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Mancavano giusto loro, all’elenco dei grandi eroi dance degli anni ’90 che sono tornati alla ribalta di recente: abbiamo rivisto, più o meno volentieri, i Daft Punk, i Prodigy e persino gli Underworld, era naturale che anche i Chemical Brothers si facessero rivedere con un vero e proprio album dopo cinque anni.
Ma com’è, questo “Born In The Echoes”?
E’ più simile a “Further”, che doveva essere un disco molto più orientato ai club e che col senno di poi mancava un po’ di personalità salvo alcuni momenti, oppure è più dalla parte di “Push The Button”, che era un disco molto più radiofonico e orecchiabile?
E’ un eccellente compromesso tra i due: c’è il singolone da radio, “Go”, che siamo sicuri avrete già sentito milioni di volte in giro e che non a caso vede la partecipazione della stessa voce di “Galvanize”, il sempre ottimo Q-Tip, ma c’è anche molto spazio per il lato più “Electronic Battle Weapon” dei due fratelli chimici, quello più chimico, più danzabile, più incendario: quello di “Sometimes I Feel So Deserted”.
Sbaglieremmo però se dicessimo che “Born In The Echoes” è una collezione di momenti slegati appartenenti a queste due anime, quella del club e quella del pop, che Ed e Tom hanno sempre cercato di coniugare, con alterne fortune: “Born In The Echoes” è anche e soprattutto una lezione magistrale su come si costruisce un album, equilibrando sapientemente i momenti in cui la musica pretende il centro dell’attenzione e quelli in cui diventa un sottofondo.
Intendiamoci: non ci sono tracce nell’album in cui l’attenzione cala per via della loro scarsa qualità, ma si tratta semplicemente della normalissima impossibilità di costruire un’ora di musica composta solo di tracce “protagoniste”: è necessario costruire un discorso organico e articolato per fare in modo che queste tracce risaltino e rendano al meglio, e per farlo servono quelle tracce che magari prese da sole sembrano un po’ prive di personalità, ma che nel contesto di un album sono assolutamente perfette per crearne la trama, quello che distingue un album da una collezione di singoli.
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E’ proprio a questo che servono, a nostro avviso, tracce come “I’ll see you there”, che molto probabilmente non uscirà come singolo ma che è assolutamente indispensabile a introdurre l’atmosfera di psichedelia della seconda metà dell’album, che poi culminerà con la traccia finale, la splendida “Wide Open” in cui ci si abbraccia tutti e persino uno come Beck diventa uno sciamano che canta cose romanticone: sarebbe stata ugualmente impattante dal punto di vista emotivo, se non ci fosse stata “I’ll see you there” molto prima a introdurre, sottilmente il mood, o “Radiate” a rendere estatica l’atmosfera?
L’impatto in-your-face di “EML Ritual” sarebbe stato lo stesso, se non ci fosse stata poco dopo “Just Bang” a fare da “richiamino” e proseguimento di quel groove secco e rotolante che era già iniziato con la traccia di apertura, “Sometimes I Feel So Deserted”?
Noi crediamo di no: crediamo che al di là del valore delle singole tracce, che già tocca livelli molto alti, il bello di “Born In The Echoes” sia che il tutto vale più della somma delle parti che lo compongono.
E a proposito di tutto diverso dalla somma delle parti, crediamo anche che sia notevole il modo in cui tutti gli artisti presenti nell’album contribuiscono ma in maniera leggermente diversa da quello che ci saremmo aspettati: di Beck si è già detto, ma anche Ali Love è molto più cupo e ossessivo e meno smaccatamente pop di quello a cui ci ha abituati, e lo stesso vale per St. Vincent, che sposta molto più in alto del suo solito l’asticella dell’”ipnotico”.
E’ anche in questo che si vede il talento dei grandi produttori, nella scelta dei collaboratori allo scopo non di far loro riproporre in maniera pedissequa quello che sanno fare, ma di sfidarli e sfidarsi a creare qualcosa di nuovo, di migliore.
Se dopo un paio di greatest hits (“B-sides vol. 1” e “Brotherhood”), un album “bello-ma-non-memorabilissimo” (“Further”) e un disco live (“Don’t Think”) si poteva pensare che Ed e Tom avessero perso la voglia di mettersi alla prova, “Born In The Echoes” è la conferma che invece, nonostante gli anni di carriera ormai siano ormai più di venti, sono ancora perfettamente in grado di uscire dalla propria comfort zone e di ottenere risultati eccellenti.
Certo, hanno il mestiere degli artisti maturi, quello che ti rende in grado di produrre autentici tormentoni come “Go”, ma gli è rimasta la voglia di stupire, di non andare avanti col pilota automatico magari spiazzando un po’ i fan storici, come quelli che avrebbero voluto cantare a squarciagola durante il loro live nuovo e che invece si sono visti sparire praticamente tutti i vocal, ma proprio i fan storici, come noi, li adorano anche per questo: perché sono tornati ma non per riproporre i soliti Chems, e ciononostante sono sempre splendidi, anzi, forse addirittura migliorano.
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