È sempre la stessa storia. Si fa tanto per cercare nuova musica, per rintracciare i nuovi nomi e non farsi scappare le novità che meglio caratterizzano i nostri tempi, ci si sforza di ascoltare quanta più roba possibile alla ricerca di un nuovo personaggio da amare e seguire. Se ne trovano eh, e quando arrivano è come vincere la Champions League. Poi però arrivano le colonne della vecchia guardia, ti ripresentano il conto delle loro raccolte, del loro sound storico, dell’impatto avuto nel tempo, e non c’è niente da fare. Ti sciogli. Ti ritrovi a doverci fare i conti a fondo, e te le ritrovi nel lettore per mesi. Sono il nostro punto debole. Quello che ti dà un piacere privato indescrivibile, ma anche un pizzico di senso di colpa per non provare sensazioni analoghe coi nomi recenti, perlomeno non così spesso. Quello che, per quanti bellissimi dischi di nuova fattura siano usciti quest’anno, ti fa piazzare i Plaid in cima tra le cose più belle del 2014 direttamente dopo il primo ascolto. E allora celebriamola, la vecchia guardia: le raccolte e i ritorni di chi ha fatto storia, più o meno recentemente, in modo più o meno plateale. #crumbs nostalgia.
[title subtitle=”Giochiamo alla roulette russa: Aphex Twin”][/title]
Ok, siamo nel bel mezzo del casino più grosso dell’ultima decina d’anni. È tornato colui che non doveva tornare, colui che non aveva mai detto che sarebbe tornato. Aphex Twin, probabilmente il personaggio più vestito di leggenda della storia dell’elettronica. Uno che le regole le ha fatte e disfatte, che ha scombinato le carte della produzione elettronica a ogni suo nuovo disco. E ora siamo nel pieno della tempesta, con la spettacolare mossa di marketing del “disco perduto ridato alle stampe” come preparazione mediatica del nuovo album, annunciato dopo un periodo di inattività tale che nessuno ci sperava più. E il solo fatto che il nuovo album di fatto ci sia è un colpo di scena, qualcosa che non rientra nel disegno Aphex: nel 2014 è praticamente impossibile essere rivoluzionari come ha voluto lui a ogni nuovo album, e il ritorno è una roulette russa, ha un rischio elevatissimo di ridurre la leggenda ai contorni di realtà, che potrebbe essere quella di un producer che è stato grande ma “adesso non è più quello di una volta“. Lo stesso motivo per cui Burial non farà mai alcun nuovo album, no? E dopo l’ultimo Caustic Window fa un certo effetto vedere un Aphex meno agguerrito del solito, con un sound che in fin dei conti suona equilibrato, studiato sull’estetica. Gentile, quasi. Suona esattamente come suonerebbe un produttore moderno che vorrebbe omaggiare Aphex Twin. “Syro” sarà il regalo ultimo della leggenda al suo pubblico? Forse. Ma è rischioso lo stesso.
http://youtu.be/aKOFGwCRIEY
[title subtitle=”Nightmares On Wax, un sospiro lungo 25 anni”][/title]
Ecco, il caro Nightmares On Wax è uno di quei personaggi che andrebbero goduti sopra ogni cosa nel formato raccolta di riepilogo dell’intera carriera. È uno di quei casi che posson dirsi eccezionali non per la potenza di un disco singolo (anche se “A Word Of Science”…), ma per la costanza e la qualità media tirata fuori nel corso dell’intera carriera. Sette album ufficiali, tutti su Warp, una traiettoria alternativa in una label solitamente affine a suoni differenti. E, diciamolo chiaramente, un sound che rappresenta da sempre l’apice assoluto e definitivo dell’acid jazz. Questione di concentrazione, perfezionamento e un senso dell’armonia e dell’equilibrio che non ha mai avuto rivali. È tutto riconoscibile senza difficoltà in “N.O.W. Is The Time“, la raccolta celebrativa dei suoi venticinque anni di carriera. C’è tutta la meraviglia dei bassi soffusi e morbidi, delle aperture sintetiche che garantiscono l’escapismo, di quel retrogusto malinconico che gli è valso il riconoscimento di pioniere del trip-hop. E pezzo dopo pezzo si risale indietro nel tempo, fino ai pezzi cult del suo periodo rave, col quale ha praticamente dato le direzioni alla Warp appena nata. Ce le trovate tutte, da “You Wish” a “Dextrous”, da “Les Nuits” a “Aftermath”. Due ore e passa di ascolto, ma dentro ti ci sciogli.
[title subtitle=”L’alba e il tramonto di un intero genere: Plasticman”][/title]
No, non quello con la k. Anche quello con la k è tornato, ma qui non ci occupiamo di ritorni sottotono. Qui invece ci prendiamo tutto lo spazio necessario per celebrare quello con la c, che poi è stato costretto a ribattezzarsi Plastician proprio dopo le azioni legali del canadese con la k. Poco male, visto che Plastician era già un personaggio riconosciuto e a parlare per lui è stato quel che ha combinato lungo i duemila, recentemente rispolverato con la “Plasticman Remastered” collection per il piacere degli amanti del dubstep originale. Sì cazzo, lui era uno dei primi attivi alle serate FWD>> del Plastic People, uno cresciuto nella cricca di Croydon, uno di quelli che il sound dubstep degli anni d’oro l’ha forgiato a colpi di produzioni hyperbass e set elettrizzanti. E scorrersi i ventuno pezzi del suo recente best of è un’operazione di ripasso che ti insegna diverse cose: per esempio che la discesa decisa del famigerato wobble non è stata una disfunzione della seconda onda, ma era già lì nelle produzioni dei primi anni, e spaccava come poi avrebbe spaccato nel 2007; che la cosa più eccitante dei primi anni era la non necessaria distinzione tra dubstep e grime e il fatto che i due avessero uno spirito comune e camminassero sulle stesse orme; che con l’attitudine club il dubstep c’è nato, le infiltrazioni techno dell’ultima fase erano solo un’accezione diversa; che per scatenare gli entusiasmi dei giovani non servivano gli eccessi USA ma un paio di sane sprangate fatte dai maestri londinesi, possibilmente vissute sul campo. È la storia del dubstep londinese, insomma, un “do not forget” grande come una casa, scritto da uno dei protagonisti più cattivi, da tenere sugli scaffali e riprendere di tanto in tanto. Stringetevi le viscere, qui sotto il mix di quaranta minuti coi pezzi della compila.