagina che non potrò mai cliccare, muoio sempre un po’ dentro e mi chiedo: “Perché?” C’è davvero qualcuno, qualche lettore, che si diverte a ricopiarlo per poi andare andare a verificare online? O è semplicemente il manifesto di una resa?
La sensazione è che per molti le riviste siano una roba da reduci, o da abitudinari come il sottoscritto. Una cosa del secolo scorso che resiste per inerzia e che prima o poi, inevitabilmente, finirà per sparire. Eppure io ci credo ancora.
Credo che il modo in cui si racconta la musica su carta sia essenzialmente diverso da quello del web; credo che ci sia bisogno e spazio per un approfondimento serio e che si possa parlare di musica “nuova” con la stessa competenza con cui spesso si affronta quella “vecchia”.
Per questo se penso a quei ventidue euro non penso a soldi buttati, ma li vedo come una barriera e credo che spenderei più volentieri cifre analoghe per qualcosa di diverso.
Che forse sono i mensili ad avere perso la loro ragion d’essere, ma che quello che hanno costruito nel tempo non merita di essere perso o buttato via. E allora faccio anche a voi la domanda che mi sono posto sabato mattina, mentre tornavo a casa e sfogliavo Blow Up: “Ma non sarebbe meglio che tutte queste riviste si trasformassero in trimestrali o semestrali, sempre più simili a libri da conservare, con grafiche più curate, linee editoriali più personali, e articoli di quelli che non capitano tutti i giorni?” Io la risposta me la sono data e sì, per una rivista, una sola, del genere, spenderei tranquillamente ventidue euro. E forse non sarei il solo.