Protagonista indiscusso della scena di Roma, prima, e di tutta Italia, poi, Emanuele Inglese è il dj più amato dal “suo pubblico” che mi sia mai capitato di sentir suonare; chi ha avuto modo di ascoltarlo mettere i dischi sa di cosa sto parlando. Lui stesso ne è consapevole e lo ammette candidamente rispondendo a una delle nostre domande, sottolineando che, senza tutti quei ragazzi che lo hanno letteralmente sospinto dall’inizio, con tutta probabilità oggi racconterebbe un percorso molto diverso. E invece le cose hanno preso una certa piega, serata dopo serata e disco dopo disco, trascinandolo sul vertice più alto di una macchina divenuta gigantesca, quel Diabolika capace di radunare migliaia di giovani ad ogni evento, anche grazie al suo lungo lavoro. Per questo ridurre Emanuele Inglese al semplice “resident” è un peccato di ingenuità terribile, soprattutto perché lui stesso sente di aver vestito a lungo dei panni diversi, quelli di uno dei dj più importanti d’Italia. A conti fatti, con buona pace di chi ha poca memoria, di questo si è trattato: Emanuele Inglese si è imposto ovunque sia stato chiamato all’opera, da Muccassassina al Diabolika, passando per Scandalo e per tutti club/discoteche che lo hanno ospitato.
Quello che oggi ha scelto di raccontarsi sulle nostre pagine è un dj maturo, un uomo che non ha smesso di divertirsi dietro la consolle ed è convinto di poter dire ancora la sua, magari con i suoi “100% Emanuele Inglese” che l’hanno eletto capo-popolo e che continua a considerare la formula migliore per valorizzarsi.
Fai il dj da più di vent’anni e questo significa che la tua carriera ha vissuto diverse fasi molto importanti. Direi di partire dagli inizi veri e propri, prima ancora di quello che può essere considerato a tutti gli effetti il calcio d’inizio: la residenza al party Muccassassina.
Ho iniziato ad appassionarmi di musica quando ero piccolino, acquistando i primi vinili per passione e collezione. Andavo in tutti i negozi di dischi di Roma perché in quel periodo, non essendoci internet, non si poteva fare altrimenti. Ricordo che ascoltavo pacchi su pacchi di musica per cercare di capire fino in fondo cosa mi piacesse davvero e quale genere rispecchiasse a fondo i miei gusti. Le prime esperienze dietro alla consolle sono legate a piccole feste e ai party pomeridiani, come la domenica all’Alien. Ero un ragazzetto, avrò avuto al massimo sedici anni.
Quel tipo di eventi prima andavano tantissimo.
A sedici anni, una volta, nei locali non ti ci facevano proprio entrare di sabato sera. Si iniziava a frequentare i locali partendo dal pomeriggio e bevendo Coca-Cola, al massimo. Fino a diciotto o diciannove anni funzionava così, assolutamente, e per questo gli eventi erano attesissimi. È un peccato che questa cosa si sia persa: in quei pomeriggi i ragazzi venivano praticamente “svezzati” da quelli più grandi e imparavano pian piano le dinamiche delle discoteche, oltre al significato del termine aggregazione e dello stare in mezzo alla gente.
La crescita, anche quella dei dj più giovani che vi suonavano, avveniva gradualmente…
Esatto! E questo non poteva che far bene alla consapevolezza di tutti, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Mi ha fatto bene iniziare così, perché a quei pomeriggi sono seguite diverse serate che rappresentavano uno step più alto. Ricordo di aver avuto il privilegio di suonare più volte al party Stardust di Roma, che forse non tutti ricordano, che veniva chiamato “Il Martedì d’Italia” visto lo spessore degli artisti che venivano ospitati. Parliamo del 1994, massimo 1995.
Poi è stata la volta di Muccassassina?
In realtà, prima ancora ho suonato all’Alibi, una realtà fondamentale per la scena gay. Era un club nel senso stretto del termine e quei giovedì non si riusciva ad entrare se non si era accompagnati da almeno un abitudinario.
A Roma c’è stato il Berghain prima ancora che a Berlino…
Tu ci scherzi, ma non c’era modo di entrare se non riuscivi a “mimetizzarti” e a farti accompagnare da chi lo frequentava con costanza. L’Alibi di Testaccio, a quei tempi, era un club meraviglioso, sia da punto di vista della festa che per quanto riguarda la musica che potevi ascoltarvi. Il suo pubblico era davvero esigente e si aspettava house music ricercata. Si risentivano se a fine serata non avevano ascoltato qualche disco di Danny Tenaglia o dei Masters At Work! Insomma, l’Alibi è stato fondamentale per il movimento undeground di Roma e per me è stato bellissimo averci potuto suonare.
A quel punto ti eri ormai inserito nella comunità gay, no?
La verità è che ho avuto la fortuna e il merito di farmi trovare pronto quando si è presentata l’occasione di suonare a Muccassassina, a quei tempi una festa incredibile che già frequentavo da cliente. Un po’ come fa qualsiasi appassionato di musica. Lì dei miei amici, dopo avermi ascoltato più volte al Verve o all’Absolute, un club ormai chiuso che si trovava a Via delle Capannelle dove suonavo con Chicco Pace, hanno insistito affinché io e Vladimir Luxuria ci conoscessimo. Sono stati questi ragazzi a mettere in moto l’ingranaggio che ha portato l’allora ex direttore artistico di Muccassassina ad ascoltare una mia cassetta con un mio set registrato!
Si vede che doveva andare così.
Doveva andare così davvero! Mi riempie il cuore sapere che nei momenti importanti è sempre stato il pubblico il mio più grande sponsor.
Ok, ma com’è andata la storia della cassetta?
Dopo averla ascoltata, qualche tempo dopo, Vladimir mi ha chiamato dicendomi che le era piaciuto il mio sound e che voleva farmi fare una prova di venerdì. Era una cosa incredibile per me, molti dj avrebbero letteralmente ucciso per suonare a Muccassassina in quel periodo visto il pubblico e l’energia meravigliose che potevi trovarci ogni weekend. Non c’era internet e non c’erano mp3, ma c’era grande musica e esserci rappresentava l’unica occasione per ascoltarla. In quell’occasione, poi, sono stato doppiamente fortunato: avrei dovuto esibirmi tra l’1:30 e le 2:30, ma il dj che doveva subentrarmi ebbe un problema e non venne. Così suonai dalle 2:30 fino a chiusura…fu incredibile perché avevo la serata tutta per me e, oltre ad averci lavorato a lungo per prepararmi come desideravo, conoscevo il locale da cliente. Alle 5:30 la pista era strapiena e la pista mi chieste l’ultimo disco per ben tre volte, così mi fu chiesto di suonare altre volte finché la frequenza dei miei dj set fu tale da portarmi alla residenza l’anno successivo.
Quanto tempo sei stato resident?
La mia esperienza a Muccassassina è durata cinque anni. L’essere il suo resident mi ha dato la possibilità di iniziare a girare, almeno per l’Italia Centrale, e di mettere i dischi in club che hanno fatto la storia della scena romana.
Che ci dici del tuo legame con Vladimir Luxuria? Quanto è stato importante il confronto con una personalità simile per la tua crescita?
Conosco Vladimir dal 1996 e sin dal primo giorno si è rivelata una vera professionista; una persona ricca di idee e capace di darmi tantissimo, credendo in me e dandomi la possibilità di giocarmi le mie carte. La stimo molto perché è una persona che ama il suo lavoro e, per questa ragione, non regala nulla a nessuno: se mi ha voluto con lei, e se non ha mai interrotto la nostra collaborazione, è perché ha sempre apprezzato ciò che ho fatto. È stata lei la mia talent scout ed è grazie a lei se la mia carriera ha avuto inizio.
Dopo Mucassassina si è aperto un mondo: passiamo a Scandalo.
Pur essendo stata una parentesi breve, durata solo una stagione, Scandalo è stata una tappa fondamentale. Tra il 2000 e il 2001 Vladimir Luxuria esce da Muccassassina e io, che avevo con lei uno strettissimo rapporto e che nutrivo nei suoi confronti rispetto e riconoscenza per il lavoro svolto, la seguo. All’epoca mi era già capitato di suonare diverse volte in un club di cui pochi si ricordano, ma che in quegli anni andava tantissimo grazie alle serate di Club 69 di Maurizio Pallini: La Villa.
Certo, ne ho sentito parlare, è sull’Aurelia tra Fregene e San Nicola. Il locale era di Giorgio Ardisson!
Esatto, l’unico zorro biondo! Uscito Pallini, La Villa fu presa in gestione da Fabrizio De Meis che continuò a chiamarmi per alcune serate, mentre la mia residenza a Mucca era praticamente arrivata al capolinea. Quando io e Valdimir uscimmo si verificarono diversi avvenimenti chi ci hanno portato alla nascita di Scandalo: Fabrizio, che ci seguiva da diverso tempo, prese il PalaCisalfa (l’odierno Atlantico Live) insieme a Roberto Di Bartolomeo, che nel frattempo aveva interrotto la sua collaborazione con il Palacavicchi di Ciampino. Fabrizio e Roberto proposero a me a Vladimir di collaborare alla nascita di un nuovo sabato sera in cui io sarei stato resident, mentre Luxuria avrebbe curato la parte artistica, dalle coreografie all’animazione. Così è nato Scandalo.
E il nome?
Il nome lo ha coniato ovviamente Vladimir: “Luxuria se ne va da Mucca, Inglese pure…ma è uno scandalo! Ecco, lo sai come la chiamiamo la serata? Così.”
Che ricordi hai di quell’ex-palazzetto rattoppato e ridestinato?
Ricordo ancora la prima serata: era il 2001, fine settembre o inizio ottobre…facemmo cinquemila paganti! Al progetto aderirono, anche se all’inizio non in modo continuativo, Francesco e Stefano Unicatribù, che l’estate prima avevano inaugurato il Club Ibiza al Gilda di Fregene. Quell’anno fu bellissimo perché la gente era convinta che in qualche modo Muccassassina si fosse trasferita al PalaCisalfa, così in pista e sulle gradinate del palazzetto potevi trovare un pubblico davvero eterogeneo. La grande differenza, però, è che a Scandalo erano tutti di fronte a un unico dj, mentre l’Alpheus e il Qube, i locali che sono stati la casa di Mucca, erano divisi in sale.
Qui tu suonavi “Satisfaction” di Benny Benassi, la tua “Saxtronic Love” e “Miura” dei Metro Area…
Che ricordi “Miura”, quando veniva suonata dentro al PalaCisalfa veniva giù tutto! Era una hit, così come “Satisfaction” (che però ci mise di più a venir apprezzata in quanto aveva un suono “inusuale” per quel periodo), tanto che lo stesso Benny Benassi venne a suonare da noi.
Ricordi altri brani per cui il tuo pubblico impazziva?
Senza ombra di dubbio “Y U Fall” di Lil Louis e poi i dischi dei Chicken Lips, tra cui “He Not In”.
Nell’immaginario di molti che l’hanno frequentato, Scandalo viene considerato il fratello maggiore “più underground” del Diabolika. Ti trovi d’accordo? Perché cambiare?
Sì, assolutamente sì! Il palazzetto, col palco, l’impianto e tutta quella gente, era a tutti gli effetti un rave. La scelta di far durare la festa appena una stagione è stata presa perché, dopo che il movimento c’è esploso tra le mani, abbiamo pensato che la mossa giusta fosse spostarci in un club/discoteca.
Come andò?
Presentai una delle socie dell’NRG di Ciampino, una mia carissima amica, a Fabrizio e agli altri. Loro trovarono un accordo con la proprietà del locale e le cose da quel momento cambiarono radicalmente: Luxuria non ci seguì fissi, perché voleva tentare un altro tipo di percorso, mentre si unirono a tempo pieno Francesco e Stefano Unicatribù. In questo modo il progetto Scandalo era ufficialmente tramontato.
Continuare senza Luxuria non avrebbe avuto senso, non trovi?
Infatti. L’idea del nome Diabolika e della bambola del logo mi sembra che fu di Stefano. Io lì continuai nelle vesti di resident e non entrai mai all’interno della società che gestiva l’intera macchina: nel modo in cui mi hanno valorizzato, però, mi hanno fatto sentire come il quinto socio, nonostante io non avessi investito alcun capitale. Certo è che la mia figura restava importantissima, in quanto giocava un ruolo chiave all’interno del party…alcuni degli eventi meglio riusciti avevano me all night long!
Così è ha avuto inizio la nuova avventura…
…ognuno con il proprio ruolo e il proprio incarico. Già dall’inizio fu chiaro a tutti che non avrei potuto restare solo ogni sabato, per questo serviva un nuovo resident che aprisse la serata. Va specificato, poi, che in quel periodo non si sentiva la necessità di una o più guest a serata: nel nostro contesto potevamo anche bastare io e D.Lewis.
Com’è ricaduta la scelta su di lui?
Io e Fabrizio pensavamo che servisse un dj bravo che sposasse la nostra causa, una figura che non ambisse alla leadership in senso assoluto. Cercavamo un artista capace e desideroso di cogliere al volo l’occasione che il Diabolika poteva rappresentare, ecco. Luigi all’epoca faceva al caso nostro: non aveva ancora un grosso mercato e non rappresentava assolutamente lo “squalo” che poteva venire a lucrare sul lavoro che stavamo intraprendendo.
Luigi ha colto la palla al balzo. Se l’è cavata bene?
Assolutamente, era perfetto per aprire la serata. Va specificata una cosa, però: a mezzanotte, quando l’NRG aveva appena aperto, dentro al locale c’erano già duemila persone…non si trattava di un semplice warm-up!
Uno step fondamentale per la vostra crescita fu la collaborazione con m2o. Come andò?
Con la chiusura di RIN – Radio Italia Network, dove io collaboravo con alcuni programmi tra cui la Noche Escabrosa, nacque la nuova radio grazie al Gruppo Elemedia. All’inizio le sue frequenze trasmettevano ventiquattro ore su ventiquattro musica dance, senza che alcuno speaker la interrompesse. Nacque un’amicizia tra il suo direttore artistico, Fabrizio Tamburini, e il gruppo Diabolika e successivamente la collaborazione. L’idea era quella di trasmettere in diretta, tutte le settimane, la serata dall’NRG…a quel punto non potevamo che chiamarci m2o Diabolika!
Così è stata la volta di Paolo Bolognesi.
All’interno della collaborazione era previsto che il loro “dj house” (Paolo già curava il programma Stardust) trovasse il suo spazio all’interno della serata e quindi della diretta. La sinergia con m2o ci fece crescere immediatamente; ricordo ancora la telefonata di De Meis: “Guarda Emanuele, dobbiamo diventare un party su scala nazionale! Con la diretta esplodiamo e andiamo in tutta Italia!”. Nonostante fare spazio a Paolo fosse uno step necessario per la collaborazione, ti confesso che, senza sminuire nessuno, a me seccava comunque molto lasciare spazio in quella che ho considerato la mia consolle.
E con le guest?
Lì avevo meno problemi, anche perché stiamo parlando di Claudio Coccoluto, Ralf, Alex Neri, Marco Carola, Mauro Picotto, Todd Terry, Roger Sanchez, Felix Da Housecat, Farfa, i Pastaboys…
Quali sono state le cose più belle che ti sono successe mentre lavoravi al Diabolika?
Sai, in sei anni di residenza sono successe un sacco di cose belle, porto nel cuore tutte le nostre serate. Solo chi ha potuto vivere il 2003, il 2004 e il 2005 può capire che cosa è stato il Diabolika. Ricordo pochi party negli ultimi vent’anni con un’energia simile e Roma era una cosa incredibile. Quella voglia di andare a ballare oggi s’è persa.
Tu parli di energia, ma da dj non soffrivi il fatto di essere continuamente interrotto dai vocalist?
Ho sempre preferito che fosse il disco a parlare, ma devo riconoscere che il concept del Diabolika prevedeva le figure di Harry Pass e Lou Bellucci; senza di loro, per esempio, anche la diretta radio era meno “riconoscibile”. Avevano quasi il ruolo dello speaker, autenticavano quello che m2o stava trasmettendo.
Eravate diventati uno show.
Esattamente. Le sigle, la musica, i vocalist e i boati alle ripartenze: chi ascoltava alla radio aveva la sensazione di essere all’NRG.
Oggi è una cosa che non avrebbe senso, tra Boiler Room, SoundCloud e YouTube…
Ma no, no, assolutamente! Prima si ascoltava la radio perché la radio era il punto di riferimento. Pensa che girano i video del Diabolika, ma del PalaCisalfa no; non ho mai visto un cellulare alzato o qualcuno scattare una foto.
Beh, magari i telefonini non lo permettevano!
In realtà non c’era questa cosa di dover essere in discoteca e “documentare” la serata con foto e video. È incredibile che oggi ci sia gente che va a ballare per caricare contenuti sul proprio profilo YouTube!
Trattandosi di una macchina imponente, e avendo viaggiato ad alto regime per molto tempo, al suo interno hanno lavorato e si sono alternati tantissimi professionisti. Con chi avevi un rapporto speciale?
Forse è esagerato parlare di rapporti particolarmente “speciali” con qualcuno, ma una delle cose che più mi ha fatto piacere è il rispetto che tutte le guest hanno avuto nei confronti della mia figura, perché conoscevano la storia del Diabolika.
Sei un po’ geloso di quello che hai costruito?
Ora come allora: in quel momento volevo tenere stretta la mia leadership…
…meglio antipatico piuttosto che spartire la consolle?
Assolutamente. Io ho sentito il Diabolika come una cosa mia fin dalla prima serata, quando quasi quattromila persone vennero ad ascoltarmi. Non nascondo di aver avuto dei momenti alti ed altro molto meno buoni, per usare un eufemismo, con alcuni memebri dello staff, ma questo per tenere saldo il mio ruolo e le mie idee. C’è sempre, di qualsiasi ambito si stia parlando, qualcuno che tende ad “allargarsi”.
Qualcuno che ha preso la sua strada effettivamente c’è.
A Roma buona parte di gravita intorno al mondo della notte è passato dal Diabolika, come i pischelletti che venivano a ballare e ora mettono i dischi o fanno il promoter.
Una generazione figlia del Diabolika?
Forse.
Ma se ne vai così fiero e c’eri così legato, perché nel 2007 è finita?
Il discorso è lungo e temo non basti questa chiacchierata per spiegarti cosa è successo.
Provaci, non puoi tirarti indietro.
A cinque mesi dalla scadenza del contratto che mi legava al Diabolika ci incontrammo per trattare il rinnovo, come un calciatore. Ne avevo premura io, così come i promoter, ma le esigenze che manifestai non furono ascoltate e non fui accontentato. Si trattava di tre o quattro punti. Erano i mesi della stagione estiva che ci aveva portati allo Space di Ibiza il martedì mattina, subito dopo il Cocoon. Andavamo fortissimo: oltre alla stagione sull’isola c’era il Cocoricò il venerdì notte e il Maverick il giorno successivo, più tutti gli eventi. Nonostante la crescita comune e i grandi risultati raggiunti insieme, le mie piccole richieste non sono state accolte e quindi le nostre strade si sono divise.
Piccole?
Sì piccole, erano richieste di natura economica. Mi aspettavo di veder riconosciuto il lavoro fatto insieme, visto che mi sono sempre considerato fondamentale all’interno del “sistema-Diabolika”, in modo proporzionale a quanto era cresciuta l’intera macchina.
Quindi il Diabolika stava vivendo il suo picco massimo?
Sì eravamo nel boom, quell’anno facemmo anche il PalaGhiaccio di Marino con diecimila paganti. Proprio per questo motivo pensavo – e penso ancora oggi – di meritare un trattamento diverso.
Ti sei mai pentito della scelta fatta?
No, nel modo più assoluto. Anche perché, anche dal punto di vista musica, penso di aver dato tutto quello che potevo. Il Diabolika, infatti, oltre a fare i numeri che faceva, era diventata una vera industria: magliette, accendini, laccetti e gigantografie…si era andati un po’ troppo oltre e si era persa la musica.
C’è qualcosa che rimpiangi di aver fatto in quel periodo?
L’unico rimpianto che ho, che poi in realtà è stata una fatalità, è il non essere stato abbastanza “smaliziato” quando si è trattato di farmi valere lontano dalla consolle. Non ero uno squalo, volevo soltanto suonare, esibirmi e spaccare.
Alla fine sei andato via a trent’anni, non eri un ragazzino!
E non me ne sarei nemmeno andato, anche se non mi ritrovavo fino in fondo con la linea artistica che la serata aveva preso.
Cosa ne pensi dello sviluppo che ha avuto negli anni la serata? Anche la proposta musicale è cambiata in modo drastico…
Ma non esiste più il party Diabolika, è rimasto solo il marchio ed è sparito qualsiasi punto di contatto con quanto fatto in passato.
Una volta andato via, quanto ha inciso sulla tua vita artistica “solista” indossare quella casacca?
Non potrò mai dire male di una cosa tanto importante, sotto ogni punto di vista: Emanuele Inglese non sputerà mai sopra il Diabolika. Certo è che, una volta uscito da lì, tutti quelli che mi hanno cercato inizialmente lo facevano per quel tipo di hype. Era il mio picco più alto e per tre/quattro anni mi sono portato dietro tutto questo, nel bene e nel male.
Ha inciso tantissimo, quindi.
Sì, ed è normale che se poi non sei in grado di fare qualcosa grande abbastanza da essere paragonata al tuo successo più grande, allora il pubblico non può che ricordarti per il tuo passato. Ho comunque fatto un tipo di lavoro per trovare nuova linfa e cambiare immagine, dalle collaborazioni con alcuni locali, nate e sviluppate in un certo modo, ai dischi prodotti. Ora sono un solita e sono orgoglioso di poter dire che oggi, a quasi nove anni dall’essere uscito dal Diabolika, Emanuele Inglese esiste e ha il suo mercato nonostante gli fosse stato pronosticato un solo “anno di vita” prima di cadere nel dimenticatoio. Il mio curriculum lo conoscono tutti, ma oggi sono Emanuele Inglese e basta.
Quanta fatica ti è costata?
Sono uscito quando ero nel clou, quindi inevitabilmente tanta.
Secondo te, come mai nonostante la grande notorietà che avevi raggiunto, alla fine quando si pensa all’house italiana i nomi più citati restano Ralf e Coccoluto?
Ma loro sono di un’altra generazione; hanno iniziato quindici anni prima di me e vengono da altri movimenti, come gli Angels Of Love o il Cocoricò. Penso comunque che quando tutto il Diabolika raggiunse il suo picco massimo, io non avevo nulla da invidiare a nessuno.
E ora?
…e ora c’è il Gay Village di giovedì, dove ho portato “i miei sette peccati capitali” con sette serata in cui ho modo di esibirmi come piace a me: dall’inizio alla fine. Il riscontro è stato pazzesco, non me l’aspettavo. Poi ho avuto modo di suonare a Gallipoli, Riccione, Mykonos, Palma de Mallora e Llorent de Mar…finché mi diverto vado avanti, sia con le serate che con i dischi, visto che continuano ad essere suonati.
Sei tornato a un suono più vicino a quello che proponevi a Muccassassina?
Non sono mai stato un dj techno, non mi è mai piaciuto suonare in modo particolarmente duro. Sono un dj che ha iniziato suonando house, ma che ora, esibendomi spesso per molte ore, ha la possibilità di spaziare molto seguendo sempre le reazioni della pista. L’importante riuscire a regalare a chi ti ascolta la sensazione di essere di fronte a un dj set sempre nuovo e imprevedibile.