Dobbiamo riconoscere che le aspettative erano tante, e che il gioco di riconfermare le emozioni e il bellissimo lavoro fatto lo scorso anno era il compito più difficile da portare a termine. Accelerare: questo il manifesto, il tema che guidava la rassegna. Per noi prima di tutto significava fare un confronto con se stessi, scegliere come unità di misura la storia che era stata scritta fino all’edizione precedente, in un filo all’insegna della continuità; invece ci è sembrato che roBOt stesse accelerando sì, ma per raggiungere qualcun altro. Tra cashless, spazi enormi e un palazzo Re Enzo sempre meno festante e sempre più intellettual-contemplativo, l’icona del roBOt più “confuso” è un claim (#XLR8) che nulla porta quando usato al posto del nome ufficiale se non a sbiadire l’identità di un festival (manifesti, spille, adesivi…) che mai come quest’anno aveva invece bisogno di rimarcare tutti i ricordi che era stato in grado di generare.
Le sorprese, se così si possono definire, sono state soprattutto quelle che brillano di luce propria e non del richiamo mediatico del grande nome ad effetto: Lena Willikens che bilancia le sue performance a Re Enzo con un live A/V molto “wannabe” con un set in Fiera che ha messo d’accordo tutti. Poi Helena Hauff, Chevel, DāM-FunK, John Talabot (sempre più maturo dietro a un paio di giradischi), Nathan Fake, Prefuse 73. Pace e amore per gli italiani, nella sala che ci aveva ospitato durante una lecture e che quest’anno vedeva trionfare i soliti noti Godblesscomputers, Populous, Capibara, Yakamoto Kotzuga (che rappresentava fieramente i nostri Giant Steps nella cornice di Signal Hills per m2o). Immancabile l’assente dell’anno: Levont Vincent (l’anno scorso a non presentarsi fu Jackmaster). Ma quello fa parte del gioco. Meno parte del gioco, almeno per gli standard italiani, l’accoppiata di back to back: se Ben UFO e Jackmaster il venerdì hanno un po’ deluso (vedendo probabilmente la sala grande non del tutto popolata avranno pensato “Vabbé, qua bisogna mena’!” impoverendo il loro potenziale), Daphni e Floating Points il sabato hanno fatto pienamente il loro, arrivando progressivamente a suonare un po’ di tutto (e suonare “un po’ di tutto” davanti ad almeno cinquemila persone è una impresa rarissima e notevolissima).
Tra gli addetti ai lavori ha fatto scalpore la nota piccata sul profilo di The Bug, che tira le orecchie al festival per questioni organizzative: ma degli artisti non ci si può mai fidare al 100%, tanto bravi a conquistare il palcoscenico mediatico nel momento in cui c’è da lamentarsi, tanto vaghi – giusto per prendere un altro caso accaduto nei giorni del festival – da non spiegare ai propri fan che il cambio orario che potrebbe stravolgere una lineup è il risultato di un “capriccio” personale (ogni riferimento a Trentemøller è puramente casuale).
Tra le cose che per noi non vanno in assoluto c’è stata la scelta di un palco open air: scelta decisamente coraggiosa, diciamo così, se pensiamo a Bologna in ottobre. Scelta ancora più insensata anche in considerazione del fatto che l’ultima edizione di roBOt al Link aveva lo stesso uno stage esterno, ma era coperto da una tensostruttura: quindi sì, il problema “metereologico” ce lo si era posto, in passato. Un’altra cosa su cui si poteva fare sicuramente meglio era la lineup: probabilmente non un errore di cartellone complessivo, ma sicuramente una disposizione in scaletta che poteva essere gestita meglio. Squarepusher e Evian Christ in contemporanea possono risultare una forzatura nei confronti di chi non ama il genere “complicato” di elettronica, o i suoni di Cortini non meritavano di essere rilegati in un ambiente esterno, ma allo stesso tempo non possiamo sposare la tesi di chi si lamenta di DāM-FunK che si esibisce così presto (gli orari erano indicati chiaramente, che poi in Italia sia visto da sfigati arrivare presto è un problema tutto italiano a cui sarebbe anche ora di dare un taglio).
Un paragone veloce con quello che il biglietto offriva nella passata edizione (costo quasi della metà) probabilmente per molti è stato metro di giudizio severissimo, come in più persone con cui abbiamo parlato hanno sottolineato. Però raddoppiare gli spazi ha un costo, allestire un festival con spunti da grande situazione internazionale ha un costo, così come tanti piccoli altri dettagli: questo giustifica in parte le spese, ma giustifica d’altro canto a questo punto anche la netta e brutta differenza di pubblico tra il venerdì e il sabato, con chiaro riferimento al fatto che nella maggior parte dei casi qualcuno ha dovuto scegliere dove “investire” i propri soldi. Il prezzo del biglietto, sommato al resto (una birra sei euro?!), diventa una cifra piuttosto alta a fine serata.
Insomma la scelta dichiarata di accelerare e di farlo mettendo pure da parte nomi più “commerciali” (virgolette d’obbligo), puntando a proporre un cartellone omogeneamente per “intenditori” (virgolette d’obbligo), ha soddisfatto a metà. Perché la domanda cambia in base all’offerta e il pubblico di Villalobos, pronto a fare festa grande (spendendo per divertirsi), è ben diverso dal pubblico di Squarepusher & co. (molto più attento a come spendere i propri soldi e, in generale, molto più composto). L’assenza di un headliner in grado di rapire e accontentare tutti si è sentita notevolmente, in particolar modo il venerdì, quando gli spazi della Fiera sono risultati chiaramente sovradimensionati rispetto all’affluenza (un’affluenza comunque superiore, e di molto, a quella di un Link pieno come un uovo). Molto meglio il sabato, dove l’atmosfera è stata complessivamente perfetta (anche grazie alla valida organizzazione degli spazi e della logistica: niente code, niente strettoie, peccato solo per l’area food veramente striminzita e seminascosta), e dove c’è stato un perfetto equilibrio di affluenza fra i palchi: una delle poche note negative dell’anno scorso, infatti, era la cannibalizzazione a cui il Main Stage aveva sottoposto a più riprese l’altro palco, col primo strapieno e il secondo così così. Ecco, la giornata del sabato, pur senza l’headliner epocale/supercommerciale, è stata una delle migliori giornate di sempre nella storia degli eventi di musica elettronica in Italia, anche per atmosfera.
E’ bastata lei per riprendersi dalla mezza debacle del venerdì (una debacle come dicevamo relativa, influenzata dalla mostruosa grandezza degli spazi)? Se si stava fuori al gelo ad ascoltare la Hauff no, ma se si godeva il flusso dei set – tutti validi – e l’atmosfera generale sì. Se si pensava a come, per essere in un gigantesco spazio fieristico, si sentisse tutto sommato molto bene e le luci fossero più che ok, beh, allora sempre sì. Chiaro, l’amaro in bocca resta. La sensazione di una accelerazione non riuscita è innegabile. Speriamo non sia questa accelerazione a metà a far finire fuori strada un festival che anno dopo anno ha sempre regalato tantissimo, in qualità vera e buone vibrazioni super-autentiche; d’altro canto, pare proprio che questa scelta “accelerazionista/gigantista” per gli spazi notturni tanto discutibile fosse una strada obbligata e non, appunto, una scelta libera (per contrattare un certo tipo di spazi devi dialogare in alto, molto in alto, così in alto che spesso gliene importa gran poco che tu stia facendo uno degli eventi più importanti di sempre per una cosa, però, che ancora non viene vista del tutto come cultura: quando tratti da posizioni di debolezza, in Italia va così). Ad ogni modo: l’anno prossimo, se tutto va bene, sarà comunque fondamentale calibrare ben più che accelerare.
Scritto da Antonio Fatini e Damir Ivic, con il contributo di Marco Ricci, Matteo Cavicchia, Emiliano Colasanti, Ludovico Vassallo, Dimitri Quintini, Costanza Antoniella, Alessandro Montanaro, Federico Raconi.