Senza tanti giri di parole: immaginiamo che qualcuno di voi storcerà il naso a vedere una lunga intervista a Joe T. Vannelli qua, sulle nostre pagine: perché lui è visto come un dj commerciale, o come comunque uno non dei “nostri”. Beh, è uno sbaglio. Non perché vogliamo farvi cambiare idea su di lui: ognuno è libero di tenersi la sua, e lui comunque ha già abbastanza fan di suo e abbastanza onori da non aver bisogno di cercare di guadagnare altre persone alla sua causa. No, il punto è un altro: il punto è che questa è una delle interviste più dense e significative che abbiamo mai fatto per capire una scena (in primis quella della Milano anni ’80 e ’90), una persona, un’attitudine. Una chiacchierata appassionante insomma, dove Vannelli si racconta generosamente e senza filtri. Considerando che lui, vi piaccia o meno, è nella storia del clubbing italiano (anzi per molti è proprio uno dei dj per antonomasia) il consiglio è di mettervi comodi e godervi questa intervista, una intervista di narrazioni, aneddoti e posizioni forti. Ne vale la pena, davvero.
Sai cosa? Davo un’occhiata veloce alla tua voce su Wikipedia, prima di arrivare qua, e devo dire che leggere “ha iniziato nel 1977” mi ha fatto abbastanza impressione: perché è tanto ma veramente tanto tempo fa; ma anche e soprattutto perché il 1977 non è stato, in Italia e non solo in Italia, un anno come altri, penso prima di tutto al clima sociale e politico.
Ma guarda, io sono sempre stato sostanzialmente apolitico. Arrivavo da una famiglia proletaria, quindi ok, era più facile frequentassi gente che si poneva a sinistra fra i miei amici, ma mentre in parecchi si dedicavano alla politica in modo più o meno militante – cosa che in quegli anni pareva per molti quasi obbligatoria – io invece mi dedicavo alla musica, alla chitarra, ai Pink Floyd, a “Jesus Christ Superstar”… erano queste le cose che mi appassionavano, queste le cose che mi coinvolgevano. Perché per me, la politica, è sempre stata una cosa un po’ pesante: non riuscivo ad apprezzarla, non riuscivo a metabolizzarla. Tant’è che quando a scuola, all’istituto che frequentavo, iniziavano a fare gli scioperi a me la cosa stava un po’ sulle palle, diciamo così: perché non mi interessava andare a contestare. Contestare cosa? E chi? Solo per dimostrare a me e agli altri che ero “libero”? Per me la “libertà” era la musica, non mi interessava altro. E comunque, col senno di poi ho scoperto ancora meglio che i politici sono essenzialmente dei traditori, in tutto e per tutto. Quindi davvero nessun rimpianto.
Eri una mosca bianca, a vederla così. O almeno, credo che l’impegno politico in quegli anni venisse visto come una componente quasi obbligatoria, fra i giovani. Erano anni così.
Sai cosa significava per alcuni miei compagni l’impegno politico? Anche il potersi buttare sulle droghe, perché pure questo era giustificato come “libertà”: drogarsi era un gesto “liberatorio”. Non è come oggi, che se ti droghi sai comunque che vai incontro a conseguenze di un certo tipo, a situazioni anche gravi. Ad ogni modo: io non ho mai fatto uso di nessun tipo delle droghe perché non mi interessava. A me interessava la chitarra, andare ai concerti, stare insomma in qualche modo collegato al mondo della musica. Mi sentivo nato per quello, il resto non mi interessava.
Come sei entrato, lavorativamente parlando, in quel mondo?
Perché mia sorella frequentava una persona – che poi diventò semplicemente un mio amico, non è uno che è rimasto nel settore – che bazzicava all’epoca Radio Milano International, ovvero la prima radio privata davvero importante. La radio dove c’era il famosissimo Leonardo – una grande persona a cui mi sono molto legato, scomparso qualche anno fa. E’ stato lui a dare via per me a un mondo, a uno status, a un pensiero, a un sogno: diventare dj. E’ stato lui a far scoccare la scintilla.
Che in quegli anni quello del dj era un ruolo non dico squalificato, ma…
No no, era proprio squalificato! Diciamolo! Io cominciai vendendo dischi da Goody Music, negozio di dischi, e anche da Fiorucci, all’epoca a Milano in Via Torino, dove c’era anche una sezione dedicata alla vendita dei vinili. Era il periodo dell’esplosione della disco music, 1977, 1978, e il proprietario del negozio – gay – faceva anche il dj al Si O Si, un club piuttosto noto nell’ambiente gay (NdR., il curioso paradosso è che il Si O Si venne fondato nel 1969 fra gli altri da Primo Moroni, punto di riferimento della sinistra extraparlamentare milanese). Mi chiede ad un certo punto di andare a lavorare con lui, il pomeriggio: nasce la magia. Anche perché inizio a doverlo sostituire, di tanto in tanto: e al Si O Si la gente arrivava per ballare. O imparavi, o imparavi.
Che tipo di gente c’era?
Tutti proletari. Ragazzi che cercavano di scatenarsi. Parliamo del pomeriggio, eh, quelli erano gli slot pomeridiani del weekend. Il martedì sera, invece, era quello leggendario in città. Al pomeriggio però potevo piano piano imparare, perfezionando anche la tecnica di far suonare due dischi assieme, creando così qualcosa di nuovo: all’epoca non lo faceva nessuno, era una cosa rivoluzionaria.
In effetti, in quegli anni…
Tutti suonavano lanciando il disco di botto, “alla francese”, si diceva così… Che poi, chi cazzo si è inventato questa definizione? Piuttosto, in quel periodo su Radio Milano International potevi ascoltare i mixaggi di Jonathan, erano una roba fantastica – anche quella è stata un’enorme fonte di ispirazione, uno stimolo eccezionale. Però ecco, ai tempi a fare il dj non pensavi certo che questo t’avrebbe fatto guadagnare granché. Mio padre e mia madre mi volevano in banca, mi volevano in ufficio; c’ho anche provato, ho fatto diversi lavori da ufficio, ma alla fine tornavo sempre là, tornavo sempre alla musica, a sbatterci contro la testa, a cercare di dare vita a quello che avevo in testa musicalmente parlando, come “discorso musicale”. Poi, nel 1979, un altro cambiamento importante.
Ovvero?
L’After Dark: un altro locale gay. Non sono gay, non ho mai frequentato gay, ma apprezzo moltissimo quel mondo – perché hanno una sensibilità diversa. Come per magia, quello che piaceva a me, in musica, piaceva anche a loro. All’After Dark suonavo in una gabbia, da mezzanotte in punto fino alle quattro del mattino. Il locale mi prese non so nemmeno bene perché: forse perché uno dei due proprietari (quello gay, perché l’altro invece era eterosessuale) si innamorò di me, non lo so. Sta di fatto che ero giovane, avevo voglia di suonare. C’ho passato una vita, lì dentro. Nel frattempo sono nati anche i miei figli, in quegli anni, ma soprattutto sono rimasto lì anche quando, parliamo del 1986, esplose in tutta la sua forza il dramma dell’AIDS. Sai, a quei tempi non c’era chiarezza né informazione, si pensava che se bevevi dal bicchiere di una persona sieropositiva ti ammalavi anche tu… infatti mia madre e mia moglie volevano che me ne andassi da lì… Ma io rimasi. Rimasi sul mio posto di lavoro. Rimasi là, ed ero disperato: non sapevo che aiuto dare per provare a risolvere questo dramma. L’unica cosa che potevo fare era restare là, e dare conforto alle persone. Che intanto mi morivano davanti, o vedevano morire i loro più stretti amici.
Era una situazione estrema, l’After Dark? Un luogo borderline? Una specie di “best kept secret” solo per iniziati?
Non era un luogo segreto ma era comunque un circolo, potevano accedervi solo i tesserati. Tuttavia era un locale alla moda, di tendenza. Ci si incontrava magari al ristorante, al piano terra, e poi si andava a ballare al piano di sopra. Lì trovavi gente come Moschino, come Keith Haring… tutti morti di AIDS… Sai, io ho ancora i panni che mi disegnò Haring in persona! Perché stiamo parlando di un’epoca in cui la musica era il filo conduttore di tutto, di qualsiasi cosa tu volessi fare come artista. Per dire: volevi farti un nome nel mondo della moda? Ok, questo significava anche che dovevi andare in un certo tipo di locali a ballare, ascoltare un certo tipo di musica… Sì, dovevi essere un amante della dance.
Si percepiva anche l’euforia della “Milano da bere” anni ’80?
Nooo, quella è un’altra storia. Io all’After Dark sono rimasto fino al 1991, da lì in avanti ho iniziato a frequentare altri locali come il Plastic, o after come l’Exogroove – lì diciamo che si è aperta un’altra fase della mia carriera. Però ecco, all’After Dark sono rimasto legato dal 1979 al 1991, tutto il tempo come resident. Ogni tanto provavo a suonare in qualche altro locale, ma in quei casi ad un certo punto della serata compariva sempre uno dei due proprietari dell’After Dark che mi prendeva per le orecchie dicendomi “No! Tu devi rimanere in esclusiva da noi! Ti pago, ti pagherò più di tutti, ma tu resti nostro”. Avevo offerte di tutti i tipi. Gente che mi seguiva fin sotto casa. Donne che mi aspettavano in ogni dove. L’After Dark è stato un momento topico della mia vita e della mia carriera perché sono molto maturato – anche perché vedere amici che ti muoiono davanti è un’esperienza che, purtroppo, ti matura parecchio. Non ho mai fatto uso di droghe. Non sono mai stato gay (ma ho molti amici gay, quindi apprezzo la loro forma di intendere arte e creatività, senza star lì a considerare e praticare i loro usi e costumi – perché non mi interessavano). Comunque, succedevano di quelle cose… Ti dicevo di Keith Haring, no? Una sera arrivò ‘sto tizio in consolle, iniziò a dipingere con un pennarello dappertutto, sui muri, in consolle, sulla mia maglietta, io ero sconvolto… in una sera sola dipinse le pareti di un’intera stanza di falli che si “parlavano” fra di loro, ti rendi conto? Era mezzo sconosciuto, eh, sì, si sapeva che era “uno di New York”, che forse ma forse aveva qualcosa a che fare con Andy Warhol, che faceva l’artista… però ecco, anche io ero “un artista”, lì.
Sì, toh, sarà stato al massimo considerato come uno che arriva da New York giusto un po’ più eccentrico della media. Niente di che.
Bravo! Beh, ti dicevo di questo murales grande una stanza, no? L’hanno cancellato. Ti rendi conto. Col senno di poi, era una cosa che valeva miliardi… Niente, nulla, cancellato: se vai al McDonald’s di Viale Certosa, a Milano, perché quella era la palazzina un tempo dell’After Dark, sappi che sotto l’intonaco della sala del primo piano c’era un tesoro. Quella sera si mise addirittura a disegnarmi sulla maglietta, come ti dicevo: portavo una t-shirt bianca, ovvio che gli venne la tentazione, a me divertiva l’idea di questo matto che andava a disegnare dappertutto e lo lasciai fare. Mi disegnò un cazzo gigante, con le ali. “Che diavolo fai! Oh, a me piace la tua roba, ma io non sono gay, mi dovevi disegnare qualcos’altro”: e come un deficiente, vendetti la sera stessa a qualcun altro quella maglietta – a 150.000 lire, me lo ricordo ancora adesso. I panni però, coi suoi disegni sopra, mi sono rimasti. Sono l’unico dj al mondo, credo, ad avere un panno per dj personalizzato da Keith Haring.
Cosa si è perso di quegli anni ’80 a Milano?
Il sogno. Si è perso il sogno. Non c’è più la voglia di creare qualcosa che ti possa “portare in paradiso”. Che poi, il “paradiso” può anche essere il nostro mondo quotidiano così com’è oggi. Sì, c’è la crisi, quello che vuoi, ma non ci sparano dietro. Non siamo in Afghanistan, dove mandi i figli a scuola e te li ammazzano sotto gli occhi. Bisogna cercare di metabolizzare tutto, e porre lo sguardo verso il futuro: perché il futuro esiste, non è un mistero, il futuro nostro noi lo possiamo pilotare, in teoria siamo perfettamente in grado di crearci la nostra strada. Non siamo in guerra. Non siamo sotto assedio. Sì, ok, l’Italia magari è un paese difficile, ma non esageriamo. Mangiamo bene, possiamo avere degli amici, abbiamo la macchina, andiamo in vacanza: la vita media delle persone, qui da noi, è più che accettabile.
E’ casuale che uno dei grandi cambiamenti nella tua carriera, con l’abbandono dell’After Dark e la migrazione verso posti come Plastic o Exogroove, coincida più o meno col periodo in cui anche in Italia è arrivata l’ondata dell’acid house?
Noi suonavamo acid house già nel 1986, 1987: c’era uno dei Frankie Goes To Hollywoord, come si chiamava?, che si era messo a fare roba acid house.
Paul Rutherford. “Get Real” era il nome del singolo, se ricordo bene.
Esatto! Quella traccia diede un po’ il via all’acid house più commerciale: una cosa molto interessante, con molta melodia, c’era giusto la 303 a scompaginare un po’ il tutto… L’acid house è stato comunque un movimento eccezionale.
Poi c’erano anche i rave. Spesso le due cose, rave ed acid house, erano congiunte.
Io non ero molto d’accordo sul fatto di andare ai rave. Quando mi chiamarono per la prima volta nella mia carriera a suonare ad un rave, ed era Exogroove ai suoi esordi, io mi rifiutai drasticamente di suonare. Mi convinse ad andarci Tony Bruno. Lavoravo al Plastic, avevo il mio spazio, mi ero creato la situazione giusta per me. Dopo di me, a suonare, di solito c’era Stefano Fontana. Ai tempi il Plastic non funzionava da mezzanotte alle tre come è stato poi, si riempiva solo quando avevano chiuso tutti gli altri locali. Tant’è che ad un certo punto volevo dimostrare a me stesso e a tutti gli altri che ero capace di riempire il locale anche prima che chiudessero tutti gli altri, su questa questione ebbi anche una discussione con Stefano… Ad ogni modo, avevo tutta la “mia” gente che mi seguiva, mi seguiva ovunque, ed erano quelli che si erano appassionati a me andando all’After Dark. Una volta chiuso quello, provai per qualche mese al Medici Tredici, praticamente tutto l’After Dark si spostò lì: baristi, cassiera, musica. Tutti. Tutti con me. Un movimento gay house, che funzionava, eccome. Produssi proprio in quel periodo “Play With The Voice”, traccia che poi mi portò in giro per tutto il mondo, fatta per non so quale giro strano con una vocalist ungherese che non sapeva né l’italiano né l’inglese quindi mi venne l’idea di farle fare dei vocalizzi e basta. Comunque ecco, al Medici Tredici non durò molto: era un locale di matrice rock, noialtri della house gay improvvisamente stavamo prendendo il sopravvento e questa cosa ad alcuni non piacque. Appena capito che stavano nascere delle tensioni, io mollai. Non sono in grado di gestire queste cose, io so solo suonare musica. Comunque, si era liberato proprio in quel momento uno slot per suonare al Plastic e io me lo presi, riprendendo da lì a frequentare ambienti un po’ meno estremi. Il Plastic era ovviamente famosissimo come posto. Là venne Tony Bruno a sentirmi, e con lui Gabon. Tony a fine serata venne da me e mi fece: “C’è Gabon che vuole sentirti all’Exogroove. Attacchi al mattino alle nove”. Io dentro di me pensavo “Ma tu sei scemo, io c’ho pure figli, figurati se vengo a suonare a quell’ora lì”: insomma, non ero molto convinto. Ma loro, invece, erano certi che se fossi venuto ad Exogroove, Exogroove sarebbe esploso: e così fu. La prima volta che andai lì, pensa un po’, suonai con un cartellone col mio nome sopra di me, perché non avevano fatto in tempo ad inserirmi nel flyer. Ero il primo a suonare, in line up. Ero curioso, sai: non tanto perché fossi in un posto dove erano tutti impasticcati e felici, che poi a me delle pasticche non me n’è mai importato nulla, ma perché c’era questa leggenda che bisognava arrivare sino in fondo, perché l’ultimo slot nella line up dell’after Exogroove era qualcosa di leggendario. Arrivai fino in fondo. Ultimo slot. Sale in consolle Leo Mas. “Mo’ questo perché sarà così bravo?”, mi chiedo. Parte. Parte con un pezzo sognante, una roba paradisiaca: “Bella idea”, penso. Poi, techno. Techno a manetta. Io in quel periodo la odiavo, la techno: non aveva passione, non aveva anima, mi sembrava roba ripetitiva che non “concludeva” mai nulla, musicalmente parlando. Una musica che credo avesse dalla sua il consumo delle pasticche: perché la pasticca ti fa entrare in un loop mentale che sì, ti connette a quel tipo di musica. Oggi la techno è molto più melodica, molto più vicina al mio suono, alla house; ma fino a qualche anno fa, e col mio ufficio stampa ci rido sopra ancora adesso, la parola “techno” era bandita accanto al mio nome. Per me, non era musica. Come non lo è oggi l’EDM: una roba che per me, ora come ora, ha suoni inascoltabili. La musica, a mio modo di vedere, è come il cibo (visto che è qualcosa che introduci nel tuo corpo: entra dalle orecchie, e fa sviluppare endorfina al cervello): se mangio male, poi sto male. Allo stesso modo, se io ascolto male – poi sto male. E’ la verità. Non riesco a sentire quel tipo di musica lì, l’EDM. Non riesco ad averla sul mio corpo. Mi viene l’ansia. Mentre invece, al contrario, la musica house, le melodie, la voce, le cose “umane”, la chitarra il basso, insomma tutto quello che è concepito come musica da come ho imparato le cose io: quello, invece, mi eccita.
Beh, a proposito di termini “banditi”, quanto è bandito e pericoloso il termine “commerciale”?
E’ sempre stato bandito: per me, per tutti. Se qualcuno ti arriva davanti e ti dice che sei un dj “commerciale” il primo impulso è quello di dargli una testata, no? Io ho sempre lavorato cercando il successo. Ma cosa significa successo? Quando noi dj ascoltiamo un brano che è nuovo, e intendo noi dj che abbiamo voglia di scoprire cose nuove, la tensione a dare al pubblico per la prima volta o comunque per le prime volte un brano che poi diventerà un grande successo è una cosa meravigliosa, è la soddisfazione più grande. Io ho lanciato “Bamboleo”, io l’ho suonata all’After Dark due anni prima che diventasse un fenomeno di proporzioni mondiali. Ho suonato “French Kiss” di Lil Louis almeno un anno prima che esplodesse veramente qua, anche perché sai cosa facevo? Andavo direttamente a “sequestrare” tutte le copie che arrivavano nei negozi, anzi, prima ancora che arrivassero nei negozi: andavo dagli importatori, compravo io tutte le copie. Nessuno al di fuori di me doveva avere quel disco. Nessuno.
Eri un bastardo.
No: ero quello che voleva avere un’esclusiva. “French Kiss” qua da queste parti l’avevo scoperta io, e non la volevo condividere con nessuno: va bene? Volevo che i miei amici, che non erano gay, venissero ad ascoltarmi nei posti gay – dove di loro non ci sarebbero mai andati – perché io avevo i dischi che lì e solo lì potevi sentire. Io avevo la musica.
Oggi hai ancora questa fame di essere il primo, l’unico ad avere qualcosa?
No. Oggi è diverso. Oggi con internet si hanno molta più opportunità, oggi con internet puoi arrivare a Los Angeles in un nanosecondo. Lo puoi fare. Ma internet può anche distruggere, perché ha fatto scomparire nei giovani la voglia di scoprire la cosa, “quella” cosa che gli altri non possono avere. Abbiamo tutto di tutto: abbiamo la verità, ma abbiamo anche l’antiverità… Su internet trovi la notizia, ma la trovi anche uguale però completamente ribaltata: sta a te scegliere da che parte stare. Internet è potenzialmente una grandissima occasione per tutti ma bisogna veramente fermarsi un attimino, perché andando avanti di questo passo stiamo diventando veramente dipendenti dal cellulare, dalla tecnologia, dai social, eccetera. I giovani oggi pensano che essere esposti su Facebook o Twitter può darti il successo; mentre invece il successo arriva quando meno te lo aspetti. Non lo devi cercare. Devi produrre, invece, e avere qualcosa da raccontare; non devi metterti a fare cose solo per poter fare i soldi. I soldi arrivano perché ti devono arrivare, perché è nel tuo destino, perché hai fatto qualcosa che gli altri non possono fare – o perché hai un carisma, un modo di suonare, che gli altri non possono avere.
Tra l’altro, al di là della tua carriera meramente da dj tu ti sei dimostrato anche un buon uomo d’affari.
Mi sono ispirato a Pavarotti: uno dei più grandi cantanti lirici di sempre, ma lui si gestiva tutto da solo. Imparare a gestire tutto è fondamentale, è una cosa da condividere coi tuoi figli. Anche i miei, di figli, sono bravi artisticamente ma sono meno bravi nella gestione generale delle cose. Purtroppo oggi, nell’era di internet, devi imparare a parlare coll’ufficio stampa, col giornalista, col proprietario del locale, coi pr. Devi essere anche bravo a trovarti gli sponsor. Varie serate, anche mie, oggi non potrebbero esserci senza sponsor.
Ma fai ancora tutto tu in prima persona?
Per forza. Faccio tutto, a parte ovviamente l’ufficio stampa. Prima mentre parlavamo è entrato il mio commercialista, e ho firmato al volo dei documenti per comprare dei capannoni; quello dietro di lui era il mio avvocato, finito con te ora vado a parlare con lui perché abbiamo un contenzioso su un publishing da vendere a Robert Miles. Giusto per dirti. Ci sono tante cose in ballo, e sono sempre io che devo decidere: non posso fare l’artista che si chiude in studio e pensa solo alla sua roba.
Non ti fa quasi paura la tua longevità? E’ un’eternità ormai che stai andando avanti, fa impressione la lunghezza della tua carriera.
La famiglia è grande, bisogna mantenerla. Solo per quello vado avanti…
Solo per quello?
Fosse per me e solo per me sarei già in Brasile a divertirmi! Ma come faccio? Ho troppe date – e devo farle per mantenere l’intera struttura, la JTV Recordings, i collaboratori, gli spazi in cui ora stiamo facendo questa chiacchierata. Ecco, nel paese esotico e bello ci vai solo se ti strapagano; solo che oggi non ti strapaga più nessuno. Ecco, questa magari è la nostra fortuna, di quelli della mia generazione: siamo diventati “grandi” ed importanti in un periodo in cui giravano, per i dj, delle cifre che oggi non girano più. I miei figli, se vogliono fare i dj di professione, per fare un po’ di soldi devono sbattersi quattro volte di più. Perché c’è crisi: nel nostro, come in qualsiasi altro settore in Italia.
Non solo: oggi molta più gente vuole fare il dj, il mercato è fin troppo affollato.
Su questo non sono tanto d’accordo. Perché comunque anche all’epoca eravamo in tanti, c’erano tanti dj, ognuno aveva qualcosa da raccontare. Poi ci sono quelli più fortunati, come me, che hanno avuto l’occasione di mostrare quello che sapevano fare davanti ad un pubblico enorme. E lì devo dire grazie all’Exogroove, che era veramente un party borderline.
Dove tu non volevi andare.
Dove io non volevo andare, dove sono andato, dove è esplosa la mia popolarità. La mia cultura arriva dall’After Dark, dai locali gay; ma la mia voglia di fare sempre di più e sempre più in grande è nata da Gabon. Purtroppo, con lui non ho più niente da dividere – Supalova come serata è nata proprio da un litigio con Gabon. Tuttavia, lui lo ritengo un assoluto fuoriclasse. Lui ha, da sempre, quella cosa che gli altri non hanno: che sia il saper parlare, saper sorridere al momento giusto, anche il saperti baciare quasi sulla bocca pur senza essere gay – da lui lo accetteresti, da altri non lo accetteresti mai. Lui ce l’ha. Ci siamo cascati tutti, al suo cospetto. Poi evidentemente anche lui ha i suoi difetti, come li ho io. In ogni caso penso di poter dire davvero grazie all’Exogroove per come ho “capito” la notorietà, il successo, la gente che ti osanna… Avevo due buttafuori davanti e due dietro, quando mi dovevo spostare dentro il locale. Ok, erano tutti sconvolti, ma io gli davo un’emozione. Io, non ero sconvolto, ero pulito: ma gli davo l’anima e la gente, pur da sconvolta, lo capiva, lo sentiva. Questa è la cosa incredibile che mi ha dato quell’after: io sapevo di non essere drogato, ma riuscivo a drogarmi della mia musica e riuscivo a trasmettere questa energia – energia che la gente, drogandosi, percepiva. Poi oh, sia chiaro, c’era anche molta gente che non si drogava. Meno male. Sai, è anche brutto da vedere, tutta questa droga… Io per dire sono molto infastidito quando vedo le foto di un Ricardo Villalobos conciato in certe maniere, che a momenti quasi sviene, che a momenti quasi muore in consolle. A me fa schifo tutto questo. E’ veramente uno schifo, non lo posso accettare, è come se si giustificasse la droga. Che poi cosa succede, succede che i ragazzi vogliono provarla la droga, la vedono ovunque. Ci sta, eh, che uno che è giovane voglia provare le cose per capire se sono buone o cattive. Non sono mica bacchettone. Ma oggi la gente non sa cosa si introduce in corpo. Cazzo: tanti dei miei amici sono morti! Come posso accettare un affronto del genere alla vita? Per me la vita è importantissima, è il mio scrigno, è il mio segreto. Quando vedo la droga che distrugge le persone, i ragazzi… Ma non voglio parlare troppo di droga, uscirei fuori dal tema.
Senti, quali sono i tuoi colleghi italiani che stimi di più?
Tutti quelli che hanno un nome importante. A partire da Coccoluto, che in qualche modo è sempre stato in competizione con me: siamo sempre stati rivali pur non essendolo, perché era la gente che creava questa rivalità. Lui ha la sua vita, io la mia. Poi c’è Ralf ovviamente, anche con lui non posso dire che abbiamo mai diviso un’amicizia. Sarà brutto da dire, ma in fondo penso sia giusto così: diventi amico di qualcuno per motivi che vanno al di là della convenienza, o del fatto che lavori nel tuo stesso ambiente. Io credo che l’amicizia debba nascere tra persone che hanno tra loro un’alchimia speciale; non che Claudio e Ralf non ce l’abbiano, semplicemente non è scoccata fra di noi quella scintilla che ci facesse diventare amici. Comunque diciamo che noi tre siamo i personaggi di una certa età che ancora oggi lavorano con passione e determinazione ad alti livelli. Ognuno comunque nella sua situazione.
Qualcuno invece che negli anni non ha avuto il credito che meritava?
Ce ne sono tanti. Massimino, Ricky Montanari, anche Flavio Vecchi. Ce ne sono di dj che hanno fatto la storia della house e della dance italiana e che non sono considerati abbastanza; la loro notorietà è un po’ soffocata dalla popolarità di Ralf, di Claudio e anche dalla mia. Noi quando lavoriamo non è che ci mettiamo a pensare “Siamo i più bravi, siamo i migliori”. Io faccio quello che faccio perché è il mio mestiere, perché mi viene bene, perché mi diverte, per guadagnare, per mantenere la famiglia, non per dire che sono – che so – più o meno bravo di Massimino. Quello che è importante è che il mio suono sia caratteristico, non sia confondibile con quello di altri. Vedi gli spazi di questo studio? Qui dentro c’è passato anche David Guetta, era il 2007, faceva già “Fuck Me I’m Famous”, era insomma già ad un certo livello: fu lui a contattarmi e a chiedermi di lavorare per lui, di fare dei remix per lui. Mi chiese di fare un remix per “Love Is Gone”, il suo primo successo veramente grosso. In cambio venne ospite a Supalova: Supalova che è un brand, qualcosa che va oltre il commerciale o il non commerciale, è un contenitore artistico di cose di cui sono super-innamorato (da qui il nome). Comunque: venne Guetta e non ebbe nemmeno il riscontro che si meritava, me lo ricordo bene, facemmo circa 300 paganti – una roba ridicola – allo Shocking Club di Milano. I pr non lo volevano vendere. Due anni dopo, Guetta arrivava a prendermi mentre ero allo Space a Miami: io, lui, mio figlio, sua moglie, il suo manager – tutti quanti poi a casa di Morillo. Mio figlio rimase scioccato. Era la prima volta che andava in America e si ritrovava a casa di Morillo, in questo villone, c’era anche Josh Wink; ma rimase scioccato soprattutto perché vedeva che questa gente dalla fama enorme aveva un grandissimo rispetto nei miei confronti. Perché sai, io non sono il “djino che ha fatto il successino”, che ha imbroccato una traccia – sono invece anni che faccio quello che faccio, anni! Senza pretendere nulla di che, eh, solo di fare la musica che mi piace e di essere in grado di regalare un’emozione.
Ti è mai venuta la tentazione di nasconderti dietro uno pseudonimo e far uscire delle produzioni per vedere che effetto fanno?
Sì, perché ti viene la curiosità di capire se sei stato fortunato o se invece quello che fai lo sai fare bene sempre e comunque, se hai veramente qualcosa da raccontare. Ho provato insomma a nascondermi dietro ad uno pseudonimo, e non ti dirò nemmeno qual è – mi sono firmato come autore e basta. Però in generale quando mi viene la tentazione di far uscire qualcosa sotto altro nome, la parte più pragmatica e commerciale che c’è in me mi dice “No, non farlo. Hai un nome che ti permette di girare, di vendere: devi sfruttarlo”. Ho una struttura da mantenere, come già detto. Una struttura che ha a che fare con musicisti, cantanti, spese di tutti i tipi, anche solo semplicemente per produrre una canzone. Una struttura che forse costa anche troppo, per quelli che sono i nostri giorni, ma che comunque voglio e devo mantenere. I soldi arrivano solo se vendi dischi; e se per vendere dischi il nome che ti sei fatto è un fattore prioritario, è giusto che tu lo usi. Questa cosa dell’usare uno pseudonimo, in fondo, è tutta una pugnetta mentale…