Questa storia potrebbe iniziare da duemila parti diverse, perché non è solo la mia storia, né è la tua, lettore, né la sua. E’ una storia che per almeno trenta anni ha accompagnato la rotazione del Pianeta Terra, e di qualcosa che per un indimenticabile decennio lo ha fatto girare con una vibrazione unica e che si è propagata in innumerevoli figli minori, ma nessuno all’altezza del genitore, un Crono geloso e narciso, irridente ed algido nel suo talento Mozartiano. Potrebbe iniziare dall’estate del 1983 dove mia cugina arriva in vacanza con la più classica delle cassettine, e mi fa sentire questo cantante che non capisco, che mi infastidisce, finché non lo vedo su Videomusic e penso whoa. Potrebbe iniziare dal concerto a Zurigo del 2002, dove sono in prima fila, davanti a lui, e quando vede che sto cercando di sgamargli i riff di chitarra ondeggia di lato facendomi beffardo no no con la testa, col cazzo che me li sgami. Dal Black Album, da Miles Davis che parla di lui, dal famigerato Vault che conterrebbe migliaia di potenziali hit inedite scritte in pochissimi anni e sepolte nei suoi archivi, dal concerto di Dortmund in diretta sulla Rai.
Ma la storia di Prince non è solo mia e tua, lettore. Come tutti gli artisti che hanno lasciato un’impronta macroscopica nella black music – Stevie Wonder negli anni settanta, lui negli ottanta, Timbaland nei novanta, Pharrell negli zeranta, per citarne pochissimi – artisti creatori di grammatiche più che semplici interpreti, Prince ha generato attorno a sé un tale seguito ed un tale fanatismo da sopravvivere anche alla più grande delle disgrazie per un musicista – l’inaridirsi dell’ispirazione.
Per un decennio circa, diciamo dal 1983 al 1991, senza fermarsi un istante ha scritto migliaia di canzoni, delle quali album come Sign O’the times, Lovesexy, Around the world in a day, Parade, non sono che la superficie, l’iceberg mainstream. Ma i fan hardcore, abituati a sondare gli abissi dei suoi inediti, sanno che pezzi come “Moviestar”, “Welcome To The Rat Race”, “A Place In Heaven”, o addirittura un triplo album abortito come Crystal Ball, con la sua suite – prolissa e tecnicamente mostruosa – da dieci minuti valgono quanto i grandi classici.
Prince ha abituato ogni musicista a rosicare: a rosicare perché il Vero Talento, quello che A Ogni Canzone Un Capolavoro, non appartiene a nessuno di noi che leggiamo; ce ne sono quattro, cinque per decennio al mondo, e cazzo, non sono io, né tu, e lo odi quanto lo ami. Ha abituato ogni musicista ad aprire il libretto degli appunti ad ogni uscita e a dire ecco, vedi, mentre io cercavo di capire cosa ha fatto il disco scorso, lui ha già riscritto le formule, tocca riiniziare, essere gregari: lui è una cellula staminale della musica, si trasforma continuamente. Ha abituato ogni musicista che si sia accostato a lui ad aprire il cervello, a poliritmi zappiani mascherati da canzonetta, accordi di undicesima e tredicesima travestiti da frivolezze orecchiabili, a strutture armoniche senza precedenti nel genere mimetizzate da quattro accordi tirati via.
Per questo, per i fan di Prince, l’uscita di ogni album nuovo rappresentava un’epifania: ok, non sono il Vero Talento, ma qualcosa capirò e la mia musica migliorerà anche lei. Per questo, quando ad un certo punto, demolito da una serie di cambiamenti sempre più drastici – il ridicolo cambio di nome imposto da un contratto capestro, la morte di un figlio neonato, il cambio di religione, la separazione dalla moglie, la chiusura di quella presenza internet di cui era stato assoluto antesignano – la sua creatività sembrava essersi inabissata dietro una serie di album insulsi e privi di mordente: immaginatevi un Usain Bolt, ancora vigoroso nel fisico e nel sorriso, camminare con un deambulatore sorridendovi convinto.
Una pletora di album insipidi – ma non per questo di scarso successo commerciale, vedi Planet Earth, dischetto privo di spunti ma distribuito in edicola in milioni di copie con il britannico The Mail On Sunday (per tacere della sua simpatica abitudine di far uscire con etichette fantasma le registrazioni dei live direttamente da banco mixer per i fan più accaniti) hanno spento gli entusiasmi verso quel Principe che si era imbolsito, salvo rari sussulti (Black Sweat, Musicology) verso un rocchettino chitarrino che avrebbe potuto passare inosservato nella colonna sonora di Settimo Cielo. Dov’erano i grandi palpiti funk, le intuizioni, le meraviglie colorate a cui ci aveva assuefatto?
Questa, lettore, non è necessariamente una storia a lieto fine, o meglio, non del tutto.
Nel suo peregrinare, a quattro anni dal fiacco 20Ten, il principe ritorna con due diversi progetti in uscita il 30 settembre: un album solista chiamato “Art Official Age” (con buona pace dei De La Soul, diremmo) e un album con un gruppo a prevalenza femminile, le 3RDEYEGIRL, in una operazione un po’ alla Tin Machine. Tre uscite trapelate sinora: due singoli dal primo, che rivedono un – benvenuto, quanto finalmente almeno contemporaneo – ritorno a suoni più funk e sintetici ed arrangiamenti sofisticati come lui sa(peva) fare. “Clouds” in duetto con la protegée Lianne La Havas che sembra un (felice) inedito da “Emancipation”, triplo album del 1996; la Timberlandiana “U Know”, efficace al primo ascolto, forse priva di quella zampata leonina tale da renderla una hit, e “Whitecaps”, dall’album con le 3deyegirl, più melanconicamente rock anche se vivaddio non scipita come i precedenti esercizi, né per questo priva di finezza.
Se dal vivo non ha mai tradito il suo pubblico, se venendo via elettrizzato dal live di Zurigo con il suo plettro, caduto sotto il palco, sapevo di avere vissuto uno dei momenti più alti del mio personale romanzo musicale, con un minimo di obiettività, da fan sfegatato che ha tutti i suoi dischi – TUTTI, inediti e bootleg compresi – in vinile dal 1983 al 1991, per quanto ne sarei felice, nutro più di un dubbio sul fatto che il nostro Usain Bolt possa ricominciare non solo a correre ma a dare il fumo a chi da lui ha imparato a camminare. Perché se la domanda è “il genio è eterno o sbiadisce anche quello” forse la sua personale vita, tra tanti anni, potrà darci una qualche risposta. Ma di nuovo, questa non sarà solo la sua storia, né la mia, né la tua, ma la storia un po’ di tutti noi insieme.