Torino. San Salvario. In un caffè di una piazza affresco di una società multietnica, il ticchettio di un orologio a parete scandisce lo scorrere del tempo. La chiacchierata con il duo Ksoul & MuteOscillator, all’anagrafe Stefano Boati e Paolo Giangrasso, inizia tra il rumore di voci concitate, lo scalpiccio del viavai di persone, bottiglie di San Simone e Punt e Mes sul bordo di una mensola in noce francese. Entrambi i produttori piemontesi raccontano del loro “mostro”, progetto dalle distinte venature house. La dialettica, tra i due, è quella di un dialogo tra fratelli di età differente ma con punti comuni, fra tutti la loro via per l’affermazione: “saper gestire la libertà e la creatività”.
In quale circostanza vi siete conosciuti e cosa vi ha spinto a iniziare un percorso insieme?
M: La mia ricostruzione è questa. Frequentavo un negozio di dischi a Torino che non c’è più, Area Beat, gestito da un ragazzo che si chiama Baldo, lì ho visto apparire Stefano con il suo tatuaggio di Plastikman sul braccio. Mi sembrava pazzesco che uno si facesse tatuare una cosa del genere, erano sei o sette anni fa. Gli ho chiesto di prendermi un disco di Der Dritte Raum. Dopo quella volta, l’ho invitato a sentirmi una sera che mettevo i dischi all’Imbarchino del Valentino a Torino, dove è venuto e lì gli ho fatto la grande proposta di venirmi a trovare a casa dove ho questo studio di registrazione con un po’ di macchine, synths analogici e mi sarebbe piaciuto trovare qualcuno con cui fare musica.
K: Per me era il periodo post Morphine Records, fondata da me e Rabih Beaini. Io sono andato via all’incirca dopo il Morphine 004 (“Untitled”) ma alcune uscite successive erano già in programma. Poi ho incontrato Paolo nel 2008 nel sopracitato negozio di dischi.
M: Da lì è nato il fatto di vederci con maggiore frequenza e con la finalità di fare delle tracce insieme.
K: Un momento che coincide anche con la nascita di Kinda Soul Recordings. Uscito da Morphine, ho iniziando questo nuovo progetto con lui e abbiamo deciso di fare uscire le nostre release. Tuttavia, in ordine cronologico, la nostra prima traccia è “Take 1” su Uzuri Recordings.
M: Io cercavo una persona che avesse una visione più dentro quello che sentivo e a cui mi stavo avvicinando ovvero un suono americano e questa house più cruda e violenta. All’inizio abbiamo lavorato molto bene con Stefano che portava dischi da questa sua collezione infinita. Non tanto di dischi house però.
K: Erano piuttosto idee, dei piccoli frammenti (campioni) da usare con l’ausilio delle sue macchine.
M: L’idea era di cercare nuove fonti di campionamento uscendo da ciò che andava in quel periodo per la maggiore come ad esempio l’house à la Moodymann dove c’erano molti campioni disco. Noi abbiamo semplicemente cercato altrove.
K: Sì, campioni più industriali da Throbbing Gristle a Monte Cazazza, due esempi da cui abbiamo preso spunto.
M: L’etichetta Kinda Soul Rec. è stata la piattaforma sulla quale abbiamo pubblicato le prime release poi fortunatamente il mostro che è nato dal nostro incontro, ha avuto una sua efficacia. Dunque sono arrivate Uzuri, M>O>S Recordings, Dekmantel. Poi sono arrivati anche i bambini nel suo caso, il lavoro nel mio e quindi abbiamo frenato un po’. In questo periodo di stasi nella produzione, stiamo suonando un po’ di più, misterioso come meccanismo.
K: Sicuramente non è facile riuscire a gestire questo progetto che abbiamo creato insieme per ovvi motivi. In realtà è ciò che ci sta stimolando anche per delle release future, abbiamo un nostro piccolo seguito, quella è la soddisfazione di ciò che abbiamo fatto.
Stefano, com’era la scena musicale tra metà anni ‘80 e inizi anni ’90 a Torino?
K: Un po’ strana.
M: Te la ricordi?
K: Sì che me la ricordo! Fine anni ’80 era sicuramente influenzata dal periodo new wave che tra l’altro potrebbe essere molto attuale per certi versi. Era una città molto scura che per qualche ragione rimpiango un po’. In quel periodo lì iniziavo a uscire, avevo appena preso la patente. D’estate usava andare in Spagna, vuoi per il basso costo dell’ epoca, vuoi per la movida notturna. Per carità di posti ce n’erano anche a Torino, ma per qualche ragione si tendeva sempre a idealizzare altri paesi. Noi sognavamo una situazione del genere e da metà anni 2000 la città si è trasformata in virtù delle Olimpiadi invernali del 2006. Non so dirti sinceramente cosa sia meglio, credo sia giusto accettare i cambiamenti e viverli il meglio possibile. Nel ’90/’91 c’era già una scena house (di matrice americana) ben definita con qualche locale di riferimento e parallelamente la techno nei centri sociali, alla Spiral Tribe tanto per capirci.
Cosa è cambiato a metà anni 2000?
K: È cambiato il pubblico, probabilmente anche più influenzato da Ibiza, perché la gente andava in vacanza in quei posti. Sicuramente un pubblico differente e massificato, guadagni in certe cose ma secondo me perdi in altre. È inevitabile. Credo che sia giusto il fatto che ci siano serate con caratteristiche diverse per soddisfare le esigenze di tutti.
Questo è legato anche allo sballo?
K: Ti racconto questo aneddoto: frequentavo un centro sociale storico nato nel 1987, El Paso, dove andavo per i concerti punk, hardcore, ma anche solo perché costava meno bere ed era un ambiente interessante. All’epoca, a cavallo dei ‘90, cominciavo ad ascoltare cose tipo Aphex Twin o simili e avevo proposto una serata di quel tipo andando ad una loro riunione. La techno era ancora considerata come un genere superficiale e non se ne fece nulla proprio per l’inevitabile e comprensibilissimo pregiudizio riguardo ad una nuova tendenza che in alcuni paesi europei aveva già preso piede da qualche anno. Poi con le varie tribe che cominciavano a spopolare nel Regno Unito ed un suono più spigoloso in linea con lo spirito loro sono riusciti a “punkizzare” e quindi ad accettare queste nuove sonorità. Da lì in avanti ricordo una marea di rave party nelle location più disparate della città con Simone Cordero dj di riferimento. È differente anche l’approccio perché negli anni ’90 c’era l’effetto novità in qualsiasi ambito sociale, la discoteca era più glamour e si iniziava a rivivere il culto del dj, a discutere di gusti personali, scambiarsi cassette. Ora tante cose sono cambiate, sicuramente la fruizione della musica, che nel tempo si è sempre più standardizzata, l’approccio al djing ma anche il pubblico, che in parecchi casi è molto più superficiale rispetto al passato, per la massificazione del clubbing che ormai è a pieno titolo diventato l’entertainment principale a livello giovanile. Parlare da quarantacinquenne diventa difficile perché è chiaro che a vent’anni si hanno delle esigenze diverse e si tende a tollerare molto di più oltre ad avere una curiosità più spiccata. Adesso io faccio molta fatica ad andare ad una serata techno e sentire lo stesso pattern dall’inizio alla fine quindi, preferisco limitare le uscite a ciò che mi interessa. È chiaro che per alcuni ormai è diventato un meccanismo di lavoro, ci si adegua, più grandi le cose diventano, più si trasformano in qualcos’altro. Citerei come esempio il Richie Hawtin di questi anni e il Plastikman che porto tatuato sul braccio, due mondi diversi creati dalla stessa persona. Plastikman degli ’80/’90 era uno dei produttori techno per eccellenza. È molto importante la visione di chi è sul dancefloor. Non sono partito volendo fare il dj. All’epoca non si era in tanti, io ero già un collezionista di dischi ma ero più proiettato verso il jazz, kraut rock, psichedelia, alternative rock. Il djing che per me all’inizio era più selezione mi serviva per riuscire a comprarmi altri dischi. Nel frattempo uscendo sempre più spesso nel ho cominciato a interessarmi anche di altri generi quali techno, house. C’era parecchio fermento e credo che l’apice sia stato toccato nel ’92/‘93 anni in cui c’è stato un vero e proprio boom di afterhour e rave party. Questi erano gli anni in cui la gente cominciava a mischiarsi di più togliendosi pregiudizi ed etichette di dosso. Cominciava a venir meno il senso di appartenenza degli anni ’80 o il legarsi ad un genere musicale o all’ambiente che lo seguiva. Ad un certo punto c’è stato questo crossover grazie ai centri sociali, credo siano state anche un po’ le droghe a enfatizzare questa cosa, un po’ come in Inghilterra, per quanto siano cose diverse, il fenomeno degli hooligans è morto con i rave. I tifosi delle due opposte tifoserie si trovavano nei rave londinesi e al posto di azzuffarsi, come negli anni precedenti, si abbracciavano e prendevano coscienza di poter contenere la loro aggressività per dare spazio ad un mondo illusorio ma, sicuramente più colorato. La differenza che ho visto qui a Torino, negli anni della techno e dell’house è che io, frequentando il centro sociale in cui stavo meglio, poi trovavo pesante l’approccio che avevano rispetto alla musica. Il grande limite del centro sociale era racchiuso in questo. Poi finivi nel locale house che all’epoca erano piume di struzzo però era più divertente, alla fine la serata più spensierata la facevi lì, con serenità, senza quel background punk del centro sociale che poi è rimasto nella techno. Secondo me c’è e ci deve essere anche il momento del divertimento.
Lo stesso vale per te Paolo?
M: Io ho vissuto in una realtà totalmente diversa, quella della provincia di Cuneo, la più depressa musicalmente in Europa, con mezzi di sballo naturale (tipo i vini più importanti del mondo) che non siamo stati capaci di accompagnare con la musica. La mia più grande fortuna fu un negozio di dischi ad Alba, che vendeva anche delle riviste specializzate, DJ Mag e Mixmag di quegli anni là, più precisamente ’97/’98. Ho cominciato ad attingere ulteriori informazioni da lì, anche perché facevo il dj alle feste con gli amici. Questa cosa mi ha aperto dei canali su due cittadine, Alba e Bra, realtà vicine tra di loro. Alba aveva diversi locali uno in particolare che esiste ancora l’“Altromondo”, dove facevano serate da privé house di derivazione spagnola e inglese (era il periodo della Junior con i dischi di Pete Heller, Terry Farley). Poi ho avuto la possibilità di andare a suonare in un posto che si chiama Le Macabre un locale storico di Bra.
K: Lì suonarono i Diaframma negli anni ’80. Era un locale di riferimento in quegli anni.
M: Sì, ci ha suonato anche Nico dei Velvet Underground. Il Macabre aveva subito una serie di evoluzioni musicali, grazie alla famiglia Busso, sono stati loro che hanno fatto fare concerti a Neffa, i primi Subsonica, i Marlene Kuntz, le prime serate di cabaret ad Antonio Albanese, Paolo Rossi. C’era un fermento culturale forte e trasversale tra la musica e altre arti. Le Macabre era un palco dove chi aveva dei numeri arrivava a suonare. Io sono arrivato in un momento particolare. Il locale aveva proposto molta musica alternativa, dalla New vawe prima, al periodo delle Posse poi, la drum and bass, il trip hop. Era un club con la cabina a livello della pista, e nel retro c’era la collezione di dischi del locale. Succedeva di tutto: avevo gente che mi toglieva la puntina, veniva e mi dava il cinque e dovevi tenere tutti lontano. Avevo già imparato a mettere i dischi a tempo in cameretta, ma lì imparai a mixare davvero usando gli SL con il pitch a rotella e un blocco cdj compatto della Numark che a volte dovevi prendere a pugni. La collezione di dischi del locale era fantastica, avevano cofanetti tipo gli Headz, album hip hop, trip hop, jungle, anche molto rari. Venne un produttore romano, Ominostanco, gente della Irma Records, i ragazzi della serata romana Agatha. Poi arrivai io che all’inizio suonavo molto breakbeat e big beat ma, avevo la valigia che si stava riempiendo di X-press 2, Junior, house percussiva spagnola etc. E ci fu una prima fase in cui mi cacciarono. Mi dissero in pratica che ero un tamarro. Poi il locale cambiò gestione, arrivarono dei ragazzi con delle idee diverse e con loro sono riuscito a fare una serata nel 2005/2006, e come dj mi è servito tantissimo anche se si trattava di musica elettronica da cui adesso mi sento lontano. È stata una bella palestra.
K: A parte tutto è anche troppo facile fare interviste e dire: “Ah io ho ascoltato solo Sun Ra”.
Sono d’accordo. Come intendete il concetto di produzione musicale in studio? Che tipo di strumentazione prediligete e perché?
M: La cosa bella è che riusciamo ad essere complementari. Nel mio piccolo mi sono continuamente informato sulla produzione, e penso che non finirò mai, questa passione morirà con me. In studio possiamo lavorare anche solo con un MPC e quattro campioni e riusciamo lo stesso ad essere creativi. L’origine dei suoni è sempre da macchine hardware. Spesso lavoriamo in diversi modi in studio, sia con il computer con Cubase, sia attaccando le macchine in catena e registrando lunghe sessioni di queste macchine per poi editarne un po’ il risultato. Il M>O>S per esempio è stato fatto così. Negli anni io ero partito da un approccio più hardcore, l’idea dell’analogico puro, cioè cose elettriche e poco elettroniche. Mi sono dovuto ricredere nella misura in cui ci sono delle tecniche di sintesi a partire dalla FM (modulazione di frequenza) e delle macchine che si erano sviluppate in un periodo d’oro dell’elettronica, che pur digitali sono irrinunciabili e con un suono bellissimo. Alla fine della fiera ho uno studio ibrido, digitale e analogico, però composto di macchine. Se abbiamo dei pomelli siamo più contenti, nel senso che la cosa divertente è vedere Stefano in studio che con la mano va verso il pomello e in fin dei conti si gioca, è un approccio decisamente più ludico. Non nego quell’aspetto. E poi le macchine, almeno quelle che amo usare, sono piene di limiti e trovo che la cosa aiuti creativamente. Di software, ce ne sono di buonissimi, ma troppo estesi, quasi illimitati, e non fanno per me, anche se c’è chi li sa usare molto bene.
K: L’esempio che faccio sempre è quello del Morphine 004. Quella traccia è stata fatta con dei plug-in e se tu senti quel disco o lo fai ascoltare, chiunque si fa quattromila seghe pensando all’analogico. Questo per dire che è molto più importante ciò che riesci a dare tu in più rispetto alle macchine che usi. È chiaro che se hai buone macchine la qualità è differente ma anche la manualità dell’hardware. Come comprare vinili o mp3, è un po’ la stessa cosa. I vinili sono un qualcosa che ti rimane dal punto di vista fisico, più riconoscibile e gestibile in diversi modi. Di fatto però il contenuto è lo stesso e si chiama musica aldilà di tutti i discorsi che si possono fare sulla qualità del supporto, ognuno poi sceglie come meglio crede a seconda delle proprie esigenze. Ci sono lati positivi e negativi in tutto, l’mp3 non è certo un supporto che amo però in alcuni casi risulta comodo (in vacanza, in auto, sull’iPod).
M: Io credo molto nei limiti. La creatività, l’originalità per me hanno bisogno di non avere libertà assoluta che sta nell’usare quei pochi strumenti che possiedi. Le macchine agevolano questo, e in generale per me non hai bisogno di caricare sessanta effetti per ottenere quel suono in particolare, lo fanno loro, e ti semplifichi la vita.
Qual è invece il vostro approccio al remix?
M: Noi sul remix siamo sempre stati molto titubanti.
K: Non li amiamo al 100% però alle volte possono stimolare. In generale c’è la curiosità di farlo, poi però nel momento in cui lo fai ti manca quella creatività che potresti avere se la cosa fosse solo tua.
M: Se tu li senti però, rispetto agli originali, la cosa che cerchiamo sempre di fare è di andare in direzione opposta a quella per cui nasce il pezzo in origine. La traccia originale di Virgo Four per esempio è un classico pezzo nel loro stile con questa 707 molto asciutta, con molta melodia, noi al contrario abbiamo fatto un pezzo broken beat stando un po’ distanti dall’aspetto sintetico degli arrangiamenti. Per John Heckle è venuto fuori un pezzo che strizza l’occhio a una certa house percussiva di Ron Trent con un basso funky e dei paddoni, con dei giri vagamente Brazil, la traccia originale è invece un po’ nervosa con un take dal vivo.
L’EP “Soul Hell” è stato rilasciato sull’etichetta di Amsterdam, Dekmantel. Come siete entrati in contatto con il circuito olandese?
K: Ci hanno contatto su Facebook semplicemente. Loro in realtà, a quanto hanno detto, ci seguivano da un po’ di tempo e avevano apprezzato il fatto che non fossimo usciti su tante etichette o comunque con non troppa frequenza. Questa è una cosa che io ho sempre pensato, rimanere un minimo esclusivo. A fare troppe release stufi te stesso e chiunque anche se magari può risultare più funzionale per gigs etc.
Remix ed etichette di questo calibro vi hanno dato una maggiore visibilità a livello europeo?
K: Sì, è importante ma dipende da noi. Non abbiamo dato continuità perché facciamo altro nella vita, abbiamo perso alcuni treni perché vogliamo fare ciò che ci piace senza scendere più di tanto a compromessi. È importante riuscire a dire no alle volte. Qui a Torino abbiamo suonato poche volte come duo ma devo dire che siamo riusciti a prenderci delle belle soddisfazioni. Prima come “Kinda Soul Sessions” e “Kinda Sundays” poi con i ragazzi di Bounce FM si sono create delle belle situazioni, quantomeno diverse da buona parte del resto. Per esempio Volcov era un ospite che ci piaceva invitare spesso.
M: Io trovo che oggi i grandi festival si legano spesso e volentieri a una serie di promoter che durante l’anno fanno delle serate per garantirsi l’afflusso di quella cerchia di persone. Io e lui da questo punto di vista siamo più svantaggiati per via degli impegni e responsabilità lavorative e famigliari. È anche vero che non la mandiamo a dire, abbiamo avuto qualche screzio per questo. Sarebbe importante secondo me che chi crea questi grandi eventi riuscisse a dare un occhio non solo a chi in città anima la scena organizzando le serate, ma cercando anche di offrire spazio e visibilità alle etichette, agli artisti, che non riescono ad agire come puri promoters.
K: In Inghilterra, Olanda e Germania, tutto va di pari passo con il tipo di musica proposta così le scelte dei warm up. Qui si tende a coltivare il proprio orticello e cercare di tenerselo stretto, si seguono le mode e secondo me si è meno personali. Spesso il warm up viene fatto da djs “porta gente” senza cercare di creare il giusto flusso tra un dj e l’altro. Si curano meno certi aspetti, questo è sicuro. Il concetto di warm up, è un concetto che a Torino non esiste.
M: Fammi menzionare i ragazzi di Bounce FM però, giovanissimi rispettosi e capaci di creare con il nostro contributo, e di Stefano in particolare, delle serate fantastiche. Poi chiaramente evviva i festival perché possono anche succedere cose strane e quasi magiche. Una delle prime sere che siamo usciti insieme, siamo andati a sentire Theo Parrish al Club To Club. Avevamo un pass per accedere all’area backstage e ne abbiamo approfittato per “acchiappare” Theo e scambiare due parole. Era un po’ provato, e quindi gli abbiamo chiesto “Vuoi che ti portiamo in albergo?”. Lui ha risposto di sì. Abbiamo passato quattro ore in macchina, una chiacchierata assurda, gli abbiamo fatto sentire le prime tracce che facevamo sull’autoradio e lui ci ha anche dato dei feedback del tipo alza qui, abbassa lì. Io ero in lacrime, lui anche dietro, e ci siamo fatti questa prima serata benedetti da questa presenza incredibile.
K: Lui in quel momento vagava senza una meta. Ad un certo punto è come se ci fossimo riconosciuti. Per quanto riguarda le realtà italiane menzionerei il Disco Volante a Brescia e il Roots Corte Radisi a Verona, dove la cura per il soundsystem era maniacale e quindi adatta ai generi proposti, lì ho vissuto le migliori serate degli ultimi anni. Devo dire che, nel nostro piccolo, anche le nostre prime feste all’Imbarchino o quelle successive al Bunker rimarranno un ricordo indelebile
M: Spesso e volentieri dietro questo genere di cose e realtà c’è bella gente, ti potrà sembrare una cosa un po’ paracula ma è così.
K: L’interessante di questa cosa è proprio quello, sapersi scegliere un ambiente, che trovi più consono al tuo modo di vivere.
M: Esiste un dj con la sua valigia, la sua selezione e la sua tecnica. È un atto di artigianato. Quello ha un valore. Io quando ero un ragazzino se c’era uno bravo ne ero affascinato, lo stavo a guardare, per me era una magia. C’è molto di umano che rende poi bello il fatto di essere un dj piuttosto che afflosciarsi sull’uso del sync.
K: Però che per chi arriva dall’esterno capisci che tutto può sembrare uguale.
M: Il dj faceva parte di uno show affascinante. Osservandoli sono sicuro che a molti sia poi venuta voglia di approfondire e poi anche la voglia di farlo in prima persona. Se vedi uno che non fa niente, cosa fai? Ti droghi?
K: Per creare un bacino interessato a ciò che tu vuoi proporre ci deve essere dietro un lavoro che va al di là della bravura di un dj. All’interno di una serata in un campione di persone ci possono essere degli appassionati che guardano ogni titolo di ciò che metti, altri che amano ballare senza tanti pregiudizi e poi ci sono quelli che vengono per divertirsi con un altro livello di percezione. Purtroppo da organizzatore serve un po’ di questo e un po’ di quello. Alle volte non ti puoi basare su trenta appassionati devi andare oltre, cercare di stimolare anche le persone meno interessate all’aspetto musicale e creare un ambiente che possa stimolare l’immaginario di ognuno.
M: Io sto dalla parte degli appassionati. Secondo me la droga è un problema che toglie più di quello che dà. Un buon disco mi fa andare in uno stato di estasi profonda punto e basta. Ahimè non credo sia universale come processo, c’è chi ha bisogno di sbloccarsi per sentire certe cose.
Stefano, perché hai deciso di creare la tua piattaforma, la Kinda Soul Recordings? Soprattutto, è ancora attiva?
K: É un meccanismo in cui entri, è una cosa di cui hai bisogno, ho deciso di continuare e aprire un mio progetto. Adesso è un periodo in cui l’etichetta è in standby, sto cercando di ragionare, ho avuto anche delle offerte abbastanza importanti di distribuzione. Non ho rifiutato categoricamente ma ho bisogno in questo momento di essere indipendente e fare mente locale. Le mie idee sono di rilanciare Kinda Soul che di fatto è ferma da un anno e mezzo, e magari ripartire con una nuova label. Adesso è un periodo in cui tutti e due siamo occupati. Alle volte credo sia bene fermarsi un attimo e pensare, capire dove puoi fare delle correzioni e soprattutto dove puoi trovare nuovi stimoli. Non è un mondo facile.
Nelle vostre attività come in altre, è questo il segreto per riuscire?
K: Siamo in una fase della vita in cui per me il negozio di dischi, e gli aperitivi vegani che faccio con la mia compagna (The Hidden Records and Food) dove faccio selezione di musica sono una base strutturale che ho/abbiamo voluto creare. Non posso pensare di fare il dj e basta a vita. Soprattutto perché il dj e basta nel vero senso della parola non l’ho mai fatto. Sicuramente è una cosa che voglio continuare a fare. Per me al momento ci sono delle priorità: la famiglia e il negozio di dischi online. Non ti nascondo che il mio sogno fin da ragazzino era quello di avere un negozio fisico. Non è detto che un giorno non possa accadere. A causa della crisi e dell’avvento del digitale tanti negozi negli anni passati hanno chiuso ma ora sembra che l’interesse per il vinile sia tornato.
M: Nel frattempo non siamo rimasti sempre gli stessi, siamo cambiati io ho ascoltato molta più musica e lui anche, e se tu senti le nostre release che, sono meno di dieci, ci sono cose in comune ma abbiamo fatto tracce a 100 bpm, tracce più spezzate, più “mellow” come “Detrance”.
K: Parrish aveva detto che il grande dj suona prima di saper suonare i grandi classici. Anche se si riferiva ad un periodo storico differente, tu suonando in una balera di campagna con della gente che non c’entra niente con te, se fai ballare anche quelle persone lì, vuol dire che sei capace a fare il dj.
Idealmente con chi vi piacerebbe collaborare?
M: Abbiamo inteso sin qui la nostra collaborazione in maniera esclusiva e viviamo la produzione in studio molto intimamente.
K: Dipende un po’ dal caso sicuramente ci piacerebbe collaborare con alcune realtà a noi vicine. Per esempio quella spagnola intorno alla Downbeat Records, con Jose Rico, Alfonso Pomeda. Come duo bisogna riuscire anche a mantenere un equilibrio e quindi è molto importante creare questa empatia tra di noi prima che con altri. All’interno di tante dinamiche, il mio lavoro e il suo, la famiglia e altre situazioni è fondamentale riuscire a mantenere questo equilibrio su cui abbiamo lavorato negli ultimi due anni, vedi anche fare i dj insieme, all’inizio non è stato possibile ma abbiamo sempre sentito la necessità di provare ad imporci come duo, cosa non facile. Ci stiamo lavorando, il progetto K&M è insieme.
M: É più divertente essere in due. In generale nella vita. Anche se lavoro in studio da solo, chiedo sempre a lui un parere e poi continuiamo insieme.
K: Le nostre influenze possono essere molteplici, poi da lì ci devi mettere del tuo, ma è anche ovvio che da qualcosa devi partire. Lo stesso Theo Parrish non arriva dal nulla, ha avuto anche lui le sue influenze come Ron Trent, se tu senti i Prescription, lì senti da dove arriva, chiaro che non risulta essere la sua unica influenza. Lui è riuscito meglio di tutti gli altri ad aggiungere la sua “signature”. Non c’è un’introduzione, una regola. La sua potrei definirla free house per fare un parallelismo con il free jazz, cui si è oltretutto ispirato.
M: Grande insegnamento di tutta quella scuola lì. La cosa bella era ascoltare certe edit che fa Parrish, montando sui pad dell’MPC piccoli frammenti del pezzo in questione. Senti cose fuori tempo che si accavallano in maniera strana, senti che è un processo creativo quasi istintivo. Il bello è che sono cose che poi pubblica. Con Stefano per esempio è stato bello inseguire quel modo di fare musica, togliendo molta effettistica che ero solito usare, tipo riverberi e delay e a cercare un approccio più essenziale e scheletrico nella composizione.
K: Non ci sono regole fisse. Un’esperienza importante che avevo fatto è sul masterizzare le tracce. In alcuni casi una traccia cambia con il master. Noi non abbiamo fatto i master delle tracce perché non volevamo all’inizio, ci piaceva un certo tipo di suono e continua a piacerci. Alcune volte si perde il “feel” originario. Purtroppo in un ambiente grosso, un club da 1000/1500 persone, un disco non masterizzato lo senti, ma fortunatamente non sempre la musica viene fatta solo ed esclusivamente per locali grossi o per un pubblico vasto.
M: Theo Parrish ci disse che produrre una traccia non è solo “come” il Kung Fu, è proprio Kung Fu vero. Produrre è stare su quello che stai facendo fino a che non lo porti a termine. L’idea del finalizzare le cose è un grande insegnamento. Saper gestire la libertà e la creatività che non è da tutti e fa la grandezza degli artisti.
Ora guardando al futuro, a cosa puntate per il 2015?
M: Ripartiremo in studio e faremo cose! É un dato di fatto.
K: Sì, faremo almeno un’uscita.
Album in vista?
M: Ci pensavamo anche noi!
K: Il pensiero c’è. Probabilmente ne riparliamo nel 2022. Scherzo! Io tecnicamente da Febbraio sarò più tranquillo.
M: Io invece il 19 Febbraio parto con la distribuzione di questo film, The Repairman che ho prodotto e nel quale recito. È un film indipendente, non sarà in molti cinema ma speriamo comunque di fare buoni risultati. Un’impresa che mi ha tenuto lontano da Stefano.
K: Quest’ultimo periodo è stato positivo però perché ci siamo concentrati più sui dj set che dovevamo affinare. L’idea è di fare sicuramente qualcosa, con l’esperienza che abbiamo vissuto e accumulato.
M: Io ne ho molta voglia! Anzi a me non passa, ho sempre la smania di giocare e ho trovato un gran compagno di giochi a trentacinque anni.
K: Tutto sommato abbiamo avuto un riscontro. Adesso è capire solo dove andare a sistemare un embrione che abbiamo già. L’idea è anche di strutturare un’etichetta. Ci piacerebbe fare delle edit, che è la musica che proponiamo spesso e volentieri. All’inizio erano due personalità che andavano a confluire su un progetto, adesso è diverso come dj e produttori si ragiona molto più come duo. È giusto aspettare e arrivare nel momento giusto, magari sarebbe stato prematuro fare un album tre anni fa, adesso abbiamo un idea più precisa su cosa vogliamo fare.