Paolo Alberto Lodde lo devi ascoltare e leggere tra le righe, sia quando parla sia quando nei panni di Dusty Kid ti fa ballare o ti racconta paesaggi sonori saltando dall’uno all’altro come fosse la cosa più facile del mondo. Con tre album alle spalle e un quarto in uscita a settembre è l’incarnazione di un musicista maturo e consapevole che ha (ma a dir il vero ha sempre avuto) ben chiaro sia il percorso sia l’obiettivo del suo cammino. Dopo la parentesi techno di “III” nel nuovo “Not So Green Fields” torna con successo al difficile compito di rendere in musica la sua Sardegna mescolando Morricone, trance e stilemi classici alla grande esperienza maturata sul dancefloor. Dopo aver letto questa lunga intervista dove abbiamo avuto l’occasione di parlare davvero di tutto arrivando addirittura alle ricette di cucina, per ridurre ulteriormente l’attesa, un’anteprima del disco è ascoltabile nel nuovo EP di tre tracce “The Arsonist” uscito il 27 luglio, contenente la splendida “The Arsonist Part II”, da giorni in loop su qualsiasi dispositivo mi permetta di ascoltare musica.
Dopo più di un decennio di carriera, quattro album e numerosi singoli, remix e EP, tirando le somme e con la conseguente maturità artistica, anche se so che non ti piace particolarmente definirti tale, chi è Paolo Alberto Lodde oggi?
Un musicista la cui musica riempie da sempre le orecchie e da 10 anni a questa parte un po’ anche la pancia. Insomma un musicista molto fortunato!
Brano dopo brano, album dopo album, il centro del tuo lavoro corrisponde sempre più al centro del tuo mondo, a quella Sardegna che ami e celebri in ogni tua opera e che riassumi in una bella dichiarazione nell’intervista a Unica Radio di Cagliari dove dici: “più mi sono staccato fisicamente da terra con un aereo per andare altrove più è cresciuto il legame, la forza di gravità che mi attira verso la Sardegna. Mi fa sentire innamorato quasi come fossi innamorato di una persona”; ecco, da innamorato, ci racconti la tua Sardegna e il legame che ha con la tua musica?
Quand’ero piccolo la Sardegna mi stava molto stretta. Era una piccola realtà dominata dalla sua stessa insularità, che ha sempre penalizzato tanti dei suoi aspetti. Penso di essere arrivato addirittura ad odiarla. Volevo andare a vivere a Londra, all’epoca era la Mecca per chi voleva fare musica. Poi quando ho iniziato a fare i primi concerti all’estero è partito senza che io me ne accorgessi un processo, durato circa un anno, che ha cambiato radicalmente tutto il mio modo di vederla all’opposto. E non mi ero mai reso conto che i paesaggi sonori a cui mi ispiravo (secondo me americani, western, degli anni ’70, etc.) erano in realtà paesaggi completamente sardi, quelli in cui ero cresciuto. Penso che questo mio associare il folk e il country americano alla Sardegna sia determinato dal fatto che quando la giravamo in lungo e in largo con i miei genitori durante la mia infanzia, la musica che si ascoltava era proprio quella. Da lì a quello che si sente nella mia musica, credo che il passaggio sia stato molto breve e banalmente ovvio.
In un’altra intervista a RadioX hai raccontato degli inizi nei primi anni 2000, Città Globale e l’incontro con Emanuele Marascia, il lavoro con Noferini, il progetto Duoteque e poi il successo nel 2007 con l’inno da rave “The Cat” e il suo vocal tormentone “Everytime, Everyday, Anyway, Acid”. Da quello che dici appare subito chiara una forte determinazione unita all’obiettivo, direi ampiamente raggiunto di farti notare e consolidare la tua figura nel mondo della musica. Tutta sinergia, bravura e pianificazione oppure sei dovuto scendere anche a compromessi?
Compromessi musicali non ne ho mai fatto volontariamente, sono sempre arrivati da soli, se ci sono stati. Il mio obbiettivo da piccolo era sfondare nel mondo della musica: prima volevo fare il concertista, poi il direttore d’orchestra, poi volevo essere Madonna, e poi avrei voluto essere qualcosa come gli Orbital. O forse prima di loro c’erano i Datura (ride). Con The Cat volevo proprio creare un tormentone che strizzasse l’occhio all’acid house e ai raves, ma onestamente non pensavo avrebbe funzionato così’ tanto, in Inghilterra diventò davvero un inno con mio grande stupore.
“DOA” è la prima traccia che hai pubblicato come anteprima del tuo nuovo album uscita il 27 luglio all’interno dell’EP di 3 tracce “The Arsonist”, letteralmente “L’incendiario”, tutto dedicato, copertina compresa, al tragico incendio di origine dolosa di Curraggia del 1983, ci racconti le ragioni di questa scelta?
L’album è un viaggio in Sardegna in estate, raccontato dai miei occhi in alcuni momenti e da quelli di un viaggiatore “che viene dal nord” in altri. Ma se il viaggio fosse stato solo di belle spiagge, rose e fiori sarebbe stato difficilissimo da rendere credibile e inevitabilmente sarebbe sfociato nello sdolcinato più totale. Gli incendi qui purtroppo sono una realtà all’ordine del giorno, mettono davvero in ginocchio la terra e l’incendio di Curraggia ha segnato molto l’isola in questo senso e ha rappresentato un momento molto importante nel suo trascorso. Per un disco “dance” capisco sia un argomento un po’ troppo azzardato, ma è attraverso la dance che mi esprimo e cerco di comunicare, questo non significa che una cassa in quattro debba per forza rappresentare qualcosa di frivolo, no?
Nel corso degli anni il tuo stile si è raffinato e complicato passando da un genere puramente dancefloor a una visione più cinematica ed evocativa, come tu stesso hai ammesso sempre a RadioX per una attitudine tipicamente Sarda di raccontare storie e per un profondo senso del paesaggio. Per quanto questa sinestesia ti venga naturale, come si fa a raccontre un paesaggio con la musica?
Domanda difficile! Credo che la musica, come qualsiasi altra forma, sia uno strumento tramite il quale si esprime qualcosa di molto personale e di insito che difficilmente può venire espresso con le parole. Questo “insito” (mi permetto di usarlo come sostantivo qui) penso sia sempre legato a qualcosa a cui teniamo, amiamo o che in qualche modo ci ha forgiati. Il fatto che la mia musica possa suonare paesaggistica si potrebbe ricercare nella scelta di certi suoni e ambientazioni che ricordano colonne sonore, Morricone et similia, che hanno accompagnato la mia infanzia segnandola in maniera indelebile. E poi scrivere e parlare d’amore è difficile, io non so farlo. O meglio, forse il mio modo di farlo è proprio questo, spostando l’attenzione su paesaggi piuttosto che persone.
“Not So Green Fields” esce a settembre e definisce un nuovo cambio di rotta dopo l’uscita di “III” nel 2013, ricollegandosi al filo conduttore del precedente “Beyond That Hill”; rappresenta la colonna sonora di un viaggio immaginario intrapreso da un abitante del freddo nord che visita la tua Sardegna con te come Cicerone. Inizia con un matrimonio e termina con una cartolina da Masua traguardando il Pan di Zucchero passando attraverso elettronica, rock, folk, techno, panorami e citazioni. Un album sicuramente complesso e ricco di contenuti, sei soddisfatto? E’ venuto proprio come lo avevi immaginato?
Pare che per molti registi, il processo di creazione di un film sia sempre piuttosto ripetitivo, il regista cerca sempre di fare lo stesso film, anche se poi quello che lo spettatore vede è diverso. Credo che per me sia un po’ la stessa cosa, l’album che faccio alla fine è sempre lo stesso, anche se magari all ascoltatore suona in maniera differente. E credo che l’unico vero motivo per cui mi accada sia perché la matrice di ispirazione e di riferimento è sempre la Sardegna. In “Raver’s Diary” questo concetto sicuramente era più latente ma c’era, in “Beyond That Hill” un po’ meno, in III il paesaggio era sempre sardo ma visto in maniera più tedesca. Nel corso di 4 album si è evoluto, è cresciuto a dismisura fino a diventare quello che è l’ultimo disco, completamente ispirato e dedicato alla terra in cui sono nato. Mi ci sono voluti 10 anni. E’ davvero l’album che ho sempre sognato di fare, da ascoltare in macchina in viaggio per l’isola. Vorrei farne altri 10 come questo.
Questo nuovo lavoro ti vede anche nella figura di cantante come già era capitato nella bellissima “Chentu Mizas” recentemente portata in video con una apparizione nel progetto Su Scannu Sessions. Cantare o comunque aggiungere tue parti vocali alla pura produzione elettronica non è nuovo al tuo lavoro, ma emerge sempre più un approccio autorale più consapevole che vira verso una direzione completamente nuova che sembra allontanarsi lentamente da quello che era Dusty Kid verso un nuovo capitolo di Paolo Alberto Lodde, si tratta di un periodo, oppure è percorso ben definito?
La matrice pop l’ho sempre avuta, a 15 anni scrivevo canzoni alla Oasis ma purtroppo non sono un cantante e si sente. Idealmente preferisco la musica senza parole, ma solo perché ho sempre considerato le note come una lingua più vicina al mio modo di essere e vedere le cose e con le parole non sono mai stato bravo, nei temi di italiano avevo sempre 5 1/2 e ed ero al liceo classico! Però il mondo del pop mi ha sempre attirato, è un mondo molto lontano dalla dance e per certi aspetti fino a un po’ di tempo fa era diametralmente opposto: la techno non era certamente sulla bocca di tutti né esistevano festival da 70 mila persone che avevano come headliners dei djs. Questo aspetto ha causato una perdita di interesse per quanto mi riguarda per un mondo e un genere (come quello della techno) che ora non ha più quel sapore underground di un tempo. Non è una lagna nostalgica la mia, non credo che il fatto che la techno ora sia diventato un genere mainstream sia una brutta cosa, anzi. E’ solo che non mi attira più come prima, vuoi perché sto invecchiando e non sono certamente più un “kid”, vuoi perché sebbene ci sia una quantità esorbitante di bella musica techno là fuori, in fondo in fondo sono sempre stato un romanticone e “techno” non è certo un genere romantico per definizione. In quest’album di techno non c’è niente, c’è molta trance, che è stato un genere decisamente più mainstream sin dai primi ’90.
Nelle tue produzioni o comunque nel tuo modo di fare musica sembra che sia sempre molto importante per te che quello che fai abbia un significato. In un’intervista di qualche anno fa a Beatport ti hanno chiesto cosa pensi della techno e hai detto che secondo te molti brani sono omologati, privi di senso, conoscenza e cuore perché i produttori spesso non sanno perché fanno una traccia, come farla e il motivo. Su questo tema mi è venuto in mente uno degli episodi degli “Young People’s Concerts” di Leonard Bernstain che si intitola “What Does Music Mean” dove si finiva col sostenere che “il significato della musica è nella musica, nelle sue melodie, nei suoi ritmi, in come è orchestrata e soprattutto in come si sviluppa” e ancora “Penso che questo brano vi piacerà perché è divertente ascoltarlo e per nessun altro motivo, non perché sia a proposito di qualcosa. E’ solo bella musica”. Ecco, usando questo concetto come spunto, secondo te, è possibile che si possa fare bella musica senza avere ben chiaro il motivo per cui si compone, solo perché è bello, divertente o piacevole farlo?
Assolutamente si. Il fatto di dargli un significato è una cosa assolutamente personale e mai necessaria. Il significato di molti dischi di Steve Reich non sono mai riuscito a trovarlo per esempio, ma non significa che non abbia fatto delle bellissime cose o che queste non mi abbiano emozionato. Ma nel caso di un album, se ci lavoro, c’è sempre dietro un concept, qualcosa che fa sì che io scriva quell’album, una ragione o un’ispirazione che volente o nolente si sente quando ascolti il disco. Il significato che gli dò io non necessariamente deve coincidere con quello che gli dà chi lo ascolta, né chi lo ascolta necessariamente deve dargli un significato. Magari per me rende il tutto più semplice perché io scrivo un qualcosa con un intento e mi piace che quest’intento venga fuori ma non è una conditio sine qua non. E’ naif, più che altro.
In un tutorial per BPM in Israele hai raccontanto che quando usavi un PC con una scheda audio da pochi euro riuscivi a ottenere un suono che oggi, nonostante le migliaia di euro di hardware non riesci più a riprodurre, cosa aveva di così particolare? Quale pensi sia il motivo?
Sto ancora cercando di capirlo!
Sempre nel tutorial di BPM spieghi in dettaglio il tuo setup live che hai creato appositamente per complicarti la vita, in modo da rendere meno noiosa la ripetizione della performance. Da quanto raccontavi a RadioX l’approccio che avevi all’inizio era più emotivo, cercavi di attirare l’attenzione e coinvolgere anche con il linguaggio del corpo, cosa che è poi andata a morire. Questa scelta del rendere tutto più complicato è voluta anche per mettere un ulteriore distanza tra te e il pubblico?
Forse. Da bambino volevo spaccare il mondo, diventare famoso, essere sulla bocca di tutti. Adesso è tutto il contrario. Ma la verità è che il mio approccio col pubblico prima era molto aggressivo, adesso invece è completamente impacciato.
“Chentu Mizas” e “Jznoussa” sono nel film di Peter Marcias “Dimmi che destino avrò”. La tua musica si presta sempre di più a sonorizzare immagini e Morricone è uno dei tuoi personaggi preferiti, oggi ti sentiresti pronto per affrontare la sfida di realizzare una colonna sonora completa?
Non lo so. Mi piacerebbe, è il mio sogno da sempre, ma il mio modo di concepire musica ho paura non sia all’altezza di una cosa del genere. Per tornare al discorso del significato di un brano o del fatto che quel brano stesso sia “paesaggistico” è dato dal fatto che prima è venuta la musica poi le immagini, e così, beh è facile da fare. Ma creare la musica sulle immagini, una musica che veramente c’entri è molto, molto difficile. Poi dipende dal film, se mi chiedessero di musicare un film ambientato in Sardegna o in Arizona sarebbe più facile che musicare un thriller o un horror. Forse un horror si dai. Ma un film d’azione… Ecco quello no, non ci riuscirei proprio .
Che cosa stai ascoltando ultimamente? Cosa ti piace?
Mi piacciono sempre le solite cose, i Coldplay, li ascolterei a tutte le ore. Dopo Mozart credo siano gli unici in grado di scrivere un album tutto in Maggiore senza essere sdolcinati o noiosi; il Maggiore dopo un po’ stanca se non lo si sa fare. In questi giorni ascolto le First Aid Kit, l’ultimo dei The Orb e un ragazzo molto bravo che si chiama Foxes in Fiction, me lo ha fatto sentire una mia amica ed è piacevole. E “Stormi” di Iosonouncane. La ascolto e canto – stonando – a squarciagola; lui è sardo, bravissimo, proprio della zona di Masua. Da sposare, ma è un cane.
Siccome sul web c’è già una bella lista esaustiva di tutto quello che hai in studio, so che sei anche un bravo cuoco e hai inventato i “gnocchetti sardi alla mediterranea”, ci dai la ricetta?
Ahaha. Gnocchetti sardi, pomodoro pachino fresco a cubetti, tonno fresco, aglio, basilico, cipolla di Tropea, capperi, scorza di limone, olio extravergine, ma di quello buono, mì. Must serve chilled!