Abbiamo dei gran bei festival, in Italia. Club To Club e roBOt, ora in arrivo: non hanno bisogno di presentazioni. Ma l’elenco è lungo. Belli, i nostri festival, e belli anche nell’essere di tipologie diverse (da Spring Attitude al Kappa FuturFestival per dire) con però sempre più punti di convergenza, pur restando ognuno con la propria identità – segnale molto interessante. A furia di lamentarci che noi non siamo la Spagna e non possiamo avere gli eventi della Spagna (per non parlare poi di Germania e Francia che vengono o venivano viste come irraggiungibili), ci siamo in realtà ritrovati ad avere tante eccellenze, piccole o grandi, iper-prodotte e professionali o amorevolmente amatoriali. Insomma: un settore dove non si diventa ricchi – chi organizza i festival lo sa – ma dove ci si possono togliere delle soddisfazioni nemmeno piccole. Un settore che sta dando molto.
Un settore che nasconde delle gemme. E spesso le gemme più lucenti, o almeno quelle più sorprendenti, sono quelle che passano più sotto silenzio. Un po’ per pigrizia (dei media come del pubblico), un po’ perché magari lo stesso festival non si rende conto di cosa ha creato e/o non la so o non lo vuole comunicare in modo “urlato”.
Ma per quanto riguarda la pigrizia – e lo ripetiamo, non è solo del pubblico, è anche nostra – qua cerchiamo di rimediare. Il weekend tra l’11 e il 13 settembre Vercelli ha ospitato il Nylon Festival: non l’abbiamo ignorato, anzi, avevamo subito capito che era un festival ben sopra la media e l’abbiamo segnalato molto volentieri. Anche perché si tratta di un evento strettamente imparentato con Jazz:Re:Found (quest’anno non più vercellese ma torinese, a dicembre), con iniezioni organizzative in arrivo da parte della crew che ha creato il Todays (questo fine agosto a Torino: festival promettentissimo pure quello, già dalla prima edizione). Belle credenziali.
E poi ecco: c’era Villalobos il primo giorno, c’era Herbert il secondo. C’erano pure Jackmaster e George FitzGerald, il terzo giorno, oltre ad una robusta dose di nomi italiani sparsi per tutta la durata del festival, dal ventaglio stilistico molto vario. Ma in questo report ci concentreremo sui primi due, sul Villa e su Matthew nostro. Per un motivo ben specifico.
E il motivo è: abbiamo assistito a qualcosa di eccezionale. Ma non dovete prendere “eccezionale” nell’accezione più banale del termine (top, figata, bellissimo, bla bla bla…). Dovete prenderlo invece proprio nell’accezione più nobile e soprattutto letterale: un’eccezione. Qualcosa di più unico che raro. Ora: già che Villalobos venga non per fare il cerimoniere di gran feste di fronte a dancefloor da migliaia di persone bensì arrivi col socio Max Loderbauer, quello che sta con lui quando le cose si fanno serie e pensose, è una cosa rara. Ma la cosa ancora più strana è che non solo sul palco si aggiunge Gianluca Petrella (che però in “Re:ECM” aveva già fatto capolino), uno dei trombonisti jazz più quotati al mondo, e un altro jazzista, l’eroe locale Luigi Ranghino (bravo, perfettamente all’altezza dei più illustri soci). Già questo basterebbe per dire: “Ah, però”. E in un mondo normale oltre ad ammassarsi in duemila, tremila, quattromila per sentire Ricardo fare il dj, bisognerebbe ammassarsi non diciamo in altrettanti ma in almeno la metà – se Ricardo interessa davvero, come artista: interessa? – per ascoltarlo in questo contesto diverso. No? Invece no: a teatro (perché tutto si svolgeva anche in una bella cornice, il Teatro Civico di Vercelli) l’affluenza è stata di sicuro più che discreta, ma lontana dal sold out.
Ma fosse solo questo. Quello che non si è capito, e che la città di Vercelli per prima non ha capito bene (abbiamo infatti visto molte facce da Torino, Milano e altre città), è che si era di fronte ad uno spettacolo che era esplicitamente dedicato alla città piemontese, alla storia delle sue industrie prima fiorenti e poi abbandonate. Esplicitamente, appositamente. Su un preciso canovaccio narrativo, portato avanti a parole da uno speaker che si interpolava in determinati momenti dello spettacolo oltre che dalle immagini sullo schermo dietro al palco, Ricardo e soci hanno sciorinato un’ora e mezzo di ambient raffinata, con inserti strumentali misurati ma appropriati e suggestivi. Tutto molto elegante, molto interessante. E fatt’apposta per Vercelli. Per il luogo che li stava ospitando. In interazione coi visuals, e con lo sviluppo narrativo. Non insomma una cosa da “Arrivo, ceno, salgo in console, suono, mi diverto, mi faccio scattare delle foto, saluto” che si può ripetere ovunque in qualsiasi club del mondo. Qualcosa invece di più complesso, più difficile, non perfetto – ci sono stati dei momenti in cui la mistura sonora era raffinata ma un po’ involuta – ma in ogni caso prezioso.
Nulla, però, rispetto a quello che è successo il giorno dopo, sempre in teatro. Stavolta in azione c’erano Matthew Herbert, Enrico Rava (la leggenda della tromba jazz in Italia), Giovanni Guidi (anche lui di estrazione jazzistica, e in quanto tale considerato uno dei più grandi talenti emergenti al pianoforte, ma è facile beccarlo ai meglio festival di musica elettronica infuocato sui dancefloor). Andando subito al punto: una delle cose più emozionanti viste da quando seguiamo la musica. Herbert campionava in presa diretta ciò che suonavano Rava e Guidi creando pad atmosferici, riff taglienti, architetture ritmiche o in quattro o in certi momenti mefistofelicamente dispari e/o destrutturate; Guidi ha tirato fuori di tutto e di più dal pianoforte (anche percuotendolo, usandolo comunque in modo molto percussivo), con in ogni caso dei momenti di bellezza assoluta dal punto di vista lirico; Rava è partito imbastito, ha fatto i primi cinque/dieci minuti di concerto apparentemente non del tutto convinto, poi è andato violentemente in crescendo fino a diventare furia. In tutto questo, l’interplay fra i tre era incredibile, feroce, lo si poteva avvertire nell’aria, l’intensità di cui si nutrivano reciprocamente era qualcosa di quasi sovrannaturale. Era jazz? Anche. Era musique concrete? Pure. Era techno? In più di un momento. Era, soprattutto, musica totale. Coinvolgemente emotivamente al 101%, pur essendo per nulla semplice, per nulla facile. Tutto questo mentre alle loro spalle i visuals raccontavano una (ipotetica?) rinascita delle aree industriali vercellesi dismesse, coi musicisti che tenevano ben d’occhio quanto avveniva sugli schermi e si regolavano di conseguenza, nel costruire musica.
Ecco. Questa è musica al livello più alto. Non che non lo siano i concerti “normali” (figuriamoci), non che non lo siano i dj set o i live set coi laptop che vengono portati in tour simili fra loro data per data: anche da questi contesti può nascere grande musica. Ma bisogna riconoscere il valore dell’unicità. Nell’epoca – benjaminianamente parlando – della riproducibilità tecnica e scenica, il valore dell’unicità, del vedere pensato, concepito e fatto per “quel” luogo e “quel” momento qualcosa di specifico, ha una portata enorme. Quando per giunta è fatto da musicisti la cui testa è abituata a pensare oltre agli steccati di stile e la cui tecnica è lodata ed amata in tutto il mondo… beh, avete capito. Livello superiore.
A Vercelli, in queste due serate al Nylon, è accaduto qualcosa che va annoverato fra le vette della musica di ricerca in Italia, visto anche apputo il valore aggiunto dell’unicità. Siamo onesti: non ce l’aspettavamo. Ci aspettavamo una cosa bella, carina, interessante, valida. Abbiamo avuto molto di più. Se a questo si unisce il fascino delle location (l’area post-industriale dove due giorni su tre si è svolta la parte notturna del festival è incredibilmente suggestiva; ma anche il terzo giorno – nella già collaudata area Montefibre – sembrava comunque di stare in una micro-Berlino), un fascino che rendeva non decisiva la prestazione degli artisti nei vari live e dj set (che è stata comunque per lo più buona, con menzione d’onore per quello che abbiamo visto per Godblesscomputers e Azimute). Abbiamo avuto molto di più quello che ci aspettavamo: Nylon magari poteva “tirarsela” di più, nel comunicarsi, per farci capire che ci stava offrendo qualcosa di eccezionale? Forse anche no. In un’epoca in cui ci sono sì tante cose belle ma in troppi – non tanto fra i festival, quanto fra le serate “normali” – strombazzano annunci enfatici e dichiarano come uniche serate in cui ci sono dj di medio-basso calibro che hanno il solo merito di essere tedeschi o francesi o inglesi e che vengono in Italia già cinque volte all’anno cadauno, il rischio era quello di non prendere sul serio un festival che ti dice “Ehi, stiamo per presentarti un contenuto non solo di valore mondiale ma anche unico perché fatto apposta per noi”, reagendo con un “Sì, vabbé…”.
“Sì, vabbé…” un tubo. Le cinquecento persone che hanno assistito allo show di Villalobos e soci ma soprattutto le quattrocentocinquanta che hanno vissuto i novanta minuti di intensità pazzesca regalata da Herbert, Rava e Guidi sanno di aver vissuto qualcosa di incredibile. Noi siamo fra questi. E vogliamo dirvelo forte qua.