Four Tet, like. Underground Resistance, like. Jamie xx, like. Aphex Twin, like. Like, scroll, like, scroll, like…
Un mio contatto Facebook in un post aveva scritto una cosa tanto semplice quanto vera: la maggior parte di noi usa inconsapevolmente i propri social network come un feed reader personalizzato.
Nel nostro personal network c’è quello che condivide link utili e da conservare, quello che scova sempre posti interessanti che prontamente ti rivenderai per un’eventuale uscita, quello che legge i siti giusti, quello che sembra avere una cultura musicale sconfinata. Conoscitori, intenditori, influencer, chiamateli come cazzo vi pare. Sono i “nuovi” modelli da seguire.
Nell’atto pratico però è tutto diametralmente opposto: tutti noi perdiamo di vista le cose probabilmente più interessanti, che per noi significano i titoli sconosciuti, gli artisti che non abbiamo mai scoperto, il genere che non abbiamo mai approfondito. Andiamo sul sicuro, non nel senso che ci fidiamo particolarmente di qualcuno, ma più precisamente nel senso che ciclicamente mettiamo like alle stesse cose. Tralasciamo quello che invece dovremmo prendere più in considerazione, il gusto delle persone che seguiamo e di cui scegliamo di circondarci. Non diamo più peso al piacere di scoprire qualcosa di nuovo.
I servizi come Spotify hanno reso tanto utili quanto monotone certe dinamiche, alcuni algoritmi – quelli che dovrebbe scovare per te la tua prossima canzone preferita – hanno reso tutto più triste, asettico, automatico. Come potrebbe infatti un legame ragionato sostituire il piacere di associare una scoperta ad un volto, un momento, un sapore, una delusione, un flirt o molto più semplicemente un’emozione?
É la conseguenza del like impulsivo/compulsivo? La ricerca assoluta del colpo a sorpresa nel prossimo scroll e quindi il totale disinteressamento per l’approfondimento? O semplicemente il fatto che i social comunque sono anche pieni di tanta robaccia? La cerchia che ci siamo costruiti, il feed di cui parlavamo prima, alla lunga sta diventando quello che ormai sono le newsletter: aspettiamo notifiche di cose che dovrebbero piacerci, ma non guardiamo mai il loro contenuto. Stiamo inconsapevolmente diventando ignoranti, come sottolinea questo pezzo di approfondimento del Guardian. Ma ci sarà sempre una parte di curiosi, è inevitabile, non stiamo facendo di tutta l’erba un fascio.
Allora tutto questo in che tipo di dinamica rientra? Siamo schiavi del personaggio che ci siamo costruiti? L’avatar che spesso si sostituisce anche alle personalità più forti tra di noi: condividiamo solo quello che sappiamo piacerà? Cosa condividiamo realmente? Lo facciamo per apparire sofisticati, intenditori… più interessanti?
La navigazione segreta di Spotify alla fine è diventata il paravento con cui nascondere i vari Ligabue, Vasco Rossi & co. che tutti noi da qualche parte ci portiamo dentro. Stiamo quindi giocando al sicuro, non rischiamo e il like non è più l’imposizione del nostro io digitale ma un simbolo inutile che non dichiara una scelta ma solo appartenenza.