Che Jay Donaldson non fosse uno qualunque s’era capito un paio d’anni fa, quando il suo “Equation EP” aveva appena inaugurato il catalogo di Lobster Theremin, la bellissima label del fratello maggiore Jimmy Asquith; ma per capire davvero di che pasta fosse fatto il giovane britannico mancava la prova del nove, avevamo bisogno di vederlo all’opera. Così è stato, e anche a più riprese: Sónar Festival a Barcellona, Dekmantel ad Amsterdam, Electrosanne Festival a Losanna e Panorama Bar a Berlino, ma anche Verona e Milano. Bene, ora lo sappiamo con certezza: Palms Trax è uno bello e pronto per il campionato dei grandi e la modestia e la sincerità che caratterizzano le risposte alle domande della nostra intervista ci dicono che Jay ha anche la testa giusta per fare tanta strada.
Come molti artisti della tua generazione hai compiuto il passo, trasferendoti da Londra a Berlino. Al di là degli aspetti economici legati alla vita nelle due metropoli, quali sono i loro pregi e difetti?
Fondamentalmente sono più rilassato e libero di fare ciò che desidero, qui a Berlino. A Londra ero molto condizionato dalla persone intorno a me, mentre qui non c’è la stessa pressione, il che probabilmente rappresenta un bene per me. A parte questo non trovo grandi differenze tra le due città, credo dipenda semplicemente da come si intende viverle. Berlino, poi, non è più così a buon mercato; il costo della vita lo è, ma se a questo aggiungi le tasse e l’assicurazione sanitaria si perdono buona parte dei vantaggi.
Come ti trovi in Germania? Ha cambiato in qualche modo il tuo approccio alla musica e alla sua composizione?
Sì. E questo perché sono costantemente a contatto con grandi dj, il che ha accresciuto il mio interesse per il clubbing e la comunità che lo anima e mi ha permesso di aprire molto la mia mente. Quando ero a Londra avevo una grande consapevolezza della scena che mi circondava, ma qui riesco a prendere le distanze da tutto e quindi viene meno la pressione. Tutto questo ha cambiato il mio approccio al djing e alla musica che acquisto: all’inizio volevo solo suonare techno, ovviamente, così mi sono concentrato molto sul “flow musicale”, ma ora mi sono reso conto che questo, forse, non è importante quanto una buona selezione complessiva. Per quanto riguarda le produzione, invece, ho un po’ rallentato in quanto stavo cercando di crearmi una vita sociale, ma ora sì, mi sento più stabile e in gradi di riapprocciarla in modo più semplice.
Qui hai inaugurato la tua residency presso la Berlin Community Radio, grazie alla quale hai potuto scoprire ed esplorare molta più musica e a confrontarti con un format diverso rispetto al classico dj set. Che te ne sembra di questa sfida?
Mi piace davvero. Voglio dire, all’inizio ero un po’ agitato, arrivando ad organizzarmi all’ultimo minuto, mentre ora riesco a pianificare meglio il lavoro. Ed è veramente bello, perché sto comprando molta più musica! È bello anche documentare la mia selezione, così mi riascolto tutti gli show e ricercare quanto ho dimenticato. Non lo so, probabilmente questo impegno mi ha fatto pensare a ciò che mi piace davvero, a ciò che voglio dalla mia musica e a ciò che mi piacerebbe proporre nello show.
Dj set sempre, live solo in contesti speciali: in che modo prendi questo tipo di decisione? Cosa reputi davvero speciale e quali pensi siano le maggiori differenze, da un punto di vista dell’impatto sul pubblico, dei due show che proponi?
Il live è qualcosa che non vorrei proporre tutte le settimane, come fa Kassem Mosse per esempio. Con il suo live dimostra di riuscirsi ad esprimere molto bene e, facendolo da anni, dà prova di grande confidenza con questo tipo di show. Il mio, viceversa, è ancora in fase di rodaggio e non vorrei che questo lo facesse sembrare poco speciale; poi sto comprando una montagna di dischi e questo mi spinge a suonarli e ad esibirmi come dj. A casa mi focalizzo molto sulla selezione, oltre a divertirmi nel mixarli, e questo mi rende molto confidente. Il live…voglio dire, non saprei nemmeno quantificare quanti club potrebbero richiedermelo! Insomma, avrete capito: non si tratta di una questione di esclusività.
“Equation EP”, la tua prima uscita, è stata anche il primo out di Lobster Theremin. Hai conosciuto Jimmy Asquith, l’owner della label, dopo aver condiviso con lui la consolle dello Streets Of Beige. Che rapporto c’è tra voi? Quant’è stato importante questo feeling affinché tu e Lobster Theremin riusciste a spiccare il volo fin da subito?
Beh, quando incontrai Jimmy a Londra, lui divenne il mio primo amico al di fuori del giro dell’università ed è stata la prima persona a sostenermi e a darmi consigli sulla musica. Era ben inserito all’interno del giro house e techno, ma anche hip hop, acquistava molta musica e si è reso disponibile nel coinvolgermi in un paio di situazioni. È stato un buon punto d’ingresso, per così dire, un fratello maggiore. Il fatto che dopo un paio d’anni abbia deciso di pubblicare la mia musica ha reso tutto ancora più bello. Gli ho sempre girato tutto, mano a mano che producevo. Ora è molto impegnato con Lobster Theremin, che è diventata una faccenda piuttosto grande e impegnativa. Per quanto riguarda noi, penso che siamo stati abili nel lavorare in modo rapido e in modo onesto e schietto: è stato bello iniziare praticamente insieme e credo che questo, dall’esterno, ci faccia sembrare come una famiglia.
Ciò che colpisce della tua musica è l’essere estremamente attuale, nonostante si poggi saldamente su canoni stilistici “classici”, quelli che hanno fatto la storia di Chicago e Detroit negli anni ’90. Quali sono stati i lavori che ti hanno, per così dire, formato?
Ad essere onesti io non sono cresciuto ascoltando musica dance. Ho sempre preferito il jazz e il blues, per poi passare attraverso la formazione di una band metal. Insomma, non ho attraversato la fase dei jungle-tape da ascoltare in macchina quando ero adolescente. Penso che le prime produzioni dance ad attrarmi siano state quelle di Omar S. Vederlo suonare è stato molto importante per me perché mi ha mostrato come si possa far ballare le persone con quel genere di musica; mi ha fatto pensare “ehi, posso farlo anche io”. Mi piace il fatto che la sua musica sia “più melodica”. Quando ho ascoltato per la prima volta la musica dance stava scemando la fase minimal e c’erano un sacco di dischi che potevano funzionare solo all’interno di un club. Se siete stati almeno una volta all’interno di un club, questo è un discorso che potete capire perfettamente. Quella di Omar S è musica più “song-oriented” e questa caratteristica l’ha resa immediatamente più interessante, ma mi sono sempre sentito un po’ a disagio quando la gente fa riferimento a Chicago o Detroit parlando della mia musica perché lo trovo molto pertinente, o sbaglio? Non ho avuto nessuna delle esperienze che possono aver formato qualcuno di quelle due città.
Abbiamo citato Berlino e Londra, ma anche Chicago e Detroit. Tu però sei di Bristol, una città dal fervente movimento underground: cosa hai assorbito dai vari Massive Attack, Portished e Tricky? Il “Bristol-sound” ti ha in qualche modo influenzato?
Niente affatto, ad essere onesti. Sono cresciuto in campagna, nella periferia di Bristol e non ero solito andare in città più di tanto. Ho visto suonare un gruppo punk una sera e quella volta mi ruppi il naso; poi andai per una tribute band dei Led Zeppelin, i Led By Zeppelin, e anche lì mi feci male sbattendo la testa. Insomma, tanti bei ricordi. Avrai capito che non seguivo molto Rooted Records, preferivo le uscite dubstep agli artisti trip-hop che hai menzionato. Gatekeeper di Skull Disco mi ha insegnato a usare Logic.
Sappiamo della tua passione per i negozi di dischi, che ami visitare ogni volta che parti per andare a suonare. Qual è la città che ti ha dato più soddisfazioni da questo punto di vista? Che dischi hai comprato e porti sempre con te?
Sono stato in un negozio di dischi a Verona, quando sono stato a suonare insieme a DJ Deep e a Volcov, chiamato Le Disque Record Store. La selezione dei second-hand era brillante, oltre ad avere tutte le nuove uscite, rotary mixer e buone speakers…consiglio davvero di andarci! Mi è piaciuto molto anche Discos Paradiso di Barcellona.
Ricordi un momento, o un ascolto, che hanno rappresentato un punto di svolta per te?
Ricordo ancora quando ascoltai Ozzy Osbourne per la prima volta. E ricordo anche “This Must Be The Place” dei Talking Heads, probabilmente la mia canzone.
Sappiamo che tuo padre è il tuo fan numero uno, una figura che ti ha sempre sostenuto sin dall’inizio. Quanto i tuoi genitori ti hanno aiutato nella tua crescita? C’è qualcosa che ami ascoltare insieme a loro?
Non saprei. Mio padre è venuto ad ascoltarmi al Panorama Bar un paio di settimane fa, era la prima volta in assoluto. I miei genitori ascoltano musica diversa: a mia madre, per esempio, piace Joni Mitchell e quel suono lì; mio padre, invece, era un appassionato dei Gang Of Four.
Uno dei momenti più importanti della tua crescita è stato quello in cui decidesti di interrompere gli studi da ingegnere e dedicarti alla musica a tempo pieno, grazie allo stage presso Phonica Records. Che tipo di esperienza è stata? C’è stato qualche artista in particolare con cui hai legato e che ti ha saputo indirizzare?
In realtà sono riuscito ad ultimarli, nonostante si trattasse di un corso terribile. Penso che mia madre creda ancora io sia rimasto al primo anno. Comunque sì, se non fosse per Phonica probabilmente possederei la metà dei dischi e voi non potreste ascoltare quello che sono adesso. È stato bello avere a disposizione le diverse sezioni musicali appese al muro, così da poter consultare i dischi per genere e trovare le correlazioni tra di loro. Avere un contatto diretto con la gente e avere la possibilità di fare domande, anche stupide, è stato altrettanto importante. In definitiva consiglio a tutti gli aspiranti dj di lavorare in un negozio di dischi perché è la cosa migliore che si possa fare. E si possono acquistare dischi a metà prezzo, il che è fantastico!
Si è fatto un gran parlare del tuo bellissimo live Sónar Festival, lo scorso Giugno. Com’è stato esibirti in una cornice simile?
Ad essere del tutto onesti, non ero a mio agio su quel palco: era enorme! Devo ammettere che a volte possa sembrare dalla mia faccia che stia passando un momentaccio, anche se non è proprio così. Comunque al Sónar è stato un po’ strano perché…non era come una consolle di un club, ma era allo stesso tempo in grande connessione col pubblico. Un mese prima ho suonato al Lente Kabinet 2015 e mi sono esibito da dentro una specie di baracca; non sono sicuro che il pubblico riuscisse a vedermi all’opera, per questo si è trattato di un buon allenamento.
Noi eravamo tra i presenti al Sónar e ad averci colpiti, oltre ad alcune delle tue tracce più apprezzate, sono stati alcuni inediti. Sai dirci quando e se vedranno la luce?
Uno era un remix per Basic Soul Unit, ma non sono sicuro che uscirà. Poi c’era anche il mio remix per Galcher Lustwerk, ma anche questo probabilmente non verrà pubblicato. In realtà non l’ho ancora finito, e quindi inviato a lui…a pensarci bene potrebbe finire su una white label. Poi per il resto si è trattato di una jam session di alcuni miei brani che non sono usciti da nessuna parte. Ma mai dire mai, immagino!
Al Sónar ti sei esibito nel palco curato dalla Red Bull Music Academy, per la quale sei stato selezionato nel 2014. Cosa vuoi raccontarci di quanto hai vissuto a Tokyo lo scorso anno?
Beh, io non sapevo davvero cosa aspettarmi perché non ho mai incontrato nessuno che fosse stato all’Academy prima e questo mi ha completamente spiazzato. Non avevo idea di quanto la cosa fosse grossa! L’attenzione a tutti i dettagli…c’era una cucina al piano superiore e un team pensava a cucinarci da mangiare tre o quattro volte al giorno, oltre a un team incredibile che ci ha affiancati nei loro studi magnifici. Si poteva avere qualsiasi strumento desiderassimo. Oltre a questo, Tokyo è incredibile! Da fare una volta nella vita.
Abbiamo trovato molto interessanti le tue considerazioni sul processo creativo messe in evidenza dalla chiacchierata che hai avuto con Electronic Beats: per farla breve, tu affermi che per produrre musica di qualità è necessario far convivere l’istinto e l’intuizione con un’adeguata preparazione tecnica. Noi siamo pienamente d’accordo, ma a questo punto anche molto curiosi: stai studiando? Se sì, su cosa sei concentrato?
Non più, ho studiato music technology per tre anni. Riguardo alla chiaccherata con Electronic Beats, immagino che in molti abbiano pensato che io stessi parlando dell’hardware musicale in termini negativi, in realtà penso che grazie a tali strumenti sia possibile buttare giù le idee in modo rapido. Volevo solo rafforzare l’idea che il suono analogico non rappresenta l’unica via, anche se chi lo pensa sembra avere maggior risonanza. Chi può permettersi dell’hardware, comunque?
Il suono vintage degli elementi che misceli (drum, synth, bass e pad) sembra essere figlio di uno studio analogico ben collaudato, eppure abbiamo letto una tua affermazione piuttosto inequivocabile: “I can’t even afford bed linen, let alone a 909”. È così difficile essere un produttore soddisfatto dalla propria strumentazione?
Ho la biancheria da letto adesso! Sono molto lontano dall’essere un produttore soddisfatto, ho ancora un sacco di lavoro da fare. Penso che la mia musica potrebbe essere un po’ più “espansiva”, per questo sto lavorando per migliorare la mia tecnica ogni giorno. I suoni “dry” che utilizzo potrebbero non piacere a tutti, infatti penso che, nonostante mi piaccia molto la natura imperfetta dei vecchi dischi, vada trovato il giusto equilibrio. Non deve suonare né troppo bene, né talmente male da far pensare che sia semplicemente un brutto suono.
ENGLISH VERSION
A couple of years ago we understood that Jay Donaldson was not one of the many, when his “Equation EP” just opened the Lobster Theremin’s catalog, the beautiful big brother Jimmy Asquith’s label; but to really understand what stuff was done the young British lacked the proof of the pudding, we needed to see him at work. So it was, and even several times: Sónar Festival in Barcelona, Dekmantel in Amsterdam, Electrosanne in Lausanne and Panorama Bar in Berlin, as well as Verona and Milan. Well, now we know for sure: Palms Trax is a nice and ready for the championship of the great and the modesty and sincerity that characterize the answers to the questions of our interview tell us that Jay has also the right head to take the long way.
Like many artists of your generation you moved from London to Berlin. Beyond the economic aspects tied to life in these two cities, what are their strengths and weaknesses?
I think that basically I just feel a lot more relaxed here. And free to do as I please. In London I was very aware of my surroundings, people around me. And here there’s not the same pressure, which is probably good for me. But I don’t know, except for that there aren’t so many differences. I guess it’s just what you make of it. It’s not even so cheap here anymore; the cost of living is but once you’re paying taxes and health insurance it all adds up.
How do you feel in Germany? It has changed somewhat your approach to the music and his composition?
Yes. I think because I’ve been exposed to more and more great DJs I’ve basically taken a bigger interest in clubbing and the community around it, which has opened my mind a lot. When I was in London I was very aware of the scene surrounding me but here I’m a little more distanced from everything so I don’t feel that pressure, and I guess it changed my approach to DJ’ing and buying music. At the start I did just want to play techno, obviously, so I concentrated a lot on my flow as a DJ but now I’m realizing that is perhaps not as important as a good overall selection. My productions slowed down too cause I was trying to have a social life. But yeah, now I feel more settled and able to take it a little bit easier.
Here in Berlin you opened your residency at the Berlin Community Radio, through which you could discover and explore much more music and confront yourself with a different format other than the classic DJ sets. How do you feel about this challenge?
I really like it. I mean, at the start I was a little bit flustered and leaving everything until the last minute but now I plan them a bit and it’s really nice ‘cause I’m buying so much more music. It’s also cool to document my selection so I can listen back to all the shows and find stuff I’ve forgotten about. I don’t know, it’s also made me think about what it is I like, and what I want from my music and whether it’s something that I would play on the show.
Always DJ sets, and live shows only in special contexts: how do you make this kind of decision? What do you consider very special and what do you think are the major differences from the two shows that you propose?
The live show is just something I wouldn’t want to do week in week out, like Kassem Mosse for instance. I feel like he can express himself quite well with it and he’s being do it for years and so is probably very comfortable with his equipment. My live show still feels like a lot of work; and I wouldn’t want to have it feel any less special. Because I’m buying a lot of music it also makes sense to play that and Dj. At home I’m always checking tracklists and mixes so it feels like my regular thing. The live set… I mean, first and foremost, I really don’t know if many people ask for it! It’s not about exclusivity or anything.
“Equation,” your first release, was also the first for Lobster Theremin. You know Jimmy Asquith, the label owner, from sharing the Streets of Beige console with him. What kind of relationship is there between you? How important was it to Lobster Theremin taking off right away?
Well, when I first met him in London he was probably the first friend I made outside of university, and he was the first person outside my existing friendship group who ever supported my music and gave me advice. He was into house and techno, hip hop and stuff for years, buying records, and involved in a few things in London so it was a good entrance point. He was kind of like an older brother. And then, after a couple of years, he decided to release my music, which was really nice. I always sent everything to him. Now he’s very busy with the label, which has become this huge operation. I guess we were able to work things out very fast and we’ve been very honest with each other. It was quite nice to be starting out at the same time, and I think it seems like a family from the outside.
What is striking about your music is that it’s extremely current, although it rests firmly on “classic” sounds from Chicago and Detroit. What were the records that informed you?
Well to be honest I didn’t grow up listening to dance music. I always listened to a lot of jazz and blues, and then went through a phase of playing in a metal band. I wasn’t listening to jungle mix-tapes in the car when I was fourteen or anything. I think the first dance music that really grabbed me was something like Omar S. He’s really important to me because he’s the first person I heard making dance music that had me thinking “I can do something like that.” And I like the fact that he is more melodic. When I first heard dance music it was probably the tail end of minimal and so there were still a lot of records around that only worked in a club. If you’ve never been to a club you can’t really understand the appeal. Omar S is more song-oriented and so he just made more sense to me. But I always feel a bit uneasy about people mentioning Chicago or Detroit in reference to my music because you can’t really call it that can you? I haven’t been through any of the experiences that would have informed someone in those cities.
We mentioned Berlin and London but you are originally from Bristol, a city with a fervent underground movement: what did you absorb from Massive Attack, Tricky and Portishead? Did the “Bristol-sound” affect you?
Not at all, to be honest. I mean, growing up I was living in the countryside on the outskirts of Bristol and didn’t really go into the city that much. I saw one punk band and had my nose broken there, and then I went to see Led Zeppelin tribute-act ‘Led By Zeppelin’ and got head butted there, so all fun memories. I wasn’t really aware of Rooted Records or anything, but I suppose dubstep made more of an impression on me that the trip-hop you mentioned. Skull Disco’s Gatekeeper taught me how to use Logic.
We know about your passion for record stores, and that you love to visit them every time you go play. What is the city that gave you the most satisfaction from this point of view? What records did you buy?
I went to a shop in Verona when I was over there to play with Dj Deep and Volcov called ‘Le Disque Record Store.’ The second hand selection was brilliant, and they have all the new records plus rotary mixers, speakers… I would definitely recommend going to that store. And I liked Discos Paradiso in Barcelona a lot too.
Do you remember a particular moment that represented a turning point for you?
I remember hearing Ozzy Osbourne for the first time. And I remember hearing Talking Heads ‘This Must Be The Place,’ probably my favourite song ever.
We know that your father is your number one fan, a figure that always encouraged you from the start. How have your parents helped you in your growth? Is there something that you love to listen to with them?
I don’t know. My dad came to see me play at Panorama Bar a couple of weeks ago, that was the first time he’d seen me Dj in a club. My Mum and Dad are into different music, so my Mum listens to a lot of Joni Mitchell and stuff like that. And Dad was into things like Gang Of Four when he was growing up.
One of the most important moments in your growth has been the one in which you decided to interrupt your studies as an engineer and dedicate yourself full time to music, thanks to an internship at Phonica Records. What kind of experience was that? Was there any particular artist that you’ve met that guided you?
Actually I finished my studies, it was a struggle because the course was so awful but I finished. I think my Mum still thinks I got a first. But yeah, if it weren’t for Phonica I probably wouldn’t own half my records and definitely wouldn’t be listening to what I am now. It was nice having the different selections on the wall too, so you have different genres listed and you can kind of see how everything relates then pull a selection and go through them. It’s so valuable to have direct contact with people and be able to ask dumb questions, so I’d recommend to anyone wanting to DJ to work in a record store, it’s the best thing that you can do. And you get records half price, which is great!
There was much talk about your beautiful live performance at Sónar Festival last June. What was it like to perform in that space?
I guess being completely honest I wasn’t so comfortable on that stage, it was enormous! I think sometimes it looks like I’m having the worst time in the world, although I’m not. It was kind of strange because it didn’t really feel like… it’s not a stage like at a club night but it’s still quite connected to the audience. I did one a month before at the Dekmantel one day festival Lente Kabinet and they put me in a shed there, I’m not sure that people could see me so that was a good practice run.
We were among those present and what struck us, beyond some of your more appreciated tracks, were some of the unreleased ones. Can you tell us when and if they might see the light?
One was a remix of Basic Soul Unit, I’m not really sure if it will come out though. And then I did a remix of Galcher Lustwerk that will probably never come out either. I haven’t even finished it or sent it to him, but perhaps it could be a white label. Then the rest were just kind of loose jams of some songs, they don’t exist anywhere. Never say never I guess!
At Sónar you performed on the stage curated by Red Bull Music Academy for which you were selected in 2014. What can tell us about your time in Tokyo last year?
Well, I didn’t really know what to expect cause you never really meet anyone that’s been to the academy and it completely blew me away, I just had no idea what a big budget operation it was! The attention to detail… you had a kitchen upstairs, and they were cooking for us three or four times a day, and an amazing team of people running incredible studios. You could get anything you wanted, any piece of gear. On the top of that, Tokyo was awesome too! Once in a lifetime.
We found your thoughts on the creative process in the conversation that you had with Electronic Beats very interesting and are in agreement, but at this point we are also very curious: are you studying? If so, what are you focused on?
Not anymore. I studied music technology for three years. I think some people thought I was trying to talk negatively about hardware, but obviously you can achieve a whole lot with it and is great for getting ideas down quick along with a million other things. I just wanted to reinforce its not the only option because it seems like the loudest voices are the ones saying it’s the only way. Who can afford a bunch of hardware anyway?
The vintage sounds of the elements that you use seems to be the result of a well-worn analogue studio, but we have read your statement: “I can not even afford bed linen, let alone to 909”. Is it hard to be a satisfied producer because of this lack of equipment?
I do have bed linen now! I’m very far from being a satisfied producer; I still have a lot of work to do. I feel like the music could be a little bit more expansive and I’m working on perfecting techniques everyday. The dry sounds I use, they don’t sound very nice at all! I do like the imperfect nature of older records though, so it’s about striking the right balance I guess. You don’t want it sounding too good, but also not so bad that everyone thinks you are actually just bad.
[A cura di Matteo Cavicchia e Ludovico Vassallo][/tab]
[/tabgroup]