La scelta di pubblicare musica su cassetta può essere collegata alla tendenza vagamente retro di un ideale ritorno all’analogico contrapposto all’avanzamento del digitale. Argomento che oggi non regge più, perché ormai le discussioni attorno alla tecnologia – vitale quanto l’aria che respiriamo – e al suo uso fanno parte del passato. Il fatto è che esiste un mondo creativo che ricerca cose nuove, coinvolge musicisti che lavorano per lo più nell’ombra e concede loro la massima libertà di espressione. Sono realtà che vanno cercate, in cui ci si imbatte per caso o con il passaparola, centri che portano avanti una ricerca artistica decisamente disinteressata. Ragioniamo, il calcolo di tempi e costi, assieme ad una distribuzione che avviene quasi interamente online, la tiratura limitata delle uscite, non permettono margini di guadagno enormi. Ma non è di business che vogliamo parlare, quanto invece di scelte prese in assoluta libertà e portate avanti con determinazione. Scelte cariche di significato, che possono essere il frutto della ricerca di una vita. È il caso di Yerevan Tapes, etichetta indipendente italiana, i cui fondatori, Silvia ed Andrea, ci hanno concesso di entrare nella loro creatura, un’esperienza che ci ha portato molto lontani. Yerevan, come una delle più antiche civiltà che abitano il pianeta, una specie di sacrario dove sono custodite le origini di tutti noi. Un viaggio che parte da lontano, quindi, siate i benvenuti.
Ci spiegate qual è l’idea che sta alla base del vostro progetto e quali esperienze, musicali e non, hanno contribuito alla nascita di Yerevan Tapes?
Immagino sia stato una sorta di percorso meccanico quello che ci ha portati a Yerevan Tapes, non so nella forma, ma sicuramente nella sostanza. Si parla ormai di più di tre anni fa, nei primi tempi del 2011, anche se l’inizio è stato per varie ragioni un po’ dilatato. Come immagino sia successo ad altre etichette tipo la nostra la spinta iniziale è stata quella di partecipare attivamente a un contesto musicale di cui eravamo e siamo prima di tutto fruitori, fare la nostra piccola parte nel mappare questa particolare cartina della scena italiana – perché di una bella rete si tratta, bene intrecciata lungo i nodi della penisola – e cercare di promuovere, supportare e diffondere tutti quei progetti che noi per primi, da ascoltatori, vorremmo fossero promossi, supportati e diffusi. L’approccio di fondo è da appassionati, non di certo da professionisti. Sia io che Andrea abbiamo alle spalle una formazione umanistica, e di conseguenza un approccio più trasversale e meno ortodosso all’universo musicale. Questo comunque non toglie che è per entrambi un interesse ampiamente approfondito negli anni, tra ascolti, letture, conoscenze. Diciamo che il percorso di Yerevan Tapes ha intercettato i nostri personali, sia seguendo il filo dell’esperienza musicale, che altri che ad essa si intrecciano. Dal lato più pratico all’inizio ha invece inciso, e non poco, tutta quella serie di esperienze, contatti, accorgimenti che Andrea aveva collezionato e perfezionato negli anni attraverso Avant! Records, progetto che porta avanti in solo dal 2007.
Quale percorso unisce le prime uscite, a partire dall’uscita de La Piramide di Sangue per arrivare fino alle ultime perle di Virtual Forest? C’è un motivo dietro alla scelta di puntare i riflettori sulla produzione italiana?
Tapes è cassetta, ma prima ancora nastro, qualcosa che collega. C’è un nastro di nastri che scivola attraverso ogni nostra uscita. Una progressione temporale fra il clarinetto di Gianni Giublena Rosacroce e le sue trame arabeggianti, i territori rituali disegnati con organo e percussioni dai Cannibal Movie e gli angoscianti cut-up dei Father Murphy. Un nastro che da lì sconfina tra i paesaggi disidratati del deserto californiano dei German Army o la Vienna esoterica e impastata in un amalgama di drone di Bird People. Che si muove fra le borgate post- apocalittiche immaginate dagli Heroin in Tahiti, tra i templi profan(at)i di Mai Mai Mai, segue le morbide onde sinusoidali di Psalm’n’Locker, condivide le cupe notti di Urna e le zone liminali di Virtual Forest. In tutti questi passaggi c’è la consacrazione dell’alterità, una decisa ricerca del punto di rottura con ciò che è il qui e ora. Ciò che interessa a entrambi è quindi fare luce su queste particolari fratture e resistenze – e non penso sia un caso che tutti i progetti che ad oggi abbiamo seguito ruotino in genere attorno a una o due persone, credo che questo dato si sviluppi proprio nell’intimità del messaggio veicolato. Per ciò che riguarda il fatto che buona parte siano artisti italiani, credo che la ragione stia semplicemente nella prossimità di contesto che condividiamo, un contesto di rapporti umani coltivato negli anni, ma anche quello di un particolare periodo temporale in cui la proposta che ne emerge è decisamente ricca e merita di venire ascoltata.
Tutta la musica che avete pubblicato guarda a quelle tradizioni per cui la musica è un mezzo per trascendere dall’esperienza terrena, per affrontare insomma questioni importanti della vita. Tradizioni che noi occidentali classifichiamo troppo facilmente come ‘altre’ e lontane a quei sistemi musicali con cui da occidentali siamo cresciuti. Proprio perché trattano argomenti più complessi, queste forme musicali si sono mantenute pressoché intatte, mentre la musica occidentale ha conosciuto cambiamenti costanti volti ad affermare o smantellare il sistema tonale su cui ha da sempre gravitato. È questo il filo conduttore o almeno una chiave di lettura che collega le ricerche dei rumoristi del primo novecento, il cosiddetto minimalismo, le ricerche nel continente asiatico da parte di compositori come Riley, La Monte Young o Glass, la psichedelica degli anni ’70, il krautrock, fino ad arrivare ai giorni nostri?
Per come la vedo rispetto agli esempi che hai riportato si può decisamente parlare di musica sacra. Per lo meno nella misura in cui per sacro si intende la propria visione personale, il proprio mondo perfetto da contrapporre al mondo imperfetto della realtà fenomenologica. Se guardo ai lavori dei singoli o delle correnti indicate sopra non posso che notare l’intenzione di proporre la propria versione dell’ordine delle cose, un’intenzione condivisa e declinata in maniera differente in ogni eccezione. Senza entrare nel merito di sistemi tonali, atonali o modali (non ne avrei le competenze), senza tracciare una separazione fra occidente e non-occidente, penso che si potrebbe semplicemente pensarla nei termini di una distinzione di funzionalità – per “chi” e per “cosa” si scrive musica, e quindi, tracciando una linea, separare la produzione artistica che necessita di una legittimazione economica da quella che può esaurirsi ed autolegittimarsi nella propria integrità. Come dicevo prima è questo che ci interessa come etichetta, appoggiare e promuovere quei progetti che sappiano raccontare la temporanea visione-del-mondo dei propri autori. Rispetto al tema della trascendentalità di cui accennavi sopra sicuramente la tipologia musicale dei lavori che abbiamo seguito incide parecchio, collocandosi in quel segmento sonoro che va dalle scure deviazioni psichedeliche fino alla matrice intrinsecamente mantrica del drone. In entrambi i casi si tratta di strutture che hanno di fondo una certa componente liturgica e quindi, come dicevi, una qualche vicinanza a quei contesti culturali in cui la musica è mezzo di collegamento con una dimensione extraumana – naturale o spirituale che sia. Ma, ripeto, non credo sia di base una prerogativa dei sistemi non-occidentali, né che queste tipologie musicali abbiano in sé un valore immanente, le vedo più come scelte contestuali.
Cosa vuol dire quindi dedicarsi oggi, nell’attuale panorama dell’elettronica, a ricerche sulla drone con tutte le derive noise, psichedeliche, esoteriche? In un momento cioè in cui la musica elettronica è a tutti gli effetti una delle migliori espressioni per spiegare (e forse capire?) la contemporaneità.
Penso che la ‘contemporaneità’ non sia un evento monolitico, un dato universale. Per questo non credo esista un unico strumento di codificazione e interpretazione, ma diversi quanto le diverse contemporaneità. Premesso che comunque alcuni dei lavori che abbiamo pubblicato e pubblicheremo incarnano una dimensione sincretica tra l’analogico e il digitale – e che in certi casi, come un’uscita che avremo a breve, potrebbero stazionare tra l’elettronica toutcourt – sono dell’idea che la musica drone, nelle sue varie accezioni, permetta la lettura del tessuto da cui nasce tanto quanto lo fa immancabilmente qualsiasi altro genere musicale essendo tutti di per sé culturalmente significativi. Poi nella preferenza c’è anche il gusto personale, per lo meno per quanto mi riguarda, ma in questo frangente il fatto che apprezzi il linguaggio di saturazione dei bordoni non lo spiegherei con un processo interpretativo, ma più con una scelta di pancia.
Essendo a tutti gli effetti una componente della scena psichedelica italiana, ci spiegate in che direzioni sta andando attualmente e come pensate di comunicarle come etichetta?
Ormai tre anni fa Antonio Ciarletta scriveva sulle pagine di Blow Up una sorta di manifesto in due articoli su ciò che è, sempre secondo le sue parole, la scena dell’Italian Occult Psychedelia. Quest’ultima è un’etichetta che può risultare stretta ad alcuni o troppo larga ad altri, ma in definitiva, e proprio per il suo essere un’etichetta, ha il pregio di porsi come collettore prima e diffusore poi di un mondo altrimenti poco afferrabile nel suo insieme. È una scena densa, ma anche altamente eterogenea che spazia dalle code psichedeliche alla Library Music passando per i territori dell’esotico e dell’esoterico. È l’hauntology – quel concetto che da Deridda passa per Reynolds fino alla declinazione nostrana di Valerio Mattioli – del grande debito, ma anche del grande dialogo, con un passato che non viene mai celebrato nella sua intoccabile interezza. Come scriveva diverso tempo fa qualcuno non c’è qui riproposizione retro/nostalgica (cosa che spesso accade con diversi generi musicali tirati fuori da cassetti polverosi e ripresentati ripuliti), ma mescolanza, ridiscussione e fusione tra quel passato sgranato e le implicazioni del contemporaneo (sonore, sociali, culturali). Rispetto alle uscite di Yerevan Tapes sicuramente i punti di contatto con il filone dell’Italian Occult Psychedelia sono tanti, ma come dicevo prima non è interamente lì che esauriamo il nostro interesse. Diciamo che in questo momento, e proprio per le ragioni di cui sopra, molti dei lavori che escono sotto questo mantello incontrano a pieno il nostro interesse.