I Cani sono stati una delle inaspettate e sorprendenti storie di successe nel mondo della musica indipendente italiana: non parliamo di stadi e cifre enormi, assolutamente, ma in un contesto dove ogni cinque secondi c’è la “new sensation” che poi svanisce nel nulla o di fronte a concerti con trenta persone (meno di quelle che commentano i loro dischi sul web), il progetto di Niccolò Contessa si distingue per una consistenza vera, per un pubblico reale, tangibile, numeroso, appassionato (di quelli che cantano in coro i testi delle canzoni: sarà banale, ma è sempre una cartina di tornasole utile per distinguere i fenomeni reali da quelli gonfiati artificialmente). Quello che non tutti sanno è che Niccolò non arriva dal nulla, I Cani non sono la sua prima creatura musicale. Quello che molti sanno è che Niccolò è una persona molto intelligente, ma spesso se ne approfittano per dare vita ad interviste che sembrano una sfida tra intervistatore ed intervistato a chi ne sa di più e a chi fa la considerazione più acuta sul mondo, sulla vita, sul senso delle cose e dell’arte. Ecco, noi abbiamo voluto evitare questa trappola, almeno c’abbiamo provato. Quello che ne è venuto fuori ci sembra molto lineare, onesto, interessante. E in qualche caso anche abbastanza inedito.
Ok: quanto è strano che siamo qua non a parlare dei Cani, o non solo di loro? Perché infatti per questa nostra chiacchierata quello che più mi interessa è partire dai TAVRVS, da quell’esperienza lì.
Questa cosa mi fa molto piacere perché sai, quando il discorso è incentrato sui Cani alla fine ormai mi trovo a dire sempre le stesse cose. Ma al di là di questo, l’esperienza-TAVRVS per me è stata decisamente formativa. Ha cambiato il mio modo di approcciarsi alla musica, alla sua creazione.
Volendo fare un passo ancora più indietro, prima di TAVRVS c’era un progetto chiamato La Routine…
…e prima ancora c’erano i miei ascolti totalmente rock. Ho cambiato insomma più volte “mondi musicali”. Il primo cambio, anche banale se vuoi e non lo nascondo certo perché non mi metto a fare il “più alternativo” di quello che sono in realtà, è ad inizio anni 2000: ero ancora adolescente, e ad un certo punto ho scoperto questo mondo fatto di LCD Soundsystem, The Rapture, quei gruppi insomma che facevano da ponte tra rock e dance, tra rock ed elettronica.
In effetti in molti hanno valicato quel ponte per la prima volta proprio con quella ondata lì, in Italia. Mi vien da sorridere, a pensando a come in Inghilterra…
…lo facessero già dalla seconda metà degli anni ’80, gruppi come Happy Mondays, eccetera. Lo so, lo so.
Quando eri ancora pienamente “rock”, eri un nemico dell’elettronica?
Oddio, non credo di essere mai stato una persona così settaria… Magari forse da bambino, non so? Ho in mente questa scena: ero ancora alle elementari o forse alle medie, un mio amico aveva la cassettina di “Homework” dei Daft Punk, la sento e dico: “Ma questa è musica tutta uguale!”. Però ecco, questo è l’ultimo ricordo che ho di me come snob… (risata, NdI) Sai, se uno diventa un patito di musica indie americana anni ’80 e ’90 come lo ero diventato io, giocoforza un po’ è contiguo anche al punk, come matrice, come approccio; e se hai familiarità con l’etica e l’estetica punk, i discorsi “Ma questo non è musica” semplicemente non possono uscire dalla tua bocca. Anche quando ero immerso nel rock, se fossi andato col mio bagaglio di ascolti e di passioni da amici amanti del prog rock, beh… Per la loro la mia musica era appunto non-musica, roba suonata coi piedi, senza valore. Insomma, la parentela fra una drum machine e una chitarra suonata volutamente male è forte, molto forte. Ad ogni modo, ad un certo punto – primi anni 2000, come dicevamo – iniziano ad interessarmi sempre meno le chitarre e sempre più batterie elettroniche e sintetizzatori. Il primo progetto dopo questo cambio è stato La Routine…
Che progetto era?
Eravamo tre amici. Una cosa molto ingenua. Poi non so, magari ad un certo punto tutto quello che hai fatto anni prima ti sembra, col senno di poi, “ingenuo”, figuriamoci addirittura se sono i tuoi primi passi. C’era ancora MySpace in quegli anni, e all’epoca sembrava una cosa pazzesca: mi sembrava surreale che uno potesse diventare “amico” di un gruppo, che so, americano, uno di quelli che ascoltavi e ti sembrava irraggiungibile (…lo so, lo so, gli “amici” erano in realtà centinaia di migliaia ed erano “amicizie” che non contavano nulla). A Roma comunque era un periodo musicalmente molto interessante: molto fluido, poco irregimentato, poco “instradato”.
In quegli anni eri mai stato sfiorato dal fenomeno-Brancaleone, che era un po’ il faro per la club culture e l’elettronica romana in quegli anni?
Mi ricordo prima di tutto dei Matmos e dei Mouse On Mars, a Dissonanze, il mio primo approccio diretto con l’elettronica “pura” penso sia stato lì; i Mouse On Mars poi li ho risentiti proprio al Brancaleone. Ma andavo ancora a scuola: era insomma quasi impossibile uscire per andare a sentire certe cose in certi posti – gli orari dell’elettronica non sono mai stati molto compatibili col fatto che il giorno dopo devi andare in classe. Però sì, era una sfera musicale che mi interessava. Devo però dire che quella che all’epoca veniva chiamata IDM, l’elettronica più colta e ricercata, era sì molto interessante e stimolante però, ecco, dentro aveva in qualche modo poco divertimento. Scoprire gli LCD Soundsystem o riscoprire i Daft Punk, dopo quel giudizio frettoloso da bambino, è stato invece molto più coinvolgente. Ad ogni modo, prima di capire che potevo fare in prima persona musica (anche) elettronica di taglio dancefloor, senza per forza affidarmi solo alle chitarre distorte, c’è voluto un po’ di tempo…
Che è quello che hai fatto ufficialmente con TAVRVS, che è praticamente uno spin off de La Routine. Quando nasce ufficialmente il tutto?
Se non sbaglio 2008. Con La Routine ci divertivamo, sì, ma era un divertimento che stava scemando sempre di più. Soprattutto, e col senno di più questa cosa fa veramente ridere, la cosa che ci pesava di più era dover scrivere i testi in italiano! (ride, NdI) Fare i testi era una cosa che mi e ci divertiva sempre di meno; concentrarci sulla produzione e sulle sue tecniche sempre di più. Ma soprattutto: ad un certo punto sono venuti fuori i Justice.
Infatti, riascoltati oggi i TAVRVS sono davvero pesantemente “francesi”.
Assolutamente. Ma era una cosa proprio al 100% dichiarata, non facevamo nulla per nasconderlo, anzi, lo rivendicavamo. Avevamo molti limiti tecnici: nessuno di noi aveva un background serio di fonìa sulle cose elettroniche, ce lo siamo costruiti strada facendo, oggi infatti se riascolto alcune cose fatte per TAVRVS mi viene da mormorare sconsolato “Mamma mia, ma dove avevo la testa…”; però quel mondo fatto di Justice, Daft Punk ma anche DJ Falcon o Alan Braxe ci affascinava tantissimo. Soprattutto, ci sentivamo una decisa musicalità, una ricerca armonica e melodica, e non solo una ossessiva ricerca sul mero suono, sullo stile, sull’immaginario, come invece molto spesso è la musica da club. Non è un caso secondo me che proprio quella scena lì abbia dato un appeal pop all’elettronica, conquistando ad essa nuovi pubblici, appeal che in tempi successivi forse solo l’ondata dubstep nella versione skrillexiana è riuscito a ricreare, e comunque non a quei livelli. Insomma, questo erano i TAVRVS: non eravamo sui dancefloor solo per il suono, o lo stile. E non eravamo cresciuti nei club: molte cose non le avevamo capite – anche perché queste cose non sono semplici da capire, ci vuole tanto tempo.
Quando vi siete messi a fare musica da club avrete anche preso ad andare regolarmente nei club?
Sì, io e il mio socio, Vittorio, avevamo preso a farlo regolarmente. Io addirittura ballavo; Vittorio invece era il classico nerd che si piantava davanti alla console e non si perdeva una mossa di quello che faceva l’ospite principale della serata, per capire come lavorava. Serate come Deep Session, No Future… la musica di gente come MSTRKFT… c’ho lasciato un po’ il cuore, in quella scena lì.
Ma ce l’hai lasciato come lo si può lasciare a una località di vacanza. Casa tua, mi pare, è la sfera più direttamente ricollegabile al rock, per quanto indipendente e alternativo.
Non vorrei sbilanciarmi troppo, ma in futuro coi Cani mi piacerebbe riscoprire alcuni aspetti di queste sonorità e di questo approccio più legato al clubbing.
La cosa strana, sempre riascoltando i TAVRVS, è che si tratta di musica solare, aperta, direi anche felice; quello che invece fai come Cani è molto meno allegro, è molto più cupo e nervoso dal punto di vista musicale.
Se uno fa canzoni, canzoni che devono esprimere dei messaggi, è come se… No, anzi, invertiamo il discorso: se uno fa musica da club, la gente deve ballare. Punto. Ed è una cosa bella, attenzione, mi piace questa cosa che esista una musica che ha uno scopo preciso, un effetto ben individuabile. Però coi Cani ho potuto “liberare” degli aspetti che coi TAVRVS invece erano tenuti da parte: anche nei Cani ci sono elementi di musica ballabile, ma può esserci anche molto altro – il tutto senza dover sottostare a regole che nella dance invece sono ineludibili, come la cassa che spinge, il basso che tira, il beat bello chiaro. Devo però dire che dopo due dischi dei Cani dove forse è preponderante l’alfabeto più sfaccettato del rock, sto iniziando a sentire la manca di certe regole da elettronica da club.
Ci siamo visti più volte nei giorni di Spring Attitude. Che impressione ti ha fatto? In generale, che impressione ti fanno i contesti più dedicati alla musica elettronica e alla club culture?
Devo dire che nell’ultimo paio d’anni li frequento un po’ meno. Forse sto aspettando che arrivi un nuovo ciclo, dal punto di vista stilistico, che sia più vicino ai miei gusti personali. Ad esempio, prendi Todd Terje: lui è l’esempio perfetto di dove tira il mio gusto, il suo album mi è piaciuto tantissimo. Quindi ecco, i gusti sono importanti, tuttavia cerco anche di essere aperto: all’inizio la dubstep non mi piaceva, ma insistendo col tempo ho imparato ad apprezzarne alcune cose. L’impressione generale, comunque, è che nell’ultimo paio d’anni c’erano più nomi in grado di tirare fuori tracce che avessero, come dire?, un po’ di sensibilità pop in più, qualcosa che potesse entrare in comunicazione anche con chi non è appassionato intensivo dell’elettronica. In tal senso vedo delle belle potenzialità forse in un Gold Panda, ma non mi vengono in mente moltissimi altri nomi. Questo ha anche effetto sul tipo di persone che viene agli eventi legati al clubbing e alla musica elettronica: mi sembra una sfera un po’ circoscritta, ben definita, meno trasversale di un tempo.
Diventa un mondo autosufficiente, che basta a se stesso?
Esatto. E questa è una cosa che non mi ha mai appassionato. Diventa una sfera musicale dove tutti sono in qualche modo “addetti ai lavori” o si sentono tali. Ma sono cose che vanno a cicli, inutile stare qua a fare grandi discorsi: tanto primo o poi arriverò un singolone ad invertire di nuovo il corso delle cose…
Comunque tu, personalmente, potresti anche divertirti a viaggiare su identità artistiche parallele: uno coi Cani, l’altra con un altra identità per un progetto magari più di taglio dancefloor.
C’ho pensato più volte, lo ammetto. Magari prima o poi succede.
Ora, con due dischi alle spalle e svariati tour, che bilancio si può fare dell’esperienza dei Cani?
Quando sei talmente dentro una cosa, come lo posso essere io rispetto al progetto Cani, è difficile essere obiettivi. Sono tuttora molto sorpreso del successo che abbiamo riscontrato: non capisco perché siamo piaciuti così tanto, perché abbiamo funzionato così bene. Prendo questa cosa dal lato positivo, riflettendo su come abbia evidentemente pagato il fatto di fare sempre e solo le cose che mi piacevano, sia all’inizio sia dopo, quando si è trattato di riconfermarsi. Questo mi rende fiducioso per il futuro: evidentemente quello che piace a me, quello che mi sembra bello, può sembrare tale anche ad altri.
Quello che piace a te ti ha portato anche ad essere invitato in contesti tipo la festa-evento di Wired, che si qualificava come raduno di, mmmh, molte delle migliori menti della nazione…
Il festival è stato bello, ben organizzato. Io in qualche modo mi sento sempre un po’ a disagio: per il solo fatto di aver inciso due dischi, mi si chiede di parlare dei giovani, del futuro di una generazione, dei grandi problemi della contemporaneità – tutte cose veramente enormi da affrontare, ancora di più se le devi comprimere nei tempi risicati di una intervista o di una conferenza. Sia chiaro, mi piace che a qualcuno interessi la mia opinione, ma mi mette anche in crisi: senti la responsabilità di dire delle cose particolarmente intelligenti, o almeno sensate.
E magari pure originali ed accattivanti.
Già, perché se dici delle banalità ti sembra di aver sprecato un’occasione.
Ma tu, fare a tempo perso il dj?
No no no no!
Sei uno dei pochi, ormai.
Ogni tanto bisogna avere il coraggio di dire di no. Ottenere degli ingaggi come dj puntando sulla presunta forza del proprio nome, per una relativa fama guadagnata facendo altro? No. Non mi sento di avere un linguaggio musicale così originale, dei gusti così originali, una esperienza di come funzionano le cose su un dancefloor così profonda da dire “Ok, ora lo faccio, perché lo posso fare”. Che il dj lo faccia chi ha deciso di investire nel deejaying tempo ed attenzione. C’è chi riesce ad essere sia compositore che dj facendo bene entrambe le cose; io, no.