Parlare con Robert Hood è un’esperienza bellissima. La voce calda, avvolgente. La sua attenzione e il rispetto nei confronti dell’interlocutore che puoi avvertire in ogni singola sua sillaba… Lontano mille miglia dal modello del dj americano un po’ saccente e scettico nei confronti dell’Europa, così come da quello che vive solo nella sua dimensione e non prende più di tanto in considerazione chi non ne fa parte. Ma al tempo stesso, Robert Hood è profondamente carismatico, incredibilmente carismatico. Lo è per la sua storia (la minimal techno è faccenda sua, almeno dieci anni prima che a Berlino qualcuno iniziasse e parlarne e a farne un marchio innovativo), lo è per il modo in cui si pone: poter avere la fortuna di chiacchierare con lui, con un minimo di calma, è sempre un’esperienza intensa. Come intensi sono i suoi set: e se ad esempio il primo agosto sarete da parti inglesi, visto che d’estate molti hanno la fortuna di andare a zonzo, non perdetevi l’Eastern Electrics e il set di Hood (per l’occasione, con lo storico alias Floorplan). Ma intanto, buona lettura. E sarà davvero buona, credeteci: perché in questa chiacchierata ci sono tanti concetti importanti, tanti concetti veramente preziosi e sentiti.
Guarda, se ti va mi piacerebbe iniziare questa nostra chiacchierata tornando ai tempi di “Wire To Wire”, parliamo di più di dieci anni fa. Visto dall’esterno, è stato veramente un punto di svolta: fino a quell’album eri un artista prolifico, con uscite a getto continuo, quella release tra l’altro usciva anche per la Peacefrog – che all’epoca era una delle etichette “ammiraglie” nella scena elettronica. Insomma, c’erano tutti gli elementi per aumentare ancora di più i ritmi e raccogliere sempre più soddisfazioni, battendo il ferro finché era caldo; invece, da quel momento in poi, hai improvvisamente rallentato. Come se qualcosa si fosse, in parte, inceppato.
E’ del 2003, “Wire To Wire”. Era un periodo strano. C’erano molte cose che cambiavano, ecco: prima di tutto il mio trasferimento da Detroit all’Alabama, certo, ma ti dirò, quello non era nemmeno il fattore decisivo o almeno non l’unico. Perché proprio in quegli anni il mondo della distribuzione discografica iniziava a cambiare drasticamente: era entrato in campo il digitale, a stravolgere tutti gli scenari. Lo stavo percependo, lo vedevo. E quindi, ho ritenuto necessario fermarmi un attimo – per poter osservare, come dire?, dall’esterno quello che stava accadendo. Osservare, e riflettere. Ma questo non riguarda solo le questioni legate alla distribuzione e commercializzazione della musica, perché tutti questi cambiamenti stavano in realtà influenzando anche la musica in sé: anche lì, volevo riordinare le idee. Sentivo che dovevo mettere sotto esame cosa era in quel momento il mio suono, la mia visione, la mia identità sonora. Quanto senso aveva. Ho chiuso lo studio. Non ci ho messo più piede per almeno un anno e mezzo, forse due.
C’era qualcosa che non andava nella musica che stavi facendo in quel momento, quindi?
In parte sì. Sarò onesto: qualcosa era davvero valido, era potente come doveva essere, non voglio insomma dire che quando stessi facendo in quel periodo fosse tutto pessimo. Anche in quel periodo di grande confusione, sia mia che della galassia musicale in generale, sono riuscito a fare delle tracce che reputo importanti. Non era tutto da buttare via.
Ma…
Ma, vero, mancava qualcosa.
Cosa?
Lo spirito della vera techno. Lo spirito della vera musica house. Erano anni strani, quelli… Succedeva tutto troppo in fretta, sai? Il rischio per molti è stato proprio quello di non capire quanto fosse importante proprio in quel momento rallentare, fermarsi, riflettere su stessi. Oh, sia chiaro, erano comunque in molti quelli che cercavano con grande dedizione e coscienza di lavorare creativamente nel modo giusto, ma è innegabile che fosse un periodo, ecco, complicato. Portatore di grande confusione.
Ehi. “Lo spirito della vera techno”. Ora però me lo devi definire, questo spirito.
Uhmmm… Lo spirito della techno… Come posso definirlo? Wow. E’ complicato questo. Wow… Lo spirito della techno… Ci devo pensare un attimo, sai. Non è qualcosa di semplice da spiegare a parole. Ci sono molte emozioni e molti elementi sovrannaturali che si accompagnano al produrre techno: non è come produrre semplice musica dance, non è come produrre EDM, c’è molto gospel, molto soul, c’è molto approccio sperimentale – tutto questo mescolato assieme. Lo spirito della techno… Ecco, ci sono: per me lo spirito della vera techno è Berry Gordy che incontra Salvador Dalì.
Definizione bellissima!
E’ la migliore che mi viene in mente. Credo riassuma bene cosa debba essere la vera techno.
Techno che oggi è tornata prepotentemente di moda, dopo che per anni è stata considerata una musica poco appetibile, poco attraente.
Vero.
Quali sono i rischi in tutto questo?
Ora che la techno è così fortemente di moda, più che mai dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al nocciolo della questione, ignorando tutti gli elementi non necessari attorno ad esso. Chi ha 40/50 anni oggi, sa benissimo qual è questo nocciolo; io credo che per le generazioni più giovani sia molto salutare capire cosa fosse la techno al momento della sua nascita e del suo sviluppo, ovvero tra la metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Molto salutare, molto. Se guardi alle radici di un’entità, puoi arrivare a conoscerla nella sua forma più pura. Poi, successivamente, puoi unire i puntini, puoi navigare con più sicurezza e consapevolezza in quelle che sono le successive evoluzioni. L’importante è che sia chiara una cosa: la techno è una cultura vera e propria. Ecco, negli anni della grande confusione – quella di cui ti dicevo – penso che questa certezza si fosse un po’ annacquata; un po’ quello che è successo anche all’hip hop che da un certo momento in avanti, con troppa attenzione improvvisamente dedicata ad elementi superficiali. Sia come sia, il mio consiglio se si vuole rispettare la techno è: mai essere troppo “comodi”, ricordarsi sempre che bisogna evolvere, elevare, spingere i limiti sempre più in là (avendo ben presente da quali radici si parte). La techno è nata così, è in questa attitudine che risiede il suo DNA.
Mi viene da chiederti la tua opinione sull’hip hop odierno…
Credo che sia, come dire, una forma d’arte perduta. La “golden age” non c’è più. La musica che sento alla radio e in televisione la trovo vuotamente spettacolarizzata. Non sento A Tribe Called Quest, non sento Gang Starr, non sento Nas… non sento niente del loro spirito, in quello che gira oggi. E’ giusto che un genere musicale si evolva, assolutamente, ma deve essere sempre visibile una linea rossa che lo colleghi alle sue fondamenta migliori.
E questo non succede.
Nell’hip hop assolutamente no. E’ tutto un bling bling. Peggio: è tutto un copiarsi reciprocamente. Io sono cresciuto negli anni ’70: anni in cui se tu guardavi i brani in classifica vedevi che ognuno aveva il suo suono, ognuno! Marvin Gaye era molto diverso da David Bowie, capisci cosa intendo? Essere scambiato per qualcun altro era la cosa peggiore che ti potesse capitare, era un’onta!, c’era la gara a sviluppare il suono più personale possibile. Ecco: mi pare che oggi manchi questo. Oggi tutti tentano di copiare il suono vincente del momento, quello che pensano funzioni – o che funzionerà a breve.
Per quanto riguarda la techno, invece, l’America ha imparato a capirla? Onestamente, per un sacco di tempo il posto al mondo dove la techno era meno compresa ed apprezzata pareva essere proprio la nazione che le aveva dato vita, gli Stati Uniti. Era paradossale che la techno fosse compresa ed amatissima in Europa, e non in America. Oggi com’è la situazione?
Oggi invece la capiscono. La “sentono”. Anche in un posto come New York, per dire. C’è voluto un po’ di tempo, la situazione era per anni insomma un po’ così, ma oggi c’è una nuova generazione di dj che è stata in grado di educare il pubblico nel modo corretto e con grande efficacia. Davvero, a New York oggi la situazione è buona come mai in passato. Detroit? Lo stesso. Chicago? C’è una scena fantastica. Lo vedo nelle facce delle persone, sai: non tanto come ballano, come si muovono, ma le loro facce. Io quando suono guardo le persone con attenzione: è dai loro volti più che dai loro movimento che capisco quanto sono “entrati” in quello che sto facendo. Insomma, negli Stati Uniti ora la situazione è molto buona, magari non ancora a livello dell’Europa ma vedo dei margini di miglioramento – perché finché continuiamo a dare il giusto cibo per la mente, il giusto suono, le giuste nozioni, questa crescita non potrà che continuare. Una crescita sana. Nelle scorse settimane sono stato a Seattle, sono stato a San Francisco, e ti posso dire che oggi lì la techno viene accolta come mai era stata accolta in passato.
Perché c’è voluto così tanto tempo?
Ti posso dare la risposta che riguarda me, ti posso parlare di cosa facevo io e delle mie responsabilità: e ti dico che quando ero nella mia fase di “dubbi” su cosa stavo facendo, sul mio suono, sulla mia visione, è perché stavo dando alla gente alcuni elementi sani della techno e altri invece non del tutto appropriati. Ascoltami, è come quando si è genitori: se tu personalmente stai attraversando una fase insicura della tua vita e non sei bene sintonizzato sui tuoi valori più profondi, non potrai mai educare bene i tuoi figli. Mai. E’ matematico. Con la techno funziona uguale: quando i suoi padri sono in forma va tutto bene, quando vanno in giro ad offrire un messaggio diluito ed impuro perché loro per primi non si sentono sicuri di se stessi la situazione peggiore. Quindi ecco, ti posso dire che se negli Stati Uniti c’è voluto tempo per far arrivare il vero messaggio della techno e la sua vera forza, uno dei colpevoli sono sicuramente anche io. Ma ripeto, parlo per me. Non giudico assolutamente nessun altro.
Hai mai pensato di lasciare l’Alabama e tornare a vivere a Detroit?
Sì. Con mia moglie ne parlo sempre più spesso. Mi manca Detroit: Detroit è la mia casa, e lo sarà sempre. Non so cosa succederà in futuro, ma una cosa è certa: per Detroit e la sua gente da parte mia ci sarà sempre solo amore. C’è qualcosa di speciale, nello spirito di quella città. Voglio fare qualcosa per lei, lo voglio fare sempre, continuamente. Credo che al momento la cosa migliore che possa fare, per lei e la sua musica, è prima di tutto essere un esempio. Poi, esserne ambasciatore: raccontarla, ma soprattutto far “respirare” quanto è importante la sua attitudine sempre rivolta verso l’innovazione, verso il futuro. La cosa che più mi riempie di gioia è sapere che qualche giovane ragazzo di Detroit possa vedermi come un’ispirazione nell’essere sempre in movimento, con un obiettivo puro, non corrotto e sempre rivolto verso l’evoluzione, verso l’andare avanti. Questo è il punto: la cosa migliore che posso fare per mia figlia, per la mia comunità, per la mia Chiesa, per la mia città d’origine è essere un esempio. Che questo accada a Detroit o nell’Alabama, è fondamentale che succeda sempre.
Però dopo tutti questi anni ti chiedo: non è che inizi ad essere un po’ stufo del girare sempre, aeroporti, alberghi, cibo-spazzatura…
(ride forte, NdI) Beh, ti mentirei se non ti dicessi che ogni tanto sì, ogni tanto mi sembra di averne avuto abbastanza… Ma io sono profondamente innamorato di quello che faccio, del talento che ho avuto in dono. Il mio dono è mettere le mie mani sui giradischi e sui cdj e suonare per la gente, vedere che si illuminano. E’ una sensazione bellissima, incredibile, e lo è ogni volta. Cerco di concentrarmi su questo: prendere dieci, quindici voli al mese, passare ogni volta i controllo di sicurezza, dormire in camere d’albergo anonime ok, non è il massimo, in più il mio corpo invecchia e non ho più la resistenza di un tempo, ma assolutamente nulla è paragonabile alla gioia che mi provoca il fare quello che faccio di mestiere nella vita, nell’esatto momento in cui lo faccio.
Credo che un altro aspetto all’apparenza bello ma in realtà dopo un po’ logorante sia il fatto che quando arrivi in un posto tutti ti vogliono parlare, tutti ti vogliono salutare, tutti vogliono fare una foto con te, tutti vogliono poter avere una conversazione non importa quanto banale…
Vero. Ma questo fa parte del mio mestiere. Parlare coi miei fan, con chi segue la mia musica, guardare le loro facce, avere conversazioni di ogni genere – anche le più bislacche o superficiali: è una cosa che col tempo ho imparato ad apprezzare, e oggi sono felice di poterlo fare. C’è gente che mi segue fedelmente da anni, c’è gente che addirittura viaggia da una città all’altra per potermi sentire: questo lo apprezzo tantissimo. Il fatto che ogni tanto possa essere un po’ faticoso dover essere sorridente e disponibile con tutti è nulla rispetto al valore dell’amore che mi viene indirizzato, dell’energia che questo mi dà. Del resto essere un dj con un minimo di successo e rispettato il giusto implica anche aver a che fare con situazioni di questo tipo. Bisogna essere grati, non lamentarsene. Bisogna vedere il lato profondamente positivo: per me è un’opportunità poter incontrare persone da tutto il mondo, sentire come parlano, vedere come sorridono, respirare il supporto e l’entusiasmo che mi danno anche dal punto di vista umano.
Prossimi passi?
Il prossimo passo è sempre: alzare il livello. C’è una nuova release a nome Monobox in arrivo (un alias che cerco sempre di centellinare con molta attenzione), altre ce ne saranno a nome Floorplan, così come ovviamente alcune a nome Robert Hood. Sono ancora agli inizi. Il meglio, ne sono convinto, deve ancora arrivare.