Seth Troxler è un vulcano: se anche solo una volta avete avuto a che fare direttamente con lui, questo lo sapete. Un vulcano di entusiasmo, un vulcano di trovate (anche a costo di sfiorare il ridicolo e l’oltraggioso: lui lo sa, e ci gioca sopra), un vulcano anche di riferimenti, idee e spunti se lo prendi nel modo giusto. Per una serie di coincidenze, negli ultimi anni ogni volta che ci siamo incrociati il frutto sono stati incontri con chiacchiere non banali: il setting poteva anche essere un after, con tutti gli annessi e connessi, ma chi vi scrive e Seth finivano col parlare più facilmente della politica dei Repubblicani in America o degli Arcade Fire e degli Stranglers, con relativi paragoni fra l’attuale scena indie rock americana e la new wave britannica dei primi anni ’80… cose così. Ecco che quindi il tempo “ufficiale” per l’intervista che abbiamo ottenuto nei giorni dell’Amsterdam Dance Event era poco (organizzazione perfetta, tempistiche ferree: non più di 15 minuti ad intervista), ma fin dall’inizio – fin dal grido di Seth “Ehi ma cazzo io ti conosco, figata che l’intervistatore sei tu!” appena ci ha visti – si è capito che non sarebbe stata una intervista del tutto piatta e banale, di quelle molto business oriented. In più, tanto per vincere facile, ci è venuto in mente come prima questione di far parlare Seth su come vede il rapporto fra musica e sense of humour, tirando fuori come riferimento il titolo di un album live (e anche di una VHS) di Frank Zappa, “Does Humour Belong In Music?”. Frank Zappa, ovvero un altro che si divertiva a posare nudo o giù di lì e a far cose cazzone, tanto per sfottere i benpensanti della musica, ma che in realtà era un artista di qualità e di importanza enorme.
Senti, un attimo prima di sedermi a parlare con te ripensavo contemporaneamente a certe tue foto che hanno fatto “scandalo”, uno “scandalo” soprattutto per chi ha poco sense of humour e si prende molto sul serio, e le foto cazzone che si faceva uno che come musicista era serissimo, Franz Zappa, ma che adorava provocare facendo cialtronate. Tra l’altro il titolo di un suo disco (e video in VHS) registrazione di un live a metà anni ’80 era proprio “Does Humour Belong In Music?” (“L’humour appartiene alla musica?”, NdR): bene, giro questa domanda anche a te.
Ah, che bella questa cosa che mi citi Frank Zappa… Lo amo. E’ un genio. Ad ogni modo, mi chiedi se l’humour appartiene alla club culture: bene, la mia risposta è sì. La mia risposta è che l’humour alla musica può appartenere, nel caso della club culture questa appartenenza dovrebbe e deve essere proprio obbligatoria. Cos’è la club culture? E’ divertirsi, è anche esplorare se stessi, lasciarsi andare… Io non riesco proprio a darmi pace per quanto la club culture si sia data tutte queste patenti di serietà. E questo succede perché è diventata una moda: non è più quello che ora un tempo, qualcosa di “sotterraneo”, qualcosa che ti fa perdere inibizioni, ti fa scoprire la notte, ti rende prima di tutto felice. E’ diventata anche altro. Molto altro. Troppo altro. Sì. Mi hai fatto una buona domanda. Bisogna davvero riflettere su questa cosa, su quanto la club culture ha iniziato a prendersi maledettamente sul serio.
E’ più colpa degli artisti se questa sta succedendo o del pubblico?
Divertente questo dubbio, vero? A me piacerebbe che gli artisti si mescolassero più coi clubber, che stessero cioè in mezzo alla pista molto più spesso, invece che stare riparati nei loro recinti dove ci sono solo colleghi, amici e finti amici… Apparentemente si divertono gli artisti, eccome: guarda in consolle, guarda lì nelle zone vip dove stanno fra di loro – tutti allegri, tutti sorridenti, no? Ma questa è una facciata. Dietro la facciata, cazzo, ‘sta gente è seria. Serissima. ‘Non è un gioco‘, sembra ti dicano, ‘noi qua siamo gente importante che sta facendo una cosa seria‘. Dietro i sorrisi di circostanza, l’atteggiamento è questo. ‘Mi prendo sul serio, baby, perché sono importante. Sono un artista. Faccio musica‘. Ma che merda è? E cos’è quella cosa che ti vesti tutto di nero: che sei, un vampiro?! Non eri un musicista? Un dj?
Tra l’altro, se ho iniziato questa chiacchierata citandoti Zappa è perché ogni volta che noi due ci incontriamo finiamo col parlare di musica che col dancefloor c’entra apparentemente poco…
Verissimo!
Non hai l’impressione che nel grosso di ciò che è “club culture” ci sia una tendenza all’omologazione? In campo techno e house in fondo si suonano solo dischi techno e house, e solo alcuni di quelli, ben definiti. Sono molto pochi quelli che si prendono il coraggio di variare e, quindi, di rischiare.
Non solo i dj techno e house suonano solo brani techno e house, ma suonano proprio quelli che la gente si aspetta da loro, niente di più. Guardassero me: uno dei motivi del mio successo è che non ho confini, soprattutto rispetto a loro. Un mio conoscente una volta mi ha detto ‘Oh Seth, sei così irregolare, sei così “out of the box”…‘. Io?! Sarei irregolare io? No perché sai qual è la cosa bella, il tizio che mi stava dicendo questa cosa io lo conosco bene, sembra Leonardo DiCaprio in “The Wolf Of Wall Street”, è un folle, si fa otto donne alla volta… e sarei io quello irregolare, quello “out of the box”?! ‘Il tuo soprannome giusto per te, “Seth Noboxler”, ti piace come soprannome?‘: no, mi fa cagare! Detto questo, è vero che io cerco di essere non del tutto prevedibile come dj. Ed è vero che un dj dovrebbe suonare tutta la musica, tutta!, senza restare confinato in binari predeterminati. Sai quale dovrebbe essere un compito di un dj? Suonare solo e solamente delle hit, ogni traccia deve essere una hit, anzi, “la” hit. Ma sai cos’è una hit? E’ la traccia che va bene in quel momento e solo in quel particolare momento. Al momento giusto, su un dancefloor anche una traccia ambient, senza ritmica, può essere “la” hit, capisci? Fare il dj è come fare birdwatching: devi essere molto paziente e sempre attento, devi essere avere lo sguardo sempre vigile e focalizzato – perché quello che cerchi, quello di cui hai bisogno, ti compare davanti all’improvviso.
Invece: come va coi media? Oh, il giorno prima di questa intervista l’ufficio stampa ci ha mandato un decalogo su come intervistarti, anzi, su come non intervistarti: niente domande su Visionquest, su Berlino, insomma sulle solite cose… Da un lato questa cosa è irrituale, dall’altra la capisco anche. Insomma, ti sei spazientito? La qualità media dell’informazione che circonda la club culture ti sta irritando, e vuoi darlo esplicitamente a vedere?
Io non ce l’ho coi media. Io sono molto amico dei media. Io però sono molto nemico di chi fa interviste e nel farle spende zero tempo per prepararsi. ‘Da dove arrivi?‘: da dove arrivo? Ma mi stai pigliando per il culo? Sai, un conto siamo noi due, che ci conosciamo, so che con te anche da domande banali possono nascere conversazioni interessanti (e comunque di domande banali non me ne fai); però non posso conoscere tutti quelli che mi intervistano. E allora è giusto mettere dei filtri alla fonte, o almeno avvertirli che non me non possono arrivare impreparati. Facile beccarli, quelli impreparati: lo puoi capire fin dalla prima domanda che ti fanno quanto sono impreparati…
Magari non sono impreparati, magari le cose le sanno, ma finiscono col farti parlare sempre degli stessi argomenti.
Se sei un buon intervistatore, con me puoi usare tutti gli argomenti che vuoi. Io amo essere intervistato. Ma le domande più belle, spesso, sono proprio quelle in cui non si finisce col parlare di me e di quello che faccio: se mi fai delle domande un po’ più profonde, magari un po’ più filosofiche, ecco, mi hai conquistato. Un’intervista per me è un piacere, è una conversazione, non un modo per promuovere me, la mia musica, la mia fama.
Tra l’altro guarda, mi sa che potresti fare pure il giornalista… la roba che hai scritto per Noisey sull’EDM un po’ di tempo fa è stato un editoriale coi controfiocchi.
Non sarebbe male se avessi un rubrica fissa, vero? Ma magari potrei fare anche il politico. Come mi vedi come politico?
A proposito di politica, di cultura e di società: come vedi le differenze tra Europa e Stati Uniti? Intendo: come le vedi adesso, ora che sono passati un bel po’ di anni dal tuo trasferimento a Berlino arrivando da Detroit? Inutile specificartelo, ma non ti sto facendo la solita domanda su quanto è figa Berlino eccetera eccetera…
Continua ad esserci una differenza fondamentale: in Europa, l’underground è cultura di massa. In America, no. Guardati attorno, ora siamo ad Amsterdam, no? Ecco, ci sono più party nel fine settimana di questa città che nel fine settimana di tutte le città americane messe assieme. Mi sembra che questo dica tutto.
Curiosa questa cosa: l’altro giorno sempre qua ad Amsterdam intervistavo Ali Dubfire e pure lui ha usato il termine “underground”. A lui, come a te, devo chiedere: cosa significa realmente “underground”?
Curioso in effetti che abbia usato questo termine, visto che in altre occasioni e in altre interviste mi sono ritrovato a dire che l’underground” in realtà non esiste. La domanda è: siamo dei ribelli? Siamo degli squatter? No, non lo siamo. Se essere “underground” significa vivere ai margini della società capitalista, noi non lo siamo. Però è anche vero che la nostra musica, la musica che noialtri facciamo, è ancora di nicchia. Non siamo gente che vende dischi in quantità, che va regolarmente in radio. Le nostre release vendono 500/600 copie.
Però voialtri radunate persone a migliaia, ormai. Party in cui la gente viene lì per voi, per il vostro nome, per la vostra fama.
Arrivano in migliaia, ma evidentemente la musica non la comprano. Chissà, magari amano ascoltarla – anche se questo non lo darei proprio per scontato… Però ecco, io continuo a pensare che noi e quelli come noi da un lato sono “underground”: se guardi cos’è e come funziona la cultura dominante, non puoi che concludere che quelli come noi – che la club culture la vivono per davvero – sono ancora troppo edonisti, bizzarri ed irregolari se confrontati col 99% dell’umanità. Una persona normale con un lavoro ragionevole che ci guardasse, che guardasse un nostro party, si chiederebbe comunque ‘Che è ‘sta roba? Che sta succedendo? Cosa stanno facendo?‘. Però è altrettanto vero che nulla di quello che facciamo nella club culture, noi come scena, come organizzazione, come produzione musicale, è “underground”, nel senso controculturale del termine. Praticamente nulla. Però restiamo nicchia: perché quello che facciamo non è commercializzato su larga scala. Non siamo “underground”, siamo “nicheground” (“nicchiaground”, NdR): ti piace come termine?
Molto.
Può funzionare?
Direi proprio di sì.
Oh, io cerco sempre di coniare nuovi termini! Speriamo bene! Tipo quando ho provato a rendere di moda la definizione “underground pop” per tutta quella gente che fa musica da dancefloor ma ci mette i vocal dentro, penso a Soul Clap, Solomun, Tale Of Us, Innervisions… Accidenti, “underground pop” era un’ottima definizione, è un peccato non abbia preso piede!
Forse non ha preso piede perché ecco, diciamo che “pop” dà un’accezione un po’ negativa al tutto…
“Pop” è termine cattivo? Dici? Ma lo è veramente? “Pop” significa “popolare”: non è un male in sé. Il problema è quando il “pop” viene mercificato, viene reso volutamente commercializzato, banalizzato… C’è grossa differenza tra rendere più accessibile una cosa e renderla invece maledettamente banale. Fare pop è un’arte. E’ molto difficile fare una bella canzone pop. Mentre invece fare cose banali è molto facile.
Ma tu oggi vuoi diventare più popolare, più accessibile?
Non ho il minimo problema col poter diventare più popolare ed accessibile! Fino a quando sei ben ancorato ai precetti di onestà e purezza creativa, va bene tutto. Guarda Fela Kuti: un matto, uno maledettamente undeground, uno che non fa compromessi manco per sbaglio – eppure è incredibilmente popolare! O Miles Davis. Miles Davis, cazzo. Non puoi dirgli nulla, no? La sua credibilità è totale. Perché non si è mai svenduto a niente e a nessuno. Eppure, è popolarissimo.