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[tab title=”Italiano”]A volte basta tirar fuori semplicemente ciò che di più spontaneo e naturale abbiamo dentro per ottenere grandi risultati. Jim-E Stack questo lo sa, lo ha imparato sulla sua pelle per dare alla luce “Tell Me I Belong”, suo primo ottimo album da poco pubblicato su Innovative Leisure. Un album dalle molteplici sfaccettature e riferimenti musicali (hip hop, house, dancehall, techno..), in grado di regalare soddisfazioni sia all’ascolto che al dancefloor, sempre in bilico tra fluttuanti synth ed ipnotiche percussioni. Un album che riflette la personalità e gli stati d’animo del giovane produttore statunitense, nato e cresciuto a San Francisco ma ora di base a Brooklyn.
Qualcuno una volta disse ”il talento è un dono ma l’importante è il coraggio”. A Jim-E Stack non mancano né l’uno né l’altro.
Inizierei dagli ultimi eventi, l’uscita del tuo ultima lavoro “Tell Me I Belong” uscito il 28 luglio su Innovative Leisure. Cosa ci puoi dire a riguardo, come nasce questo tuo primo, ottimo, album?
L’album è venuto fuori da circa 20 o 30 demo scritti durante i miei primi 6 mesi di permanenza a New York. Sono stato un paio di settimane lontano da loro per poi ritornarci e finirne la metà nei sei mesi successive. Sia nella creazione dei beats che dei demo, e successivamente nella loro espansione in tracce, ho usato samples e suoni raccolti negli ultimi otto anni. Credo quindi che da un lato l’album finisca per essere il riflesso spirituale degli ultimi due anni della mia vita mentre, d’altro lato, musicalmente parlando, rappresenti gli ultimi otto.
Quanto ha influito, nella creazione di “Tell Me I Belong”, l’essere lontano dai luoghi in cui fino a quel momento avevi vissuto (San Francisco e New Orleans)?
Non ho mai sentito un vero e proprio senso di appartenenza per New Orleans nei due anni in cui vi ho vissuto e l’ultimo anno a San Francisco è stato più marcato dal senso di distacco, quindi diciamo che essere l’ultimo arrivato a New York non ha rappresentato un grosso cambiamento. Era solo mutato lo scenario.
Cosa ti ha spinto a trasferirti a Brooklyn, in un periodo in cui la West Coast viene descritta come ambiente estremamente stimolante da un punto di vista musicale?
In parte per una ragazza e in parte perché non volevo dover possedere una macchina.
Leggendo alcune interviste passate ricordi gli anni passati in cui “I was doing whatever came into mind. That’s kind of the beauty of it: there was no vision whatsoever.” Certamente negli anni il suono di Jim-E Stack è cresciuto ed ha avuto modo di svilupparsi parecchio, ma quanto di quella “libertà” conservi ancora oggi? Cosa è cambiato maggiormente da allora?
Ora come ora mi sento più libero che mai. E’ stato proprio lo scrivere un album ad insegnarmi ad essere libero quanto voglio, in quanto so che miei sentimenti ed il mio modo di creare musica andranno alla fine a legare il tutto. Non mi aspettavo succedesse una cosa simile. Credo che il percepire tale libertà sia in realtà un fenomeno ciclico. Dopo aver, in un primo momento, attratto l’attenzione di alcuni facendo semplicemente quello che volevo e pubblicando un EP, ho iniziato a mettermi pressione pensando di dover creare suoni che riprendessero in maniera similare quel modello; un modello che, da amante della musica, non mi rappresentava ed incominciai così ad essere in qualche modo disincantato nel produrre. E’ stato solo quando ho smesso di provare a ricreare quei suoni e ho iniziato a fare semplicemente ciò che mi veniva in modo naturale che ho ritrovato il piacere e la felicità nel produrre musica.
Quale software utilizzi per produrre e cosa ci puoi dire sul processo di produzione vero e proprio?
Uso Logic, a volte insieme ad Ableton. Qualcuno che seguo su Twitter ha riportato una frase di Pierre Reverdy che dice ”Ho bisogno di così tanto tempo per non fare nulla, che non ho abbastanza tempo per lavorare”. Una cosa che mi tocca molto da vicino. Il far niente è importante per il mio essere creativo. Ho bisogno di stare distante dalle mie dee per poterci riflettere e migliorarle. Il mio processo di produzione consiste perlopiù nell’integrare il lavoro sulla musica con il fare niente, giorno e notte.
La tua musica non può essere propriamente classificata. In essa si combinano dinamicamente diverse sonorità, ritmiche, sensazioni. Quali artisti nel corso del tempo ti hanno maggiormente influenzato?
Mi faccio influenzare molto da artisti appartenenti a qualsiasi genere di nicchia in cui la mia musica ricade, più che altro perché sono quelli che ascolto maggiormente. Negli ultimi due anni hanno avuto una grande influenza su di me Karizma e Steve Reich. Alcuni ascoltatori credo che cerchino particolari influenze nei suoni stessi ma, per quanto mi riguarda, è più un essere segnato dalle idee dietro le mie varie influenze musicali piuttosto che dalla parte strumentale. Per quanto riguarda Steve Reich, la sua ripetitività, mentre da Karizma, quella fluidità dello spirito umano percepibile nelle sue tracce. La musica che ascolto finisce per dare un’idea del modo in cui uso i miei suoni per esprimere me stesso.
Quanto invece torna utile il tuo passato come batterista?
Penso di comprendere le percussioni meglio di ogni altro strumento e questo mi aiuta quando compongo ad attuare qualsiasi concetto musicale mi venga in mente oppure, quando tale concetto venga a mancare, mi fornisce un punto di partenza. E’ per questo motivo che alcune volte tendo a focalizzarmi maggiormente sulla melodia o sulle progressioni armoniche, perché di base penso di essere meno sciolto in questi ambiti.
Nel corso dell’ultima primavera hai accompagnato Shlohmo lungo tutto il tour negli US. Ci potresti raccontare come si è sviluppata questa amicizia/collaborazione e qualche momento di questa avventura che difficilmente dimenticherai?
Ho incontrato una prima volta Shlohmo nell’estate in cui mi trasferii a New York. Viveva qui già da un anno e fu, a dirla tutta, uno dei miei primi amici qui a New York. Ci vedevamo da lui, suonavamo a vicenda la nostra musica e guardavamo video stupidi. Fu durante quell’estate che egli cambiò totalmente il mio modo di intendere la creazione di musica. Avevo giusto iniziato a scrivere nuove demo ovunque mi trovassi durante i mesi precedenti, sperando di concludere con un album tra le mani; Shlohmo mi incoraggiò a fare marcia indietro, a tornare a quella consapevolezza di non avere una visione e fare semplicemente ciò che viene da sé, con naturalezza, un approccio simile a quello che avevo quando inizialmente provavo a produrre musica. Da quell’estate mi sono attenuto a questo orientamento, il che significa che Shlohmo ha avuto una grande importanza per il mio album. Seguirlo poi in tour è stata un’esperienza altrettanto speciale. Ammiro il suo essere creativo e gli voglio bene come amico per cui è stato un privilegio poter suonare insieme a lui ad ogni tappa del suo tour.
Prima dell’album in uscitati sei fatto notare per alcuni notevoli remix (quelli per ASAP Rocky e Deptford Goth decisamente speciali), da questo punto di vista possiamo aspettarci altre novità?
Non lo so, ma probabilmente no. Mi piace produrre remix ma, considerando che ho terminato l’album quest’ultimo inverno, sono stato molto impegnato nel costruire il suono che volevo a questo imprimere.[/tab]
[tab title=”English”]Sometimes simply putting out the most spontaneous and natural thing from your inner self is just enough to achieve great results. Jim-E Stack knows that, he has learned it going through the production of “Tell Me I Belong”, his first album shortly released on Innovative Leisure. A multifaceted album with musical references (to hip hop, house, dancehall, techno…) that you can enjoy whether just listening or dancing to it. An album hovering between billowing synths and hypnotic drums. An album reflecting the personality and the various states of mind of the young American producer, born and raised in San Francisco and now living in Brooklyn. Someone once said “talent is luck but the important thing in life is courage”. Jim-E Stack lacks neither the one nor the other.
I’d like to start with your latest news, the release of your album “Tell Me I Belong” released on July 28th on Innovative Leisure. Can you tell us more about the birth of your first (and honestly great) album?
The album grew out of about 20 or 30 demos I had written in my first six months of living in New York. I took a couple weeks away from them and then came back and finished probably half of those over the next six months. In both making beats and demos, and then expanding them into songs, I used samples and sounds I had collected over the last eight years. So I think the album ended up being spiritually reflective of the past year or two of my life and sonically reflective of the past eight years.
During the creation of “Tell Me I Belong”, you happened to live far away from the places you usually lived in (San Francisco and New Orleans).To what extent did it influence you?
I never felt much of a sense of belonging in New Orleans for the two years I lived there, and my last year in San Francisco was somewhat of a detached one, so being a newcomer in New York didn’t feel too differently. The scenery just changed again.
Why did you move to Brooklyn, especially in a period in which the West Coast is described as a really stimulating environment from a musical point of view?
Partially for a girl and because I didn’t want to have to own a car.
Reading some older interviews, you remember the past years as a time in which “I was doing whatever came into mind. That’s kind of the beauty of it: there was no vision whatsoever.” Surely, years after years, Jim-E Stack’s sound has been growing up and developing but how much of that “freedom” do you still have today? What has changed the most since then?
I feel freer than ever now. Writing my album taught me that I can be as free as I’d like to be because my sentiment and my way of creating will ultimately tie everything together. I didn’t know that would happen. I think feeling that freedom is cyclical though. After I caught some people’s ears at first just doing my thing and releasing an EP, I put pressure on myself to make sounds that fit a similar mold but that mold wasn’t conducive to me as a music lover and I became kind of disenchanted with making music. Once I stopped trying to recreate the sounds I first had put into the world and just did what came naturally I started enjoying making music a lot more again.
Which software do you use to produce and what can you tell us about your own creative process?
I use Logic. Sometimes together with Ableton. Someone I follow on Twitter quoted Pierre Reverdy saying “I need so much time for doing nothing that I have no time for work”, and that really resonates with me. Doing nothing is so important to my being creative. I need distance from my ideas in order to reflect on and improve upon them. My process is pretty much just fitting in working on music around doing nothing all day and night.
Your music can’t really be categorized. It’s a dynamic blend of differentsounds,rhythms andsensations.Which artists have had the biggest influence on you throughout the years?
I take a lot of influence from artists outside of whatever genre niche my music falls in just because that’s mostly what I listen to. In the last couple of years it’s been Karizma and Steve Reich. I think some listeners look for specific influences in the sound itself but I take more influence from the ideas behind my influences’ music, and less so the instrumentation. From Steve Reich it’s repetition and from Karizma it’s the free-flowing human spirit of his tracks. The music I listen to ends up informing the way I use my own sounds to express myself.
How much does your past as a drummer come handy today?
I think I understand drums the best out of any instrument and that helps me realize whatever musical vision I have while writing, or it gives me somewhere to start when I have no vision. For that reason I sometimes focus on melody or chord progressions just because I feel like I’m less fluent in that realm.
Last spring you were on tour in the US along with Shlohmo. Can you tell us how this friendship/collaboration developed? Do you have any unforgettable recollection of this adventure?
I first met Shlohmo in the summer I moved New York. He lived here for a year. Shlohmo was actually one of my first friends in New York. We hung out at his apartment and played each other some music and fail videos. In that summer he totally changed the way I thought about making music. I was just starting to write new demos throughout those months, hoping to end up with an album, and Shlohmo encouraged me to get back to the mindset of having no vision and doing what came naturally, like when I first started trying to making music. And I’ve stuck with that mindset since. So he has a special relevance to my album. Touring with Shlohmo was really special as well. I look up to him as a creative being and love him as a friend so it was a privilege to be playing with him every night of his tour.
Before your incoming album, you got noticed thanks to some remarkable remixes (like the ones for ASAP Rocky and Deptford Goth, definitely amazing). Can we expect some new remixes anytime soon?
I don’t know, probably not. I like doing remixes but since finishing my album this past winter I’ve been working at building on the sound I established with it.[/tab]
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