Incontriamo Cristiano Crisci (in arte Clap! Clap!, Digi G’alessio e tanti svariati altri moniker assurdi) l’indomani del suo gig al Kode_1, piccola e radiosa nuova entità della scena clubbing pugliese e (senza esagerazioni) dell’intero stivale, ed iniziamo la nostra chiacchierata fiume ascoltando il “Secondo Coro delle Lavandaie” di Roberto De Simone (fatelo anche voi, tornerà utile!). Cristiano non ha bisogno di presentazioni, parla per lui lo sterminato numero di produzioni confezionate durante gli anni, ma sembra che molti si siano accorti di lui solo in questa piccola porzione di tempo, quando è targato come “il nostrano Clap! Clap! alla Boiler Room”, quando il valore social sembra essere più alto del valore artistico.
Iniziamo parlando di questo tuo pezzo di tempo dalla fine del 2014 e l’inizio del 2015. È un momento molto importante per te questo…
Si, molto…
Un nuovo punto di partenza come artista. Come lo stai vivendo, come stai, come ti senti…
Mi sento molto soddisfatto perché dopo anni e anni e anni di ricerca e sperimentazione su cose folli che possono funzionare o meno per un orecchio semplice, mi sento molto soddisfatto dei feedback che sto ricevendo. La sperimentazione sul campionamento del worldwide, prendendo campioni da tribù e comunità della Siberia, Mongolia, Nord-Africa, va avanti dal 2004 e difatti “The Rain Book”, il primo demo di Digi G’Alessio, era fatto solo con campionamenti di tribe dal centro e centro-est dell’Africa, ed all’inizio ebbe seguito tra i followers, ma il nome Digi era sconosciuto e le cose non andarono troppo bene. Quindi poi ho spostato la ricerca su cose un po’ più inflazionate cioè funk, soul e tanto italiano (prendi i primi sei album di Digi G’alessio, c’è tantissimo Piero Umiliani, Piccioni e tanto pop ‘60/’70 o anche roba più sperimentale come Luciano Berio e l’elettro-acustica). Poi nel 2013, volevo ritornare un po’ alle mie radici e feci l’album “Ivory” per Lucky Beard Records come Digi e a me piacque tantissimo, ed ero felice, lo riascoltavo come un bambino. Feedback? Zero… zero mila lire… niente né positivi, né negativi… silenzio! Ed ero preso malissimo… allora ho provato a fare un pezzo trap con Phra “SSTIAAH!!” e boom, feedback a pioggia. Allora capii che se rimanevo sullo stile giocherellone di Digi le cose andavano, ma volevo sperimentare e allora mi dissi “faccio un nuovo progetto, in maniera tale che sia più centrato” e da lì è nato Clap! Clap!: feci il primo demo, lo mandai a giro, primi feedback e poi la pubblicazione su Origami Sound e da lì mi scrisse subito Gilles Peterson… e la cosa era strana perché era lo stesso materiale di “Ivory” (se lo ascolti ad occhi chiusi è Clap! Clap!, perché quella è la nascita di Clap! Clap!) e quindi ho contestualizzato tutto, chiamando anche Kovi (aka Kae, nda) mia grafica e migliore amica per studiare un concept e una volta trovato siamo partiti con Black Acre ed è iniziata la bambola.
Tocchiamo il tema della tua trasversalità e contestualizziamola all’interno di un mercato tremendamente repentino e mutevole come quello del gusto musicale. A cosa è dovuta questa scelta? Una ricerca motivata dal provare a vedere cosa va e cosa non, oppure hai cercato di esprimere le diverse anime musicali che ti contraddistinguono?
Più vicino al discorso delle diverse anime, ma non quello…è un sentimento che nasce quando fai musica da tanto tempo. Sono nato nella scena hardcore e la scena più punk fiorentina e ho sempre avuto tanti cambiamenti… dopo tanti anni ti rendi conto che è meglio se fai quello che senti di fare, è inutile andare dietro dei canoni e riproporre qualcosa che hanno già fatto (vedi tutte le copie in giro di Flying Lotus ed altri produttori, che son fatte anche bene ma se voglio quel beat, quel flow mi vado ad ascoltare Flying Lotus). Mentre… il cercarsi una personalità non è una cosa forzata ed è una cosa che fanno tutti gli artisti ovvero trovare uno stile che non debba essere studiato, cercato, razionale ma è una roba più emotiva… trovare un sound, interessarsi e cercare di rimodulare. L’idea iniziale di Clap! Clap! era quella di prendere i classici ritmi africani utilizzati per sostenere la fatica durante la costruzione di case e strade e riproporli in drum machine… qualcosa di terrestre, legata alla gravità del pianeta, alle vibrazioni. Ho provato ed il risultato è stato ottimo, e da lì ho deciso di evolvermi. Quindi, “Tayi Bebba”. Con Kae abbiamo deciso di dare una direzione anche grafica che dicesse Africa, ma in verità nell’album forse il 10% dei sample viene dall’Africa, il resto sono canti di pionieri siberiani e rumore d’acqua della Mongolia come in “The Holy Cave”, oppure percussioni del Sud della Russia e il risultato che arriva all’ascoltatore è: Africa. Ed è incredibile, perché dentro c’è il freddo, il ghiaccio, il Nord Europa, la Russia…
E quindi questo significa che siamo degli ascoltatori poco attenti…
No no, quello invece è l’esperimento ben riuscito. Dare un ritmo africano senza usarne troppo, ma risuonandolo. E se la gente ha sentito quello, per me significa esserci riuscito ed è una delle cose più belle ed emotive per la mia ricerca musicale.
Non voglio darti etichette perché forse non ti piacciono e sarebbe difficile potertene appioppare una definitiva e magari non sei nemmeno concorde nell’averne…
È un cosa che serve al mercato…esistono generi come la trap o la juke che son usciti fuori da una canzone e che tutti hanno copiato e da lì è partito un movimento, un genere. Anche se sono concorde con Miles Davis che diceva che etichettare i generi è la morte della musica, e c’aveva le sue ragioni per quello che faceva, capisco la necessità di un ordine di mercato per facilitare anche la ricerca musicale. Poi etichettare sé stessi o come vorresti essere etichettato, soprattutto quando produci musica molto variopinta, allora in quel caso qualche problema insorge…
Allora diciamo che ti poni nella “black music”.
Si, bravo, si…
Abbastanza scontato…
Almeno abbiamo diviso in due il mondo… black & white.
Da cosa deriva secondo te il basso attecchimento della black music in Italia? O meglio sembra sempre essere ristretta a piccoli circoli, che ora stanno allargandosi, ma che non hanno mai il titolo di mainstream? Può essere metafora di uno sguardo rivolto sempre verso il Nord del mondo, quello propositivo in termini di tutto e poco anche nei confronti del nostro patrimonio?
È quello che dicevo prima riguardo i campionamenti per gli album di Digi… non è che son nazionalista e ci metto roba italiana dentro, ma noi abbiamo un patrimonio artistico che magari viene sfruttato da altri e noi…monaaa. Prendi Umiliani che in America è considerato per quello che deve essere considerato e a Firenze, sua città natale, non gli hanno dedicato nulla… Oh ragazzi! Che scherziamo! Ma non voglio generalizzare, però anche in questo periodo di social networking è facile far tendenza con cose che sembrano funzionare meglio. Secondo me, la cosa più sana da fare è quella di girare, girare, andare fisicamente nei posti, viversi le culture e farsi un’idea di quello che piace o meno ma a sé stessi. In questa maniera trovi il tuo io musicale. Da noi la scena garage UK la vedi sempre tradotta in italiano, o la scena berlinese di adesso, la vedi tradotta ma è comunque un’altra cosa. Noi abbiamo la nostra scena e m’è sempre piaciuta nel suo piccolo anche se questa estremizzazione social sempre votata al dissenso tra le parti, ed io ci ho sempre litigato un po’ con questo atteggiamento, ti porta quasi a non farti un’idea personale ma soggetta a dare ragione all’uno all’altro, perdendo il senso della ricerca personale.
Viriamo su “Tayi Bebba” e ricolleghiamoci a Roberto De Simone. Nel 1976 De Simone scrisse “La Gatta Cenerentola”, partendo dalla Cenerentola di Basile, in cui la protagonista è Napoli, città figliastra e vittima degli invasori e il concept, la storia di “Tayi Bebba” è per molti versi simile ed anche i ritmi sono affini…
Incredibile…
Il tuo approccio alla produzione è fortemente sinestetico e produci con tutto (dai tronchi al fruscio delle foglie), quali sono state le motivazioni per quest’album e da cosa sei partito? Campionamenti worldwide come ci hai detto prima?
No no, c’è molto di vita quotidiana. Ho vissuto un anno a Torino a Porta Palazzo e lì c’è il mercato rionale più grande d’Europa ed io scendevo giù con l’SP o il registratorino o il cellulare e andavo in giro a fare la spesa, premevo REC e andavo. Tornavo a casa, scaricavo tutto, tagliavo e conta che il 20% dei sample presenti nell’album vengon da Porta Palazzo che è molto maghreb, molto Nord Africa, e lì cantano, suonano, si divertono anche sotto la pioggia o il freddo ed è vita quotidiana. Per quanto riguarda “Tayi Bebba” ho visto una cosa molto simile alla storia di De Simone, e non la conoscevo e questa cosa è stata un’illuminazione, ma il concept è partito in maniera diversa cioè dalla scrematura che Black Acre fece tra le tracce che avevo inviato per l’album. Loro chiesero tutto il materiale… gli inviai ottanta tracce che ci sarebbero voluti quattro giorni per ascoltarle e quindi scremature su scremature arrivammo a venticinque. Ma erano ancora troppe per me e chiedendogli un’ulteriore scrematura riuscimmo ad arrivare alle attuali diciassette. A mio avviso erano sempre troppe perché l’album sarebbe potuto essere molto pesante per un newcomer come me e quindi per invogliare l’ascoltatore ho pensato di scrivere una storia, affiancare ad ogni traccia un capitolo della storia che ho inventato, in maniera tale da creare un immaginario più attraente. E paradossalmente è davvero simile alla storia di De Simone… e per una settimana, ascoltando le tracce in loop ho partorito il concept, che alla fine è una storiella, niente di che, una favoletta per bambini…
Hai comunque voluto dare una base, una red line su cui far viaggiare l’album, dargli maggiore concretezza rispetto a tracce messe insieme così…
Eh, ma c’è il continuo… non volevo farlo in verità, però è andata talmente bene e mi son anche reso conto che con le nuove tracce potevano esserci altri capitoli e quindi scoprirete, senza svelarvi nulla, come continua la storia. E questa cosa, parentesi, era già una roba che avevamo in cantiere con Kae cinque anni fa quando volevamo fondare una label che producesse uscite a tre pacchi: prima l’album con i pezzi dell’artista, una volta definita la tracklist questa veniva inviata ad un gruppo di scrittori, ed al tempo erano interessati i Wu Ming quindi roba fatta bene, e gli scrittori, ascoltando le tracce, le nominavano e avrebbero creato racconti e storie. Una volta completata questa fase, il grafico/illustratore avrebbe chiuso il cerchio e si sarebbe prodotto il vinile con librettino e tutto il processo creativo sarebbe stato visibile. Ma per fare questa cosa o sei miliardario o hai chi ti sponsorizza, c’abbiamo provato, Flako era interessato anche i Wu Ming e magari sarà un sogno realizzabile in futuro e fortunatamente con Tayi Bebba ci siamo andati vicino, quindi sono molto contento.
In quest’album è facile notare una cifra stilistica molto personale, definita e decisa. Quanto credi potrà essere difficile, per un trasformista come te, riconfermare la stessa cifra in futuro? Cos’hai in mente? Ci aspetteremo ancora il worldwide Clap! Clap!?
“Ivory” fu un’uscita molto omogenea, nessuno produceva quel suono e questo mi piaceva, ma forse era troppo strana, tanto da essere stato cacato zero perché era il tempo della trap e quindi s’aspettavano bassoni da me, invece lì c’era cassa in flat, flautini e sample d’elefanti, animali…quindi magari troppo strana. Però conformata sempre di più ho acquisito uno stile singolare e questa cosa è stata meravigliosa. Ai tempi d’oggi però, e di questo ne soffrono anche altri artisti come Kae per il discorso delle illustrazioni e le varie copie che vedi in giro ricalcando lo stile, anche nel campo della musica, quando ascolti decine e decine di progetti simili e ti rendi conto che non sono una ricerca, ma una copia di quello che va, ti casca un po’ il mondo e ti fa dire “No ragazzi, però non così… un po’ di sincerità, un po’ di amor proprio”. Questo è anche il motivo per cui mi sto un po’ sradicando da questo stile singolare che mi ero trovato e sto ritornando ad innovare e ritornare allo sperimentale. Con i guanti. Sempre con i guanti, perché chiaramente è naturale che c’hai metà degli ascoltatori che ti seguiranno, altri che invece non capiranno il cambiamento. Ora sto cercando un compromesso tra queste due cose, rimanere sullo stile Clap!Clap! e dare delle nuove sonorità; infatti adesso sto virando su suoni più dancefloor, ballabili come alcuni in Tayi Bebba e li sto anche testando sulle dancefloor, soprattutto per i tempi che sto utilizzando. Non sto facendo i canonici 4/4 ma 6/8, 7/9, 5/4 cioè tempi fuori, roba difficile da mixare per un dj ma un pochino più sensati, sto sperimentando…
Quindi stai dicendo agli altri: “venitemi dietro”…
No anzi, agli altri dico buon ascolto e prendete le vibrazioni giuste. Poi haters gonna hate. Con Clap! Clap! va un po’ meglio questo discorso, con Digi ci sono sfilze di haters…
Ma credi che potresti mai staccarti da uno o dall’altro…
No, non è una cosa a cui do importanza minimamente cioè son cose che vengono così ed un progetto può anche morire. Ho una marea di side projects sconosciuti perché mi piace suonare tanto: con UXO c’abbiamo 5Y5, con Colossius, Braille Funk, ne ho tante e questo è anche la vita quotidiana… ci si chiude in studio, si suona e poi magari si farà uscire sotto chissà quale nome, poi a volte esplodono e altre non le caca nessuno, ma è relativo. Registrare un prodotto, quello che fai, da il senso dell’esserci, quello che viene dopo è un enigma… cioè viene dopo, altrimenti farei musica dance, techno e via: soldi e serate, ma non ha molto senso andare sul facile. Preferisco guadagnar meno e stare meglio con me stesso.
Quando ti guardo dietro consolle e vedo come ti dimeni, dimentico sempre che tu sei anche un sassofonista. Hai pensato per il progetto Clap! Clap! di poter fare un live strumentale…
No… non ce lo vedo. Anche se c’era qualche intenzione con alcuni musicisti come Andrea Benini dei Mop Mop e lui è un batterista che mi piace come suona e stiamo studiando un live insieme, solo che per fare una cosa del genere hai bisogno di stare insieme e trovare altri musicisti. Per quanto riguarda il sax, non mi piace mischiarlo… lo suono comunque con il mio trio con il contrabbassista e il batterista, facciamo standard jazz. Ma ci ho fatto tanto punk con il sax e con il Trio Cane e quindi lo vedo come strumento tra gli strumenti perché vibra, lo senti dentro e permette di esprimerti in altra maniera rispetto alla musica elettronica. È affine al discorso vinili, cdj e Ableton… stai sempre facendo un dj-set mixando della musica ma lo fai in maniera diversa e su questa cosa si fa un tanto parlare “Ah non sei un dj perché non suoni vinile”. Non è che non lo sei, la maniera è diversa. Con i piatti sei più sui tempi e sui passaggi, con il laptop giochi su effetti, mash-up in live e sono due cose separate e così per il sax.
Però ci riesci bene comunque…
Ci provo.
Boiler Room, Koko, Gilles Peterson, Bleep, Solid Steel…
Bombe a mano.
È questo quello che ti fa dire “sono arrivato”?
Nooo, sei uno su un milione… anzi sei uno dei tanti. C’è una buona dose di fortuna nel mezzo, perché essere apprezzato da certi pionieri del mondo è bene ma la roba gli deve arrivare. Ci sono un sacco di producer che fanno della roba meravigliosa e però sono in canali sbagliati e non riescono ad arrivare alle orecchie di certa gente. Te ne basta uno di queste orecchi e se la roba funziona, ti spinge. Poi è una cosa a catena. È come con le pagine social: hai più probabilità che ti mettano un like perché altri centocinquantamila lo stanno facendo, che non se ne hai cento…però per me la soddisfazione più grossa è il sold-out dei vinili. Il primo EP, sold-out in una settimana, ristampato in mille copie (e son tante per un vinile), sold-out e ora ristampate…così per Tayi Bebba, non fanno in tempo a stamparle che finiscono e questa è la soddisfazione più grossa perché le persone sono interessate, cercano e lo comprano il disco e ti mandano anche le foto con la stampa appesa al muro e li dici: “Grazie”. Sei soddisfatto. Boiler Room, Koko, sono dei mezzi in più…
Ma sai, te lo chiedo perché quando vedi in giro webzine e blog che idolatrano: “il nostrano Clap! Clap!” sta spaccando alla Boiler, mi sembra abbastanza riduttivo rispetto al percorso fatto per arrivare lì…
È così… come per la mia press kit mia che non viene mai letta… quando mi spingono o pubblicizzano, molte volte non scrivono cose davvero importanti e si focalizzano su altro come le collaborazioni, il che va anche bene ma ci sono cose anche più importanti per il progetto in sé. È chiaro che essere votato come primo mix su Solid Steel, e quest’anno lo hanno fatto tutti i più grandi, ti dà soddisfazione…però di fondo c’è un “italianismo”. Ho fatto la Boiler Room ed il giorno dopo sono arrivate una quantità enorme di mail da club e promoter e la cosa che più m’ha fatto ridere era che provenivano da italiani e basta. Quindi mi son detto “Oh ragazzi ma state li fissi davanti alla Boiler Room e aspettate che arriva qualcuno per poi contattarlo. Mi sembrate un po’ schiavi o meglio un po’ le pecorelle di queste persone che vi danno il bocconcino. E se ti mettono Pippo Baudo che ci fai il giorno dopo?” Fa un po’ ridere sta cosa. Quelli sono mezzi che ti aiutano per avere altri ganci, ma è il sold-out delle uscite o le ottocento copie dell’edizione giapponese fatte fuori in due giorni che ti fanno dire che sta funzionando… comunque mi ritengo fortunato ma non gli do troppa importanza.
Sei una persona mutevole anche geograficamente, giri molto e credo aver captato un senso di sconforto nei confronti dell’Italia e i club sembrano un po’ luoghi di detonazione di questo senso? Come la vedi tu dato che sei sempre in giro?
Ehhh… la vedo che dobbiamo contare un attimino con quello che ci è successo nella storia. Stiamo vivendo un momento di repressione pesantissimo, è nell’aria, si sente dappertutto non solo nei club, lo vedi nelle piazze. Già quindici/vent’anni fa la sentivi meno…la repressione che sento io è silenziosa e tra le peggiori che ci possano essere perché la gente o fa finta di non sentirla o cerca di non pensarci, ma ce l’hai addosso tutti i giorni qui…andare in un club è una maniera per non pensarci però non facendolo non ti rendi nemmeno conto di averla addosso, questa repressione, questo senso di sconforto…cioè non funziona nulla, paghi più di quanto guadagni, si fa fatica ad arrivare a fine mese e questa cosa traspare…e la vedo molto e ci faccio caso. E sì, anche se in un club vedo che “Vola Tutto”, tengo sempre in conto questa parte che dipende per una piccola parte da noi, però è anche vero che c’è meno protesta. È ovvio che quando esce il lato negativo si vede sempre tanto rispetto al buono e qui il discorso degli haters gonna hate. Ce la vedo la gente un po’ abbruttita gratuitamente, io compreso eh… poi in un periodo molto personale sono andato a Tambacounda, che è una piccola città del Senegal molto legata alle vecchie tradizioni, dove c’è solo capanne e dove trovi le mamme con i loro bambini, distesi, che passano il tempo a raccontargli le favole, a cantare e vedi che apprezzano la vita, si gustano il sole… e non voglio fare la parte del fricchettone ma in una società che ti schiaccia e tanto, giorno per giorno, perdi il senso di questa cosa. Se ogni tanto ci si dedicasse a sé stessi e alla vita e alla ricerca di un equilibrio magari riusciremmo a respirare e sfogarci. E nei club porto la mia musica, regalo dei pezzi della mia vita quotidiana che a me prendono bene e cerco di far prendere bene anche gli altri.
Quanto avanti programmi il tuo futuro?
Zero, non ho aspettative e desideri particolari… pensare troppo al futuro mi mette ansia e mi incasina e cerco di vivere il qui ed ora, faccio questo adesso e il giorno che non andrà più troverò qualcos’altro che mi faccia stare bene nel mondo.
Hai 5 album storici o tracce che t’hanno segnato, formato, da condividere con noi? Anche se il tuo background musicale è abbastanza sconfinato e quindi sarebbero anche ridotti 5 posti.
Allora l’Orquestra Afro-Brasilera con l’omonimo album e quindi tutto il lavoro di Abigail Moura che è un compendio degli strumenti africani portati durante le deportazioni degli schiavi e mischiati con le varie anime del Sud America. Mi viene da rimanere in Sud America dove c’è tanta gente che ha fatto robe meravigliose a partire da Marcos Valle e Pedro Santos con la canzone “Aqua Viva“. Posso metterti Sun-Ra e “Space Is The Place”, nel funk Roy Avers e Gil Scott-Heron per i messaggi che hanno regalato e la repressione sfogata in musica e l’album “I’m New Here” che è un requiem. Nell’elettronica ti dico “Richard D. James Album” che m’ha fatto fare il salto dal punk e dal sax e mi ha segnato tanto e credo non solo a me, ma la storia della musica. Mi piacciono molto anche gli esperimenti di John Baker e di Raymond Scott tipo “Manhattan Research Inc” fatto con modulari autocostruiti da lui negli anni ’60 ed è una roba mammamia e potrei continuare fino a cinque milioni…
Ascolti a 360°…
Si perché ti forma molto e cerco di andare nel profondo e ascoltare robe che abbiano un messaggio che non è direttamente decifrabile ma ci devi mettere un po’ per risolverlo, un po’ come il cubo di Rubik… quando lo vedi risolto e dici “Che Bellezza”.
Medium Five, fist-bumps e chiudiamo in Burbuka.