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[tab title=”Italiano”]Riuscire a captare le orecchie dei produttori berlinesi non è un’impresa semplice. Soprattutto quando si ha a che fare con le orecchie esigenti di personaggi come Gernot Bronsert e Sebastian Szary, i padroni di casa Monkeytown. Ci è riuscito Alex Banks, inglesissimo dj e producer dalle parti di Brighton. Ci sono voluti due anni di lavoro minuzioso per portare a termine “Illuminate”, l’album di debutto. Per quanto ci possa far pensare a qualcosa di luminoso, al contrario l’album è certi versi molto oscuro, pieno di sonorità complesse, cose che creano immediatamente un forte legame con l’ascoltatore. Un album che arriva all’apice della carriera di Alex come dj, che è certamente giovane ma ancora in tempo per capitare nel bel mezzo della Londra che stava scoprendo il dubstep. A Londra studia all’università, balla fino alla nausea e impara osservando i dj all’opera. In questi anni comprende, in qualità di dj, l’importanza di saper avvolgere il pubblico per creare sintonia con la musica. Se poi a tutto questo aggiungiamo la voce suadente di Elizabeth Bernholz aka Gazelle Twin, allora abbiamo fatto centro. Melodie accennate che si sovrappongono alla già corposa struttura strumentale delle tracce. Un tocco malinconico, ma che serve da legame. Se siete curiosi, ad Alex piacciono molto i pezzi storici, ne parla in particolare in questo bel video realizzato da Electronic Beats, dove vi porta nel suo studio.
Due anni per concludere un album significano un lavoro certosino o sbaglio?
Esattamente, due anni intensi. Prima di dedicarmi all’album ho lavorato a dei remix e ad altri progetti, cercando di costruire il mio suono. Cioè, il lavoro di ricerca sul suono va ormai avanti da anni e mi sono reso conto di aver raggiunto un buon livello di soddisfazione proprio durante la realizzazione dei remix nei mesi precedenti all’album. In quel momento sapevo quale tipo di suono avrei voluto ottenere. Sicuramente qualcosa di multiforme, abbastanza ampio per racchiudere insieme diversi stili. Ero arrivato ad un punto della mia carriera in cui sentivo la necessità di realizzare un album, per esprimere quello che di musicale avevo da dire, piuttosto che per definire un concetto di suono. Però, prima di mettermi al lavoro mi sono preso un mese di pausa e sono andato in Thailandia a godermi sole e mare e intanto mi sono portato un po’ di musica da ascoltare. Giusto per ascoltare qualcosa di nuovo, perché quando sono in studio è molto difficile che riesca ad ascoltare musica di altri. Ci sono persone che riescono ad ascoltare musica in continuazione tutto il giorno, dipende dal loro lavoro. Io non ci riesco, perché sono immerso tutto il giorno nella mia musica. Quindi sono partito per un mese, nel bisogno di togliendomi dallo studio, anche perché sapevo che ci sarei ripiombato non appena ritornato e che ci sarei rimasto per un bel po’. Sapevo che mi aspettava un periodo faticoso. Durante questo mese di pausa ho potuto ascoltare moltissima musica, di generi completamente diversi, passando da tutta la produzione 50Weapons e Monkeytown, artisti da Ninja Tune, fino ad arrivare al folk, al jazz, insomma un po’ di tutto. Una volta tornato, ero talmente pieno di idee che la testa mi scoppiava. Mi sono quindi messo al lavoro per tirare fuori tutto quanto avevo in mente. Ho abbozzato qualche idea, cose diverse tra loro per tempo e stile, ma si trattava già di materiale che aveva una struttura precisa. Sono poi passato in varie fasi in cui magari per due mesi scrivevo tutto quello che mi passava per la testa, cercando di essere molto veloce nella stesura per non perdere l’ispirazione. Quando mi ritrovavo con del materiale sufficiente per completare magari un paio di tracce, allora mi fermavo e cercavo di lavorarle più a fondo. Dopo quasi tre mesi penso che avessi a disposizione qualcosa come quattro o cinque tracce che stavano prendendo forma. Allora mi sono fermato di nuovo per riprendere il processo dall’inizio, mettendoci elementi nuovi e ricostruendo quanto avevo già scritto. Andando avanti per mesi con questo metodo, mi accorgevo – ed è una cosa di cui siamo tutti consapevoli come producer – che le ultime tracce risultavano più interessanti, in un certo senso più fresche di quelle scritte all’inizio, che perdevano un po’ dell’energia originale. A questo punto capita che molti decidano di pubblicare un primo EP con anche solo quattro tracce, per poi proseguire in questo modo, pubblicandone un secondo dopo qualche mese e così via. Però il mio obiettivo era di realizzare un album completo; quindi, piuttosto che far uscire un EP e poi un altro e un altro ancora, finivo quattro tracce e le mettevo da parte per passare ai nuovi brani. Quando poi mi sembravano che le prime tracce avessero perso un po’ di grinta, mi mettevo a fare delle modifiche, un po’ come se stessi realizzando dei remix.
In pratica un re-editing delle prime tracce?
Diciamo di sì. Il fatto è che quando sei allo stesso tempo il compositore, il producer e il tecnico del suono tutti nella stessa persona, la vera abilità consiste nel saper valutare quali parti funzionino e quali invece abbiano necessità di essere riviste e modificate. Quando invece ti trovi a collaborare con partner e magari tu sei il producer e l’altro è l’artista, trovo che più facile fare questo ragionamento. Mentre quando lavori da solo, la bravura consiste nel lavorare le tracce al meglio, ma contemporaneamente continuare a scriverne di nuove, chiedere dei pareri, farle ascoltare agli altri per ricevere un feedback. Uno degli aspetti più coinvolgenti della produzione è stato il metodo che ho utilizzato: quindi piuttosto che lavorare ogni singolo brano allo sfinimento, solo per la necessità di chiudere la traccia e magari pentirsi in un secondo momento di non aver fatto alcune modifiche, ho preferito lasciare riposare le tracce, dedicandomi ad altre, per poi rimetterci le mani a mente libera. In questo modo puoi fare continue modifiche, perché le tracce sono ancora in cantiere. Facendo i calcoli, grossomodo in diciotto mesi sono arrivato a scrivere qualcosa come una ventina di brani, o meglio di bozze per futuri brani. Considera che in mezzo è passato un anno, se non di più, tra la stesura della prima e dell’ultima traccia. Continuando questo processo di produzione di tracce nuove e di continua rielaborazione – che è andato via via crescendo verso la fine dell’album – iniziavo ad percepire una struttura organica da album vero e proprio piuttosto che le singole tracce. A questo punto ho accelerato il metodo e, da un carico di lavoro di due settimane per traccia, sono passato ad una giornata o mezza giornata per gli ultimi ritocchi, fino ad arrivare quindi al mastering. Ho preferito lo stem mastering, che ti permette di avere un maggiore controllo sul risultato finale. Questo è stato in poche parole il percorso che ha portato all’album ed è per questo anche che si possono cogliere molte influenze provenienti dai generi più diversi, dall’hip-hop al dubstep, passando per la techno. Ma per me è stato fondamentale arrivarci per questa strada. Devo dire anche che è avvenuto tutto in maniera naturale, non che ci abbia pensato a tavolino, ma alla fine credo che sia l’unico metodo per ottenere la sonorità giusta di un album.
Sì infatti sentiamo influenze da tutti i generi dell’elettronica, dalla techno 4/4, con tutte le sfumature breakbeat e downtempo, perfino un tocco glitch qua e là. So che hai fatto qualche esperimento con dei tuoi amici, mettendo alcune tracce senza dire che fossero tua e ascoltando le loro impressioni, vero?
Vero, è successo con “Phosphorus”, l’ultima traccia dell’album che ho scritto. Mi ricordo che ero arrivato ad un buon punto, avevo praticamente terminato tutti i brani – che avevano certo ancora margini di cambiamento – e mi rimaneva solo “Phosphorus”. Una sera siamo usciti con degli amici, andiamo a ballare e poi ci troviamo a casa di qualcuno a parlare e a mettere un po’ di musica. Tutti ovviamente sanno che sono un dj e quindi mi chiedono che cosa stessi ascoltando di nuovo e di farglielo sentire. Quindi metto due pezzi e in mezzo passo anche “Phosphorus”. Era solo una bozza, l’avevo iniziata qualche giorno prima, quindi suonava grezza, incompiuta, ma ti assicuro che tutti quanti hanno drizzato le orecchie e hanno iniziato a chiedermi che cosa fosse. All’inizio non ho voluto dire che fosse mia, ma hanno insistito e alla fine ho dovuto svelare il segreto. C’è un motivo valido, perché se ci si abitua a fare ascoltare la propria musica ad amici, di sicuro nessuno verrà a dirti che non gli piace, perché sono amici! Quindi è una buona cosa a mio parere non dire niente a chi ascolta per poi sapere sinceramente cosa ne pensano. La stesso vale anche in un dj set, può essere utile far passare qualche traccia non ultimata per verificare sia la risposta del pubblico sia l’impatto sonoro su un impianto audio adeguato. Quando l’esperimento funziona, capita che qualcuno arrivi e ti chieda i titoli dei brani, in questo caso vuol dire che hai fatto centro. Ho fatto una cosa simile mentre lavoravo ai remix per la serie Solid Steel di Ninja Tune: erano due anni fa e in quel momento avevo terminato “Initiate”. Non avendo ancora un’etichetta per la distribuzione, non mi trovavo nella condizione di renderla pubblica, ma avevo voglia di fare una prova mettendo qualcosa di nuovo nel mix. Quindi verso la metà ho messo “Initiate”, così giusto per provare, ovviamente senza dirlo a nessuno e senza nemmeno scriverlo nella scaletta dei brani. In pratica, come se non esistesse. E così se fai caso alla traccia di SoundCloud, vedi tutti i commenti concentrati nella metà del mix della serie «Hey, che traccia è? È stupenda!» Vedere che tutte queste persone, che non mi conoscevano, impazzivano a cercare in mezzo alla scaletta il brano che non trovavano, mi ha dato una bella spinta. Alcuni mi hanno addirittura scritto, chiedendomi il titolo del brano e poi quando l’hanno scoperto, una volta uscito l’album, mi hanno riscritto dicendomi che l’avevano trovato. Sì, è stata una bella esperienza.
Immagino! Proprio pensando al pubblico, ti chiedo in quale la direzione va la tua musica. Con “Illuminate” ci arriva addosso un mole impressionante di suoni che noi traduciamo in emozioni. Con una musica così densa, che ti assorbe completamente, che cosa ti aspetti che arrivi all’ascoltatore?
Per prima cosa il mio obiettivo è scrivere musica che io per primo abbia il desiderio di ascoltare. Ovviamente poi la scrivo per gli altri, ma, invece di pensare a come verrà accolta e che uso se ne potrà fare, cerco di concentrarmi su un risultato che sia assolutamente personale e in cui mi io stesso mi riconosca. Anche perché mi accorgo di annoiarmi spesso quando ascolto un intero album che sia di techno, di drum’n’bass o di qualsiasi altro genere. Molti dicono che l’album come concetto sia finito, io non lo credo, penso piuttosto che ci siano troppe cose che distolgono molto facilmente la nostra attenzione. Prendi internet, ad esempio. In un album, perché le persone possano sedersi ed ascoltarlo oppure metterlo in cuffia e entrarci in sintonia, penso che ci debba essere qualcosa in più che lo renda speciale. Dipende anche dalla destinazione, cioè se devi fare qualcosa che funzioni per il dancefloor, è chiaro che avrai bisogno di un prodotto più semplice. Ma per il fatto che, come dici, si tratti di musica densa, quello che voglio è che la mia musica possa prendere tutte le direzioni possibili, che ci sia sempre la possibilità di aggiungere qualcosa in più da aggiungere. Esiste in circolazione molta bella musica che è anche molto semplice, però nel mio caso ho voluto fare qualcosa che andasse oltre a questo aspetto. Per quanto riguarda il rapporto con l’ascoltatore, anche se non è semplice da spiegare, mi piace pensare che la musica sia una sorta di colonna sonora della mia vita. E non parlo solamente della mia musica, ma quella di chiunque altro. Mi basta essere per strada o camminare sulla spiaggia, anche semplicemente ascoltando un brano dal mio iPhone, e mi sembra come di essere in un film. Qualsiasi possa essere il mio stato stato d’animo, riesco ad entrare in sintonia con quello che ascolto. E in tutti questi anni, ho sempre considerato le tracce che componevo come uno specchio dello stato d’animo in cui vivevo in quel preciso momento. Ogni traccia diventa quindi la colonna sonora di una fase della mia vita e guardando all’indietro, la riconosco come una sorta di diario delle emozioni.
Ecco perché in “Illuminate” si ricreano stati d’animo che, in molti casi, possono anche trovarsi agli antipodi. La capacità sta nel riuscire a farli convivere insieme.
A proposito ricordo che qualche anno fa, dopo aver fatto il remix per Bonobo, ricevevo in continuazione messaggi di persone da qualsiasi parte del mondo che mi dicevano di aver ascoltato il remix mentre erano in viaggio, vivevano momenti particolari o magari si trovavano più semplicemente a ballare in un club. Il fatto è che con la mia musica sono riuscito a mettere in connessione con tutte quelle situazioni tra di loro, proprio perché per me si tratta di una colonna sonora. C’è una cosa che mi piace notare in particolare, se fai caso sulla metro, sul treno o un po’ ovunque tutti quanti ascoltano sempre della musica in cuffia. In sostanza tutti quanti mettiamo nella musica le nostre storie, il nostro vissuto che, per quanto siano diversi gli uni dagli altri, fanno parte dell’esperienza di tutti gli esseri umani. Per questo c’è qualcosa di profondo che mi spinge a cercare di costruire un sottofondo musicale per le vite degli altri. È una cosa che ho pensato molto tempo fa, durante l’università, mentre lavoravo ad una ricerca su una serie di aspetti legati alla cultura dance. E mi sono sempre chiesto se la mia musica rientri in quella categoria, perché secondo me non è la definizione più corretta che le appartiene. La conclusione a cui sono arrivato è che in fondo siamo fatti tutti della stessa sostanza e quindi, se mi sforzo di tradurre musicalmente in maniera più fedele possibile le mie emozioni, se rimango coerente alla mia linea, allora ci saranno più possibilità perché anche gli altri possano ritrovare le loro esperienze nella mia musica. E quando scopro che si crea quel legame con l’ascoltatore, beh allora penso di aver raggiunto l’obiettivo più importante.
Ti chiedi se la tua musica possa essere definita dance, allora è perché forse sotto c’è dell’altro. Da qualche parte ho letto che ti domandavi se la musica dance possa essere considerata arte. Penso che questo sia oggi una delle questioni da affrontare, anche perché i confini con l’arte spesso non sono così chiari. Per caso, col passare degli anni sei riuscito a darti una risposta?
Ricordo che quando mi facevo quella domanda avevo 21 anni, ora ne ho 33 e le cose sono cambiate. In quel periodo pensavo a tante cose, mi facevo molte domande, senza arrivare mai ad una soluzione vera e proprio. Cioè, in un certo senso una risposta forse l’ho anche trovata, ma adesso non sono sicuro di pensarla allo stesso modo. Avendo letto e fatto alcune ricerche sulla materia, penso che con il termine arte mi riferissi ad un prodotto che conserva in sé un grado di originalità e di contenuti collegati al contesto e alla ragione per cui è stato creato. Volendo, potrei sempre scrivere un pezzo che assomigli esattamente a qualcosa che ho sentito da qualche parte e che mi piace particolarmente. Voglio dire, non ci sarebbe niente di male e potrebbe anche piacere, no? Però se non dovessi aggiungere la mia impronta e mi limitassi a fare una copia, beh allora penso che questa non si potrebbe definire arte. Con questo non sto dicendo che tutto debba essere per forza originale, nemmeno la mia musica lo è del tutto. Certo, è ovvio che ho sviluppato il mio stile e le mie tecniche, ma in termini di suono, quello che ho creato non è nient’altro che la riproduzione di quello che mi piace e in cui mi riconosco. Penso che per fare dell’arte, in musica o in qualsiasi altra disciplina, si debba saper trarre ispirazione dagli stimoli più diversi e trovare il proprio modo per fonderli insieme. Quando invece fai di tutto per non avere influenze esterne, nel tentativo di astrarre la tua musica da qualsiasi altra cosa conosciuta, forse in questo caso corri il rischio di risultare troppo distaccato, troppo distante dalle aspettative. Non puoi aspettarti che gli altri capiscano il tuo percorso e che siano disposti a seguirti per la strada che hai intrapreso. Quindi si tratta di originalità, ma anche di curiosità nell’esplorare e sperimentare quello che arriva da fuori. Solo in questo caso sono convinto che si possa parlare veramente di arte. Prendi ad esempio Beatport, quanta musica tra quella che puoi trovare suona tutta uguale, non sembra spesso un’eterna copia di se stessa? Puoi chiamarla arte? Personalmente penso di no, perché manca dell’espressione personale. Penso che nel momento della creazione, qualsiasi cosa che si allontani dalla ricerca personale, ci allontani anche dal concetto di arte. A questo proposito avevo letto molto sul rapporto tra musica, ma non solo, tra arte in generale e capitalismo. Questo in conclusione è il mio ragionamento lungo e contorto.
Quando parli di influenze, ci racconti quali sono state quelle che ti hanno portato all’elettronica, che cosa consideri come la tua formazione musicale?
Quando ero giovane, molto giovane, tra i dieci e quindici anni, ascoltavo tanto rock, di cui mi piaceva quell’energia e quella rabbia che ti danno la carica. Però ascoltavo anche molto gli Ozric Tentacles, che avevano quella particolare vena psichedelica che mi attirava. C’erano le chitarre rock e i vari soli – al tempo studiavo chitarra – però c’erano anche quei suoni di synth e quelle sonorità astratte che aprivano altri mondi. Passavo moltissimo tempo ascoltando quella musica in cuffia e per questo ricordo che i miei coetanei mi prendevano sempre in giro. Sai, a quell’età non dovresti stare tanto a pensare, dovresti uscire e fare le cose che fanno i ragazzi. Io un po’ uscivo, ma poi mi ritiravo per concentrarmi su questa nuova musica che mio fratello, più grande di me, mi suonava e mi passava. Non è stato un momento facile da sopportare, però non me ne importava granché di cosa ne pensassero gli altri. Detto questo, verso i quindici anni ho messo per la prima volta le mani su un sintetizzatore, perché a scuola studiavamo argomenti sulla sintesi e la processione del suono. Suonando anche altri strumenti e cantando, mi sono reso conto che con la registrazione multi-traccia e usando la componente elettronica potevo fare tutte le cose insieme. È stata come una rivelazione ed esattamente nello stesso periodo venivano fuori musicisti e gruppi come Orbital, Chemical Brothers, Faithless, Left Field, Massive Attack, Portishead, Lamb, tutti con questi set giganteschi. Ognuno portava avanti il proprio stile, ma non si trattava esclusivamente di musica dance, c’era dell’altro, alcune volte i cantanti, altre volte c’era una formazione vera e propria e non solo singoli dj. Nel caso di Orbital e Chemical Brothers, erano lì con tutti i loro sintetizzatori e la loro attrezzatura a plasmare la loro musica. All’inizio li vedevo in televisione, poi appena qualche anno dopo sono andato prima al Glastonbury e poi ad altri festival, dove ho visto come riuscivano a trasportare un prodotto concepito per il club ad una platea di migliaia di persone. È stata la scintilla che ha acceso la miccia e che mi ha portato nel mondo dell’elettronica.
Quindi è così che ti si sono aperte le porte.
Esattamente, poi mi sono trasferito a Londra a diciassette anni, dove ho iniziato a frequentare la scena rave e i vari club della città. Studiavo all’università ad Harrow, a nord-ovest della città, un po’ fuori a dire il vero, ma avevo un gruppo di amici con cui andavamo a ballare, ci bastava mezz’ora per essere in centro. Da lì avevamo a portata tutti i locali per qualsiasi gusto musicale. Andavamo alla serata Movement del Bar Rumba – il giovedì sera, se non sbaglio – drum’n’bass di tutto rispetto! Costava poco, il locale era piccolo e da lì poi ci spostavamo nel weekend da altre parti, per continuare con qualcosa di più techno. Avevamo tutto quello che volevamo, senza contare che all’epoca stava nascendo questa nuova scena dubstep.
E voi vi siete trovati proprio nel mezzo!
Sì, eravamo proprio lì, l’abbiamo presa in pieno! C’erano sere dove sentivi jungle mischiata a drum’n’bass e magari nella stanza di fianco stavano suonando dubstep. Al tempo era una dubstep nella sua versione più ambient, più pura e senza tante aggiunte. Tra di noi ci chiedevamo se sarebbe durata e quali ricadute avrebbe avuto. Posso dire che trovarsi nel mezzo è stato proprio emozionante. Anche per quello che faccio, come producer, è fondamentale essere continuamente stimolato da nuove esperienze. Dopo anni passati a Londra, mi sono trasferito a Brighton, una cittadina molto più tranquilla che si trova sul mare. Poi ad uno che è nato e cresciuto in campagna, fa sempre piacere avere del verde attorno. Però è una città attiva, ha i suoi club, succedono cose interessanti e poi Londra si trova a nemmeno un’ora di treno da qui, quindi posso andarci comodamente quando voglio. Allo stesso tempo non sono immerso tutto il tempo in serate, feste e tutto quello che ne consegue anche perché devo ammettere che ho trentatré anni e vorrei avere la forza per realizzare altri album! Diciamo che qui a Brighton ho trovato l’equilibrio necessario. Per il resto mi tengo sempre aggiornato e cerco ispirazione un po’ ovunque. Un altro aspetto è che ora ho tante serate in cui suonare e la parte live assume sempre più importanza. In più, oltre a suonare la mia musica e fare esperimenti davanti ad un pubblico, ho anche l’opportunità di ascoltare altri musicisti, altri dj per cui quando ero più giovane dovevo pagare per poterli ascoltare. Ora siamo l’uno di fianco all’altro! Ancora oggi provo la stessa gioia di un ragazzino, quando ascolto un pezzo che mi prende su uno di questi mega impianto. Sono sensazioni di continuo stupore che sono vitali perché mi portano a cercare sempre qualcosa di speciale nella mia musica, perché non risulti mai monotona né a me né tantomeno a chi ascolta. Lo ripeto, devi essere spinto a cercare sempre qualcosa di nuovo da esprimere!
Appunto durante il live come riesci a riprodurre tutta quella massa sonora che abbiamo nell’album? Tu stesso dici che anche il singolo musicista deve sentirsi come un gruppo intero, anche se sta suonando da solo, come ci arrivi quindi?
Arrivando dalla produzione in studio, ho pensato molto a come avrei affrontato un live. Anche in questo caso ho studiato attentamente quello che hanno fatto Orbital e Chemical Brothers negli anni ’90, quindi prima che sbarcasse Ableton. Passando al metodo, piuttosto che suonare ogni singola parte, uso un approccio più da dj, mandando le varie clip su cui ho lavorato in precedenza, cosa che ti lascia la completa libertà per stabilire come costruire i vari layer, quando piazzare i break e così via. Oggi con Ableton si possono fare cose incredibili e la scommessa sta nel saper tenere costantemente coinvolto il pubblico e, contemporaneamente, preservare il carattere originale del lavoro eseguito in precedenza in studio. Per conservare tutto quello che rende l’album così interessante, o almeno spero… Per questo passo ore e ore sulle percussioni, lavorando sui kick, sui rullanti e missando i diversi loop insieme.
Cosa utilizzi come drum machine?
Realizzo la maggior parte dei beat con Logic e qualcosa anche con la Maschine Mikro, in particolare per mettere giù velocemente quello che mi passa per la testa. In un secondo momento aggiungo altri livelli di batteria, presi da altre parti e che ho modificato appositamente, che magari non è necessario che si sentano come parti autonome, ma che sono importanti in quanto aggiungono uno strato in più che alla fine crea quella texture particolarmente densa di batteria, con quella pasta da vinile. Non potendoli ricreare live sul momento, ecco l’utilità dello stem mastering. In questo modo ho da una parte le percussioni, dall’altra i bassi e le voci e così via, scomponendo la struttura di una traccia. Quindi quando faccio partire le clip, che hanno raggiunto il massimo livello di qualità audio e che quindi risuoneranno piene, calde e profonde. Come controller principale uso l’Ableton Push – Ableton è stato un supporter indispensabile per musicisti come me – magari nella prima fila ho tutte le percussioni, nell’altra le sezioni dei bassi, in pratica tutti i sample che ho tagliato. Quindi proseguo montando la traccia con le varie parti, mandando le varie clip, in pratica come se stessi facendo un remix live della traccia. Controllo gli effetti con Ableton, il Kaoss e il Maschine, che porto sempre con me. Se riesco, porto anche il Voyager.
Addirittura!
Se riesco! Sono riuscito a portarlo al Melt! poche settimane fa, ma solo perché con me c’era anche Elizabeth, la cantante, quindi avevo un paio di mani in più. Sono come un bambino, mi porterei tutto quanto! Per ora ci sto ancora lavorando, ho comprato da poco un altro drum pad a quattro pad. Così se durante il live non ho con me me un synth, posso al suo posto usare dei un loop di percussioni che ho realizzato in precedenza, poi passo al Kaoss e ci aggiungo la voce. Insomma, faccio delle prove con i suoni, sperimento cose nuove sul momento, anche perché i margini di azione sono enormi e posso fare essenzialmente quello che voglio. Quindi, che dire, è divertente! A posteriori mi sono reso conto che la parte in studio a volte rischia di essere un po’ noiosa. E non parlo della fase creativa ovviamente, ma a tutto ciò che riguarda la programmazione, come assegnare i parametri ad ogni controller è un lavoro piuttosto tecnico.
Certamente, di sicuro non è la parte più divertente.
Esatto, ma quando sei sul palco hai il controllo totale su ogni cosa e puoi portare il discorso dove ti pare, ovunque.
Visto che hai citato Elizabeth, la voce dell’album, ci dici qualcosa sul suo ruolo? Avevi in mente di fare delle tracce con la voce o è stata una decisione presa a lavori già avviati?
A dire il vero, negli anni ho lavorato con la voce in molti progetti. Poi è anche dovuto al mio trascorso, vedi tutta la musica di Lamb, Massive Attack, Portishead, Faithless, da sempre cioè mi sono occupato di elettronica non solamente strumentale. Ma per quanto riguarda l’album, non credo che sia stata una decisione studiata a monte. Piuttosto, durante la produzione, in più occasioni ho pensato che alcuni brani avrebbero funzionato benissimo se si fosse aggiunta anche una parte vocale. Quindi immaginavo che prima o poi ne avrei avuto bisogno. Mentre stavo scrivendo le prime bozze, ho pensato assieme al mio manager a chi avremmo potuto chiamare. Sicuramente avevamo un’ampia scelta, è pieno di cantanti in gamba, però nel mio caso avevo bisogno di qualcuno che potesse confrontarsi adeguatamente con un musica così aggressiva come la mia. Elizabeth è di Brighton e conosceva il mio manager e il team di Just Isn’t Music, che ci aveva tra l’altro fatto proprio il suo nome. Ho cercato un po’ di sue cose e ho ascoltato attentamente, anche perché trovo che sia difficile farsi un’idea delle potenzialità dei cantanti ascoltando le loro produzioni. Spesso vengono lavorate in una maniera che le allontana alle realtà. Come cantante Elizabeth si esibisce con il nome di Gazelle Twin – di cui sono un grande fan – però il suo stile è così diverso dal mio. Infatti il progetto Gazelle Twin ha una sonorità completamente diversa da quello che abbiamo ottenuto lavorando insieme. All’inizio ci siamo conosciuti con la scusa di un caffè, abbiamo avuto una lunga conversazione e, mentre tornavo a casa, sentivo che la nostra sarebbe stata una collaborazione perfetta. Ha iniziato a mandarmi delle bozze per “All You Could Do” e ne sono veramente rimasto colpito. Voglio dire, erano solo delle idee, ma, per quanto potessero essere improvvisate e senza una struttura studiata, ho subito capito quali erano le potenzialità della sua voce e infatti la sua melodia, il suo fraseggio si legano perfettamente alla mia musica.
Sì, infatti crea proprio quell’atmosfera sospesa che si fonde in maniera efficace con la quantità di suoni della tua musica.
Esatto, ho capito che la fusione di questi due aspetti era molto importante e alla fine sono convinto che l’ascoltatore, per quanto possa essere complessa la mia componente sonora, seguirà sempre la linea vocale. È un dato di fatto. Poi è utile confrontarsi con altri quando si crea della musica e io nutro per lei un grande rispetto, non solo come cantante, ma come musicista. Tutto quello che fa funziona a meraviglia, dal ritmo al fraseggio, non c’è mai stata una sola occasione in cui ho pensato che il risultato non mi convincesse appieno. C’è un’ottima intesa tra di noi e posso dire apertamente che è stato fantastico condividere questa esperienza con lei.[/tab]
[tab title=”English”]It’s not that easy to get the attention of Berlin based producers, especially when you have to deal with Monkeytown’s bosses, Gernot Bronsert and Sebastian Szary. A dj and producer from Brighton, travelling with a Voyager in his bag, managed in the attempt. His name is Alex Banks. He has been working for something like two years in the studio and finally released “Illuminate” a few months ago. Though bright as it may sound, “Illuminate” drives the listener deep in a dark world, stuffed with thick sounds and complex textures. And by dark we mean something intimate and warm. The album marks an important step in Banks’ career who, though still young, was lucky enough to find himself in the middle of the rising dubstep scene in London. At that time Banks was studying at university and, as an enthusiastic clubgoer, spent every possible weekend into London’s best clubs, learning how djs manage to absorb their audience. A well-trained ear, he then carried all of those influences into his later production. But still it wasn’t enough and that’s how the dreamy voice of Elizabeth Bernholz, better known by her moniker Gazelle Twin, comes in. Layers of intriguing sounds and weird soundscapes are perfectly combined with the whispery melodies of the singer. By the way Banks loves analogue gear and you can take a tour in his studio thanks to this nice video interview by Electronic Beats.
You took about two years to complete your album, it must have been quite immersive, being head down in the making.
It was! It was a very immersive experience. Before I started writing it I’ve been working on some remixes and kind of a few other projects, really developing my sound. Well, I’ve been developing my sound for a very long time, but doing these remixes I really felt that in the months before I started working on the album, my sound had really moved on. So I was pretty sure to get a good idea of what my sound was like. As you can hear, it’s very diverse, there’s a lot of different styles in there. I just felt it I was in a stage of my career where I really wanted to do an album that put across, you know, what I really have to say musically and not my sound. So before I started working on it, I went away for a month to take some time out. I went to Thailand just cause it’s, you know, a hot country, sun and beautiful beaches and I took with me a lot of new music to listen to. Just to soak it up, because when I’m working in the studio, it can be quite difficult to find time to listen to new music. I’ve got friends which get to listen to music all day. I don’t, because I’m listening to my own music! So I was trying to get out of the dark studio, because I knew that when I started working on an album, it was going to be a very long journey from start to finish. It takes a lot out of you! So I went away and I was listening to lots and lots of new music. Loads of different genres I’ve been listening to, from like techno, I’ve been listening to a lot of stuff on 50 Weapons, Monkeytown, on Ninja Tune, some of their artists which are quite diverse as well, then I’ve been listening to some like folk as well, jazz and all kinds of things. When I came back and my head was really like a big melting pot of all this different ideas. And so yeah, I just started off working on it. Started sketching out a few different ideas and again there were kind of different tempos and different styles. Had some consistency to it. I would go through different stages of the process where I may be having a couple of months where I was just writing and sketching up lots of ideas, trying to be really quick with getting the ideas down, to capture some inspiration. And then I would have a few tracks to work on, I’d go back to them and start developing a little bit further. After about three months I think I had maybe four or five tracks down strait that were starting to take shape. So I would then start a whole new batch and again just coming up with lots of different ideas, then going back and refining them. And then, over the course of the months, I would find that the new tracks would always sound somehow fresher and a bit more exciting than the ones I’ve been doing before. A lot of people maybe stop after a few months and they put out the EP that would be a collection of so four tracks and then you move on to the next. As I said, I really wanted to do a full-length album. So rather than putting out an EP and then another one and so on, I would just put those tracks down, work on the new ones and then, when the older tracks started to become less interesting, I would go back and develop them a little bit further. Kind of remixing, maybe changing the drums and stuff.
So actually you were kind of re-editing the previous tracks.
Yeah, kind of. I mean, when you’re the composer, the producer and the sound engineer all mixed together, the skill is to appreciate the best parts of your music and also be able to work out which parts need changing. Then, if you’re working with someone else – maybe someone else is the artist and you’re the producer – it’s a lot easier to tell which are the good bits. But when you’re doing everything yourself I think the skill is to develop the tracks but at the same time put them down, get some perspective, play them with some people and then come back to them. One of the nice things about working on this album was that – rather than brushing a track to a deadline, having to finish it and then listening back to it and wishing you could have changed things – instead I would leave them for a little while, working on to other things and later come back to them. And all those things you want to change, you can change them, because you haven’t finished your work yet. So over the course of maybe 18 months or so, I went through to the point where I think I wrote about 19/20 tracks in total. Well not tracks, but ideas for tracks. And there’s probably a year if not longer gap between the time when I started writing the first track to when I started writing the last one. Because of the process of going back and revisiting and kind of reworking them, shaping them – that all happened closer and closer together towards the end of it – they started then sound like an album, as opposed to separate tracks. So the whole process kind of speeds up, you may be spend two weeks staying on a track, two weeks on another refining them. And then by the end of it you’re spending maybe one day, or maybe half a day on a track just making those little changes. And then obviously you get masters: I got it mastered from stems so you have a little bit more control over the final process. That’s how it came together as an album, so as you can hear here’s a lot of different styles in there, you can go through slow hip-hop to dubstep to techno and different things. But it was very important for me to work on it this way. It was a very natural process, I never set out to do like this, but I think that is how it ends up sounding like an album.
So yeah, I mean we can feel a great deal of influences from any kind of electronic music, from 4/4 techno to breakbeat, downtempo, even glitchy sounds. And I also heard that you made a couple of tests with your friends. Like you put some of the tunes you were working on, without saying that they were actually yours, to get some kind of feedback.
Ah, yes actually! I remember it was “Phosphorus”, which was the last track that I wrote of the album. I remember I’d pretty much finish writing most of the tracks by that stage – they still had work to do – and I did that track as the last one. I had been out with some friends in the evening, we went to the club and then came back to someone’s flat and you know, while sitting around, you put some music. Because obviously everyone knows I dj and they were «What are you listening to? Put something on!». So I just put on a couple of tracks and I put on “Phosphorus”. I’ve only been working on it for maybe two or three days, it was a really early, really rough mix. But I could just tell everyone ears pricked up ears like «What’s this? What’s this?» and they kept asking me and I wouldn’t tell them at start, then later on I’d say «Well it’s a new tune..» You know, if you play a track to your friends and ask «Well, what do you think of this?» no one ever says «I hate it!» they would be «I love it!» So it’s nice when you put something on and you don’t tell people what it is, because then you get their honest opinion. But also, similar in dj sets if I’m playing out, you can play something new in there to see how it fits with everything else. You can hear what it sounds like on a big sound system but you can also see how people are reacting. I’ve done a couple of dj mixes for the Solid Steel series for Ninja Tune – in fact I’ve done three now in total – and there’s this thing that happened with the one I did two years ago. I think I’d almost finished writing “Initiate” by that point, which was one of the earlier tracks I did for the album. We hadn’t got a label to release on yet and the album wasn’t finished so I wasn’t in a position to start showing it to people. But I really wanted to play one of my new tracks in there, so halfway through this hour-long mix I played “Initiate” and it was just a bit of an experiment. I didn’t tell anyone, I didn’t put it on the track listing so anyone reading it would see all the different tunes in there. But for my track there was nothing, not even just a blank space, I just didn’t list it at all. And you know, people on SoundCloud would comment on certain tracks, so I could see all these comments bunching up around the middle, all these people saying like «Hey, what is this? This is amazing!» That was quite inspiring. You see how people react, these people don’t know me, they’ve never met me but they obviously picked up for that and they’re going through the track list trying to find out what the tune is. That was cool, it was really nice reading. I had a couple of fans messaging me on SoundCloud saying «Hey I can’t find that tune» and you see, now the track has actually come out and they were «So that’s what it was!»
Cool, that was nice! And speaking about the audience, I’d like to know what kind of character do you you want to achieve with your music. Especially what’s your vision considering the amount of things the audience goes through. I think your music needs quite a lot of attention, cause it absorbs the listener completely, it’s so dense I mean! So how would you expect the audience to connect with it?
I guess ultimately I’m trying to write music that I want to listen to first and foremost. Obviously I’m writing it for other people to listen to, but rather trying to think about how people will perceive it or how it will be used, I’m just trying to write something that’s quite personal to me and that I want to listen to. Sometimes I find that if I listen to a whole album of techno or a whole album of drum’n’bass or other, I can get bored by it. And then a lot of people say that the album is dying, but I don’t think that’s true. I just think that there are too many things that take our attention away, you see with the internet, there’s just an infinite number of possibilities. And I think in order to make an album that people want to sit and listen to, or they put on they headphones so they can be engaged with, it has to have a bit more going on with it. So it’s different roles, if you’re going to make a track just for the dancefloor, obviously you can have something a lot simpler. But I think in terms, as you say it’s very dense, I guess I just want always to hear different ways it can go, different things I can add to it. Well, there is great music that is really simple, but I just wanted to make something that crossed over. It’s difficult to explain, but in terms of how people would connect with it, I really see music as being like the soundtrack of my life. Not just the music that I make, but the music I listen to. If I’m walking down the street or I go for a walk on the beach, I’ll just put a tune in on my iPhone and immediately there’s something about that it makes me feel like I’m in a film. Whatever mood I’m in, it’s just that I really connect with it. And all the years I’ve been making music, I’ve always felt like the track that I’m making is reflective as the moods I’m in at the time. It’s like it becomes the soundtrack to that period of my life, so whenever I listen back, it’s almost like an emotional diary in some cases.
So that’s why “Illuminate” displays such a wide range of moods and even sometimes I get the feeling they’re opposite moods which are blended really well together in the way you put them.
I mean, when I did the remix for Bonobo a couple of years ago, I was getting messages from people all over the world saying things like «I heard your remix, I heard your Bonobo track when I was sitting on a couch driving to the mountains in Morocco» or something like that, or maybe they were in a club and it was the highlight of the night, all kinds of different things. Now all of those situations I’ve been in and I’ve really connected with music. You know, music is the soundtrack of our lives, as I said. I love the fact that if you go on the underground train or whatever, people always listen to music, all walks of life, all different backgrounds, it’s one thing that people plug into. So I love this idea of being able to create the soundtrack for other people that have their own emotional experiences. It’s something I’ve thought a long time ago. In fact when I was at university I wrote an essay talking about all sort of thing to do with dance music culture. But one thing that I was trying to get a conclusion from was whether my music fit into it, because I doesn’t really fit into one particular genre. And I think something I concluded was that we’re all made of the same stuff and if I’m making music that I connect with and that I’m putting my emotions to in a very genuine way, then the chances are that if I’m true to it, then someone else out there will connect with it as well! So to hear that people are connecting with it is actually one of the biggest achievements that I think I got from this album.
And the fact you’re wondering if your music fits in dance music – and sure it has a great club potential – maybe that’s because it’s something more than that. I read once that you’ve been asking yourself whether all dance music is art. Well, I find this matter of great interest at present, I think that’s one of the main issues of contemporary music production, cause the boundaries are so narrow and even unclear. So have you come up with a solution yet?
Yeah, well when I was writing that I was 21 and I’m 33 now. I remember at that time I was thinking a lot about stuff but I really didn’t reach that much of a conclusion. Well I did, but I don’t think that I would agree with that conclusion now. I think my definition of art – having read quite a lot of stuff about it trying to research what it is that we call art – I think it has to have a degree of originality and substance which I think relates to really where it’s coming from and the reason behind it. And I guess, if I was to make a piece of music that I wanted to sound exactly like another track that I really like, now it can be cool to do and people might think that’s great. But if you just copy someone else and you don’t try to do anything new or to put your own stamp to it, then I think it’s very difficult to call it art. Because you’re not really giving anything of yourself into it! Anyway it’s not to say that everything is completely original, my music isn’t completely original. All I’ve done is – obviously I’ve developed all my techniques and my skills, that was a big part of it – but in terms of the sound I’ve created, it’s just a genuine representation of what I like. So by taking influence from all sorts of different things and finding your own way of putting it together, I think that is kind of how you create art in music or in every discipline. You’re always going to be influenced by something, by other people’s work. And I think if you’re trying to stray too far from that and you’re trying to do something that’s not influenced by anyone, that is completely out on a limb, the problem you then find is that it’s very difficult to take people with you, for other people to connect with it. Because they can’t really follow your journey as to how you got there. And I’m saying not just in music but I think in any kind of art. That means if I come back trying to define it, I don’t think I’ve really reached a conclusion on that. I just think it has to have some substance, it has to have something with yourself in there and some degree of originality. And by exploring, by experimenting, by putting in something of yourself into music – as vague as it might sound – I think that is how you can create art. I’m sure enough if you listen to a lot of stuff in Beatport, you’ll hear a lot of music that sounds exactly like everything else that’s out there and it’s just copying. I don’t think anyone can really call that art, because it’s not music that’s made for the love! I think as soon as any reason to creating other then just creating it for the love, the more that happens, the further it moves away from being art. I remember reading some very good articles when I was researching and there was this art versus capitalism theme, not related to music, but as a concept. So I think that’s my very long, convoluting conclusion..
And what exactly were your influences, maybe back in the early days when you were making the first steps into electronic music, what shaped you as a musician?
Well I guess, when I was very young, so when I was like 10 years old to 15 I was just listening to a lot of heavy rock and I really liked the energy and I’d say the anger, it was really exciting! But I also listened to some stuff by Ozric Tentacles which was quite psychedelic. It got rock guitar and guitar solos – and I was learning guitar as a kid – but it also had these cool synth sounds and weird spacey samples. And that was really interesting to me as a kid. I remember I would listen to this stuff on the bus on the way to school and I would get all kinds of abuse from other kids. Because you know, when you’re a kid you’re supposed to be hanging out and talking shit. Yeah, I would hang with them a bit, but then I would just hear this new tracks that maybe my brother had played me – he’s a few years older than me and he would find this new music. So I’d be on the bus on the way to school and I didn’t want to sit and chat with my mates, I wanted to listen to this stuff. And they gave me a hard time for that, but I didn’t really care. So that was that! When I was like 15/16 then I discovered synthesisers because at school we were doing our GCSE and we got to play around with sequencing. Before that I played guitar, drums as well as piano, I was singing a little bit and I realised that using four-track recorders and also using this electronic medium I could play all of these parts myself. It really opened my mind, I just felt «Wow, this is really exciting! I have to do something with it!» And then around the same time Orbital, Chemical Brothers, Faithless, Left Field, Massive Attack, Portishead, Lamb as well, all of these really exciting electronic acts were starting to come out at the same time. I mean, in different styles, but there was really cool electronic production and it wasn’t just straight up dance music. It had something else to it, maybe had vocals in it or maybe there was a band playing, whereas before you would just have a dj. Or in Orbital and Chemical Brothers’ case, they would be up with all their synthesisers and all their equipment, triggering all these samples live and playing on the synths and different parts. I would see them on TV at Glastonbury and then some years later I would go to Glastonbury along myself and to other festivals. I’d see these big electronic acts, taking something that was before just for the club to a live stage with tens of thousands of people. That was really eye-opening for me, really exciting. And I think in my early years that’s what really propelled me into electronic music.
So that was your entryway…
I think so, yeah. And then when I moved to London, when I was 17, I started going out to a few raves and getting more into the club scene. Really when I was 21 and I started going to university I had a big kind of group of mates which I am still friend to and we all started going out to clubs. We were at university in Harrow, in North-West London, kind of on the outskirts of London, but from there you can get into London within half an hour. So we had all these amazing clubs at our doorstep, all kinds of different music. So you could go to Bar Rumba to Movement, which was a regular every-week drum’n’bass night – I think it was a Thursday night.. Pretty legendary night! It was cheap to get in, small club and then maybe at the weekend we would go across East London to some big techno party that was going on. And then, I don’t know, all sorts of different styles of music, I remember the dubstep scene, the whole dubstep scene started kicking off around the same time.
And you really got in the middle of it!
Yeah, I mean we were really there when it kind of started! We would go to jungle nights, drum’n’bass nights and then in the second room they’d be playing dubstep. But it was quite ambient back then, it was a lot rawer and strip back. I remember chatting with my friends «So what do you think about dubstep, do you think it will last? Do you think this will be a big thing?» You know, it was really exciting at the time. To do what I do you’ve got to be excited about it, you’ve got to keep on finding new experiences. So later on I moved out to Brighton, having been in London many years. The reason I like it down here is because it’s a lot more laid-back than London and it’s by the sea. I grew up in the countryside and it’s nice to have the outdoor space. But at the same time there’s a city just here on my doorstep, it still got clubs, it still got great music and really interesting stuff going on and London is only 50 minutes away on the train. So I can go there and see some stuff. But at the same time, if not, I don’t have to get into the whole party thing, going to get messed up all the time because you know, I’m 33, I need to make some more albums! That’s the point, you have to deal with it.. So it’s nice to have that balance here and as I’ve said, keep inspired and keep hearing new stuff. Well, one of the things I’m really excited about now is that I’m playing live shows, I’m djing out and I’ve got quite a few shows coming up. And while I’m playing in these places – which is obviously great – I also get to hear what other djs are playing out and experience lots of new music. When I was younger I used to pay to go to these places and now I get to hear it all the time! So it’s a really important part of the process and I think that feeling excited as a kid when you’re listening to a tune on a big sound system, that’s still really important now! Because you don’t ever want your ideas to become stale, I never want to be get bored with music or just make the same thing again I’ve already made and not really feeling it. You’ve got be excited about it.
What about live performances, how do you recreate all the atmospheres you get in the album when playing live? You were saying about this feeling as if a band was playing, right?
That was quite a big challenge having done the album, how did I think it was going to work in a live set. I think on a basic level it’s inspired by the way, as I’ve said, Orbital and Chemical Brothers used to do it, way back in the 90s. I remember seeing them and analysing how they were doing it. And this is before Ableton Live came around. Rather than trying to play every single part live on stage, it becomes more into the dj round way. You’re triggering stuff rather than trying to play that keyboard part, so you decide when it’s gonna come in and when you’re gonna get the breakdown, building up the layers and so forth. That a long time a go with more basic technology. Now with Ableton there’s an awful lot you can do and the main challenge really is to find enough stuff that you can do live that makes a live performance and keeps it interesting for me and the audience. But also preserving enough of the sound from the studio, so that you’re faithfully recreating the things that make your album so good. Well, hopefully.. So things like the drums, I spent hours and hours in the studio mixing the kicks and the snares, mixing the loops together.
I see, what do you use mainly to make the drums?
Mostly they’re all done in Logic and then I use the Maschine Mikro for some of the beats. I use it quite a lot to sketch up the ideas quickly but I would then add lots of other layers of drums which you would probably not necessary hear listening to, but maybe there are some weird old loops that I’ve taken from somewhere, chopped-up and messed around. That’s how you get this real dense texture of drums, like sort of crusty vinyl sounds. So things like that and then, as I said I got it mastered from stems so that I have all the drums, the bass and the vocals etc. When I then feed those drums into my live set, I know that they’ve been through that kind of ultra-high level of quality processing. So on a massive sound system they should sound fat, deep and warm. So things like that, I’ve got all the different parts of the track with different types of drums and I’ll have them on my Ableton Push controller. By the way they are a really nice company to be working with, they’ve been supporting artists like myself a lot. So I’ve got the Push controller and I’ll maybe have all the different drum parts that are going to be on the track on one row, then I’ll have all the different bits of the bass, all kind of making my own samples. Then I’ll build the track up, triggering the different clips, having those fed into a mixer with some effects on it. I control all the effects with Ableton, then my Kaoss pad and my Maschine controller are also going to be there. So it’s almost like remixing the track live. If I can I’ve got the Moog Voyager on stage..
Oh really? Do you also bring the Voyager with you?
If I can! It’s a very big, heavy thing. I’ve been playing it at Melt! Festival some weeks ago, because I had Elizabeth, she came with me and I had extra hands to carry stuff with me. I’m like a kid, you know, I want to take all my toys with me! So I’m working on it, right now in fact I bought a percussion pad with just four pads on it. So, maybe I’d like to play a little bit of synths live, instead of doing that I’ve made a drum loop that fits well with. I can play this pad with the drum sounds a little bit and then maybe I’ll go to the Kaoss pad and I’ll put some vocals through it. You know, messing around with that and creating some effects. Then it happens you create some new sound on the fly that you haven’t done before. So you’re going like the whole breakdown and then maybe you want to bring in the drums from another track. There’s a lot of scope to play around with it. So yes, it’s a lot of fun, man! I have to say in the studio beforehand it’s quite boring, cause you have to do a lot of programming. I don’t mean the making of the music, I just mean like you’ve got all these controllers and you have to assign it all.
Yeah, very technical and really painstaking.
Yeah exactly, but then when you’ve done it, it’s fantastic fun. You’re out there on stage and you’ve got total control over what direction you wanna take your track in and you can take it in all different sort of ways. So it’s really good fun!
Cool yeah! Just one more thing as you mentioned Elizabeth, in terms of vocals did you have any idea of how you were going to use the vocal parts or even did you have any idea at all about using vocal parts before making the album or it just came on the way?
Well I’ve worked with a lot of vocalists in the years on different projects. And as I said earlier, some of my early influences were things like Lamb, Massive Attack, Portishead, Faithless and I’ve always been into electronic music that had vocals on. But in terms of actual songs, I don’t think it was necessarily a conscious decision, I didn’t think I was setting out to make an album with vocals on. But I think naturally when I’m trying to decide what direction a track has to go, there will be certain points where I’m hearing it and I’ll be like «Yeah, this one is needs to have a singer in it!» So I think I knew before I started there was going be at least one or two tracks with vocals. And around the time I started sketching out some ideas, I was speaking to my manager about what kind of singer we would use. We really wanted to find someone that had some character to it. There’s a lot of great singers out there, but I think, because my production has such a strong sound, I needed to get someone on there that was going to match really well with that. And Elizabeth lives in Brighton as well and she already knew my manager just from sort of social circles in Brighton, also the publishers Just Isn’t Music knew her too and suggested her as an option. So I checked out some of her stuff and It’s sometimes difficult for me to hear what a singer is really like with their own work because maybe they’ve been produced in a certain way. She produces under the name Gazelle Twin, which is her won work and I’m a big fan of her stuff! It’s very different from what I do and her voice sounds very different on the Gazelle Twin stuff to how it does on the music we’ve made together. So I have to almost hear past that and try to imagine what I would do with her voice. So we just tried out, we met out first for a coffee and had a really long chat, really got home well, I really felt like we are on the same wave length. And she sketched out some ideas for “All You Could Do” and sent them over to me and it was really an awesome experience actually. It was very rough, just a very rough-guide vocal but I could hear straight away that the sound of her voice and the melody, the phrasing fitted really well with my sound.
Yeah, really her singing blends perfectly with your music.
It’s a very important thing, I found. And I think, no matter how good my production may be, no matter how much I work on it, people are always gonna listen to the sound of the singer on it. And I think it’s really important to have someone that matches that and I’ve got so much respect for her, not only as singer but also as a musician. Because I’d say the melodies she comes out with, the phrasing and the rhythm, they just fit really well. And there’s nothing about it when I think «I’m not sure about that!» You know, I really feel like there’s a good match, so for me it’s been fantastic working with her![/tab]
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