Il successo di un festival, qualche volta, lo si può capire dagli errori che fa. Pare un paradosso, vero?, ma con questo terzo appuntamento targato Turn Off Festival, a Pisa, è andata proprio così. Perché quando raduni quasi duemila persone (a sentire gli oganizzatori, e anche ad occhio, alla fine le cifre sono state queste) e queste duemila persone sono paganti, e quando l’obolo da pagare non è uno o due euro ma una cifra dieci volte superiore, non importa che i venti euro in questione per entrare siano un obolo più che onesto, vista la line up: conta che di solito devi mettere all’ingresso transenne su transenne, sicurezza su sicurezza, oh sì. Duemila persone son tante e non sono mai facili da gestire, i venti euro per qualcuno son tanti e non ci pensa proprio a volerli dare.
Ecco perché siamo rimasti molto perplessi quando abbiamo visto che l’ingresso nell’area della Spa Navicelli, complesso di hangar nella zona della Darsena di Pisa, aveva come cassa e come invalicabile barriera un paio di tavolacci da sagra, quelli con le gambe pieghevoli, e altrettante panchine. Più forse una transenna, toh ma laterale, messa lì ad onor di firma, più per indicare dove si entra che per contenere gente troppo furba o troppo “vivace”. Potenzialmente, una follia: non pagare, entrare di botto, sfondare sarebbe stato più semplice che accendersi una sigaretta. Aiuto.
Invece, una dei grandi meriti del Turn Off è aver dimostrato che se fai una line up qualitativa, anche il pubblico diventa molto più di qualità. Più sensato, più educato, più rispettoso. Un pubblico che, incredibile ma vero, si comporta civilmente senza che ci siano barriere, transenne, polizia e buttafuori che lo obblighino a farlo. Non è tanto questione di avere tipi di persone completamente diverse: è il contesto, spesso, che fa. Se in una serata con (nome-di-dj-da-grande-folla-a-piacere) hai attorno la Cambogia, magari pure a te viene naturale di adeguarti un po’ all’andazzo generale. Il contesto del Turn Off è stato consistente dal punto di vista numerico, c’è anche chi ha bevuto un bicchiere di troppo, certo, ma tra spazi ad ampio respiro, security sensata, organizzatori cortesi ed educati il senso è sempre stato quello del grande relax. Una sensazione di benessere. Molto aiutata dal fatto che sui palchi non girava sempre lo stesso loop per ore, ma si è avuta una buona varietà e gente che sapeva il fatto suo, anche se magari ai “soliti” PR sarebbero sembrati dei buchi nell’acqua.
Musicalmente, solo una cosa ci ha veramente deluso: i Mount Kimbie, ma non per colpa loro. Fortuna o sfortuna vuole che li avevamo sentiti tre giorni prima all’Unknown, in Croazia, lì l’impianto era una meraviglia e non c’erano pareti di hangar a riflettere male il suono. Risultato? Una goduria immensa. Al Turn Off invece la cosa che ricordiamo di più della loro esibizione sono i rivoli di sudore da panico del loro fonico durante il concerto, le facce incerte dei musicisti sul palco, l’entusiasmo a metà del pubblico (in tantissimi erano lì per loro, in tantissimi erano pronti ad esplodere di gioia: ma quando i brani più che sentirli li intuisci, tra un rimbombo e l’altro…). Gli impianti scelti per i due palchi del festival avevano potenza ma non definizione. Andavano bene per i dj set, che infatti si sono sentiti bene. Ma per i live, erano insufficienti. E con i Mount Kimbie si è visto.
Per il resto, però, quasi solo cose buone. Buonissimi gli Apes On Tapes nella loro nuova versione live un po’ più muscolare e meno “prefusiana”, bene il nuovo progetto congiunto Clockwork / Avatism che parte un po’ mah ma poi trova via via la quadra giusta pestando duro ma non troppo, superbenissimo Lucy che ha tirato fuori un set techno originale, di classe, ricercato, intelligente, coinvolgente. Tom Trago non ha deluso, anche se non ha stupito o tirato fuori fuochi d’artificio, e del palco più danzereccio fra i vari nomi italiani che si sono succeduti menzione d’onore per Give Us The Tools, piglio garibaldino e divertente.
Spostandoci invece sul palco più “spezzato”, almeno sulla carta, Romare ha sorpreso virando ben presto deciso verso la techno o giù di lì (non è stato male, ma ci si aspettava altro, e ci si aspettava meglio), Backwords aka Michelino Pardo dei Casino Royale ha sciorinato bass music ordinata e precisa, Bangalore pure, Clap! Clap! ha creato il solito gran fomento anche se dobbiamo dire che a Dancity lo avevamo sentito meno percussivo e più creativo – ma stiamo sempre parlando di altissimi livelli. Unica stonatura un po’ TSVI con Butti: esibizione imprecisa la loro, e se vieni messo prima dei Mount Kimbie in scaletta non è il caso di randellare techno come non ci fosse un domani.
Al di là di tutto, e al di là dei singoli set, resta il merito notevolissimo di aver costruito un festival che rappresenta perfettamente il “new deal” che più ci sembra interessante: line up che non sono solo sperimentali o non sono solo da cassetta, quanto piuttosto una intelligente e ragionata combinazione delle due cose. Line up che richiedono anche attenzione dal pubblico, ma al tempo stesso non lo obbligano a stare tre ore davanti al palco fingendo di divertirsi e di apprezzare con aria pensosa e compiaciuta, perché se non apprezzi allora sei un discotecaro subumano, quando invece si sta sonoramente rompendo i coglioni. Tra l’altro Pisa non è propriamente Londra o Berlino e, per quanto ci sia una tradizione di musica ed eventi di qualità di lunga data (vedi alla voce Metarock), fare lì un evento musicalmente sofisticato in campo elettronico è due volte più difficile che farlo in una metropoli dove l’elettronica di qualità passa un giorno sì e l’altro pure.
Rileggetevi, i nomi del Turn Off Festival: belli, notevoli, ma che riescano a radunare quasi duemila paganti è un impresa che va ad onore di chi ha organizzato la faccenda. Segno che non solo ha gusto nello scegliere gli act, e di questo ormai sono capaci in molti, ma ha saputo pure sincronizzarsi con la città e le zone limitrofe, attirando non solo gli esperti ma anche i semplici curiosi (che hanno scoperto, felicemente, che la “musica da esperti” può anche essere molto divertente e coinvolgente). Per le prossime edizioni speriamo allora in una cura del suono migliore per quanto riguarda i live, qualche allestimento in più, qualche attenzione logistico-organizzativa in più (due palchi, una miriade di artisti: troppo poco disseminare per un’area vastissima tre/quattro fogli A4 attaccati al muro con lo scotch per comunicare i running order, troppo poco!); speriamo poi che ad affluenza uguale o ancora superiore le barriere all’ingresso possano restare quelle di adesso, praticamente nulle, e i sorrisi delle persone in cassa intatti. Sarebbe un bellissimo segnale. Ma forse chiediamo troppo – non al Turn Off, ma alla scena di casa nostra. O no?