Nella storia della musica afroamericana la figura del messia nero era stata già immortalata dal famosissimo sassofonista Cannonball Adderley nel titolo di un suo album dal vivo, registrato nel 1970 e pubblicato poi dalla Capitol circa due anni dopo.
Creare un parallelismo tra la situazione politica e socio-culturale dell’America nera d’inizio ’70 e quella del decennio che stiamo vivendo dovrebbe essere quasi impossibile: nel 1972 l’idea di un Presidente di colore non era affatto contemplata, mentre sappiamo tutti come è andata a finire.
È cambiato tutto, quindi, anche se in realtà non è cambiato niente.
E proprio mentre Obama si ritrova nel bel mezzo del suo secondo mandato presidenziale, ecco riaffiorare le contraddizioni di sempre: la tensione sociale è alla stelle e l’espressione “scontro di civiltà” è diventata popolare anche nei talk show per massaie del pomeriggio. I fatti di Ferguson, e la reazione che hanno generato – apice di un malcontento pulsante e che sa di resistenza – ci hanno restituito degli Stati Uniti molto più in difficoltà e arretrati di quanto potessimo mai credere.
E cosa c’entra tutto questo con il nuovo disco di D’Angelo, vi starete chiedendo?
C’entra. E neanche poco.
“Black Messiah” è arrivato come un fulmine a ciel sereno a spezzare un rumorosissimo silenzio durato quasi tre lustri e solo parzialmente interrotto da pubblicazioni antologiche e sporadiche apparizioni dal vivo. Quindici anni in cui si è detto e scritto di tutto. D’Angelo è passato dall’essere considerato una pietra angolare del nuovo soul contemporaneo a essere citato quasi sempre e solo come esempio classico del talento sprecato. Uno che ha preso una carriera e l’ha gettata nel rusco per rincorrere chissà quali e quanti fantasmi. Sono rimasti in pochi a crederci davvero: uno di questi è stato senza dubbio ?uestlove, il batterista dei Roots, che è sempre restato al fianco di Michael Eugene Archer anche negli anni bui degli arresti e dei dischi che non vedevano la luce, continuando a dichiarare alla stampa che un ritorno in pista, prima o poi, ci sarebbe stato e avrebbe anche azzittito i più scettici. Esattamente quello che è accaduto con “Black Messiah”, atteso e programmato per la metà del 2015 ma pubblicato a sorpresa nei giorni immediatamente antecedenti al Natale appena trascorso, proprio come reazione di pancia ai fatti di cui parlavamo poco sopra.
È interessante osservare come nella musica e nella cultura afroamericana ci sia sempre stato bisogno di personaggi capaci di caricarsi sulle spalle un intero popolo. È successo con Gil Scott-Heron e Sly & The Family Stone, con i Public Enemy e ora anche con D’Angelo.
Perché there is a riot goin’ di nuovo on e per tutto questo sentire comune c’è bisogno di un megafono e “Black Messiah” è il megafono. Un disco politico in tutto e per tutto: dai pugni chiusi in copertina, alle liriche, passando per le scelte più essenzialmente musicali e che pescano a piene mani nelle tradizioni e nelle radici della black music per dare vita a un suono che più che nuovo vuole risultare classico. Nel senso più alto e “storico” del termine.
Nessuna rivoluzione, quindi, ma una rinnovata consapevolezza che esalta le capacità compositive e vocali di D’Angelo e ci restituisce un artista ritrovato e creativo come nei momenti più luminosi del suo ormai non più recente passato. Perché D’Angelo, e non abbiamo paura di risultare blasfemi, sta al soul di nuova generazione più o meno come Hendrix stava al rock psichedelico di fine ’60 e Prince al pop degli anni ’80 (non stiamo parlando di peso specifico nella storia della musica, ovviamente, ma di unicità e attitudine): riesce a rappresentare lo spirito del tempo pur essendo diverso e distante da tutti i suoi epigoni. Ha una marcia in più che lo rende perfettamente contemporaneo pur suonando una musica lontana anni luce, per storia e spessore, da quella che siamo abituati vedere dominare airplay e classifiche. E questo forse è sia il pregio che il difetto più grande – potremmo anche dire l’unico – di “Black Messiah”: perché queste canzoni hanno stile da vendere, puntano in alto e forse anche troppo in alto per riuscire a fare breccia e penetrare nel cuore e nella testa delle masse. Perché in un mondo dominato dal business è più facile che nascano rivolte con in sottofondo rapper che sembrano usciti da cartoni animati e che cantano fieri nei loro completi “Versace-Versace-Versace-Versace-Versace-Versace”, mentre diventa difficile immaginare il destino di un album come questo.
La gente a cui vuole parlare D’Angelo probabilmente non è più interessata ad ascoltarlo, ma a noi questo non importa. Noi abbiamo tra le mani un altro grande disco e anche questo non era affatto scontato. Bentornato.