Ad Alessio Armeni lo leggi negli occhi cosa significa la parola “musica”. Gli vedi le pupille allargarsi all’improvviso e illuminarsi gli occhi quando lo guardi mentre ne parla, è uno che ha fatto della sua passione il suo lavoro, lasciando quasi sempre comandare il cuore nelle scelte che ha preso. Lui è uno di quelli “old-style e me ne vanto”, una di quelle persone disposte ad andare contro tutto e tutti pur di mantenere i propri ideali. Perché è mentalità. Perché è stile di vita. Alessio, meglio conosciuto come Freddy K, è uno che “spinna” vinili da venticinque anni un po’ ovunque in Europa: personaggio forte e importante nella scena rave romana dei primi anni ’90, famoso per “Virus”, radio show di quegli anni, e oggi proprietario di KEY Vinyl e Unbroken Booking Agency, è uno che ha resistito alle generazioni, all’avvento delle tecnologie, ai cambiamenti del panorama del clubbing. Da cinque anni vive a Berlino e la sua figura è tornata ad essere più forte di prima, un punto di riferimento e di ispirazione per le vecchie e nuove generazioni grazie alla sua eterna giovinezza da clubber prima, e dj poi. Perché Freddy K è uno che viene dal dancefloor e ad esso ancora oggi appartiene. È uno che condivide i sorrisi delle persone, sia da davanti che da dietro la consolle, e questo vale per lui come un elisir di eterna giovinezza.
Noi di Soundwall lo abbiamo incontrato per voi proprio nel suo studio, museo di vinili nel cuore di Berlino “casualmente” locato proprio sopra uno dei negozi di dischi più famosi della città. Alessio ci ha raccontato chi è Freddy K oggi e chi sarà domani, senza dimenticare il passato in Italia, a Roma in particolare, e senza chiudere la porta dei ricordi alle sua spalle, pur tenendo ben spalancata quella del futuro.
A Berlino sei diventato famoso per la quantità di dischi con cui ti presenti ad ogni data e per la durata dei tuoi set. Tu che sei profondamente “old school”, come ti trovi al confronto con le nuove generazioni e con l’avvento della tecnologia? E con i nuovi modi di suonare?
Partendo dal fatto che questo è un discorso un po’ lungo, personalmente credo che ci sia qualcosa da rivedere nel messaggio che alle nuove generazioni viene trasmesso. Parlando di me, parto da lontano per arrivare poi nello specifico: io amo e suono il vinile perché è con il vinile che sono cresciuto. È più bello, è più artistico e sostengo che l’arte del djing comporti anche la pratica del missaggio. Chi abita qua a Berlino lo sa: faccio quasi sempre lunghe maratone e suono sempre e solo vinile…e spesso, spessissimo mi trovo davanti a domande tipo “ma come fai? Quattordici ore di set solo vinile? Non mangi? Non vai al bagno?”. Il problema, ora, non sono le quattordici ore, le dodici, le otto o le sei, ma sono le ore di musica comprata e di supporto alle label. Il vinile è l’unico modo per supportare il movimento musicale se ci credi davvero, e le quattordici ore sono quattordici ore di musica comprata, di soldi spesi in vinile, di soldi che supportano le varie etichette. E non è un discorso antico o fomentato o da puritano, ma è questa è una situazione che con il digitale non si va a creare. Perché? Perché i tre-quarti della musica che propone chi suona in digitale vengono da promo ricevuti o da musica scaricata sui vari siti pirata. Poi insomma, dipende da artista ad artista. Per il mio caso specifico, a me basta viverci con la musica, e sono venticinque anni che investo in essa con gli alti e i bassi inevitabili, e va bene così… Molti altri dei miei colleghi però, la vedono diversamente. Specialmente i nomi super affermati, una volta arrivati a un certo livello, quasi tutti smettono di comprare musica, di supportare e sostenere i giovani artisti e tutto quanto crea un’ipocrisia incredibile. Alle nuove generazioni che messaggio arriva? Quello che spesso basta avere un capello figo, qualche vestito alla moda, due chiavette piene di musica (forse comprata, forse no) e siamo tutti dj…insomma domina assolutamente l’egocentrismo. Io non sono contro la tecnologia, assolutamente. Ma credo che essa debba essere un completamento di tutto il resto: una chiavetta può servire per suonare un promo che deve ancora uscire, ma stare a fare il dj, girando il mondo in lungo e in largo, senza mai portarsi nemmeno un disco in valigia, lo reputo sbagliato, brutto. Specie perché i giovani è a questi dj divi che si ispirano, e di questo passo, tra qualche anno, nessuno più saprà mettere a tempo due dischi, nessuno più sentirà il bisogno di comprare vinili e la crisi del mercato discografico aumenterà sempre di più. Sinceramente, se lo facessi io, se mi presentassi in un club a suonare senza neanche avere un disco in valigia, mi sembrerebbe anche di prendere un po’ in giro il pubblico che paga l’ingresso. Il dj, sta sempre di più acquistando il ruolo della “rockstar”, di un divo, e questo non mi piace. C’è sempre meno passione. Poi va beh, a Berlino in particolare, per fortuna il mito del vinile resiste e la gente crede ancora che il vinile sia sinonimo di passione, che i dischi abbiano un valore romantico, ma non è così ovunque purtroppo. Il ruolo del dj si è un po’ stravolto, e chi si lamenta spesso è proprio la causa di questo cambiamento. A partire dai promoter, spesso disposti a pagare grandi cachet ad artisti che non si levano neanche la giacca per suonare, che sembrano stiano in consolle solo ad aspettare di ricevere i soldi! E premetto che sto’ parlando dei djs techno, non EDM. La musica è arte e passione e anche se per il dj essa diventa un lavoro, ognuno dovrebbe cercare di non dimenticare questo concetto, continuando a provare a trasmettere questi valori sempre, a chi paga il biglietto d’ingresso così come alle nuove generazioni di dj che guardano i più grandi, i più famosi, come dei veri e propri idoli.
Nella tua carriera, sia da dj che come owner di un’agenzia di booking, hai sicuramente lavorato con un gran numero di artisti e personaggi appartenenti al mondo della club culture. C’è qualcuno con il quale ti sei pentito di aver collaborato? O qualche artista con il quale invece hai scelto di non lavorare, per poi pentirtene a distanza di tempo?
Ovviamente, errori da parte mia o delle persone con le quali ho collaborato ci sono stati, ci sono e probabilmente ci saranno sempre. Si tratta di lavoro e capisci da te che come in ogni ambito lavorativo le incomprensioni o le diversità di vedute fanno parte della quotidianità. In ogni caso, però, se magari ho collaborato con qualcuno in passato e per una serie di motivi abbiamo poi preso strade diverse, se dall’esterno vedo che sta ottenendo i frutti e i benefici del suo lavoro grazie alle sue qualità, ne sono orgoglioso e felice. Significa che anche quella volta, tutto sommato, c’avevo indovinato e se poi le strade si sono separate, va bene così. Non me ne pento, ma servirà in futuro a me e lui, per comportarci in maniera diversa, o non essere così ferrei sulle proprie vedute in futuro. Poi, ovviamente, c’è anche tanta gente nella quale avevo creduto e che poi mi ha deluso. Fa parte della vita: questo è un lavoro per me e mi sono sempre assunto le responsabilità delle mie scelte, e giuste o sbagliate, non me ne sono mai pentito.
Sei uno che sa far crescere i giovani talenti, sai valorizzarli e prepararli ai grandi palcoscenici. Mi vengono in mente PVS o gli spagnoli Héctor Oaks e Leiras. Cosa deve avere un giovane per diventare un tuo gioiello? Quale parte di talento devono possedere i giovani dj emergenti che scegli di avere sotto la tua ala?
Anche su questo, credo di essere abbastanza puro. Il punto di partenza deve essere il feeling e il rispetto reciproco con le persone, che spesso capita a pelle, a primo impatto. Héctor, ad esempio, è entrato in Unbroken dal nulla praticamente: io lo vidi suonare un paio di volte e mi colpì il rapporto che aveva con la gente, come interagiva con chi era lì ad ascoltarlo. Era bravo a suonare e io sentivo di avere un buon feeling con lui perché mi sembrava una persona vera, con passione e amore per la musica, uno disposto a fare sacrifici per inseguire il proprio sogno. Ed è questo quello che cerco in primis nei ragazzi, oltre al concept della musica che propongono che deve essere affine a quella che Unbroken presenta. Il rapporto umano, l’educazione e l’umiltà aprono mille portoni, e sono queste le qualità che pretendo i “miei” ragazzi debbano avere. Oltre alla tecnica, ovviamente, che deve sposarsi con i miei parametri. Io sono uno che ha fatto un sacco di sacrifici, da sempre, e se leggo negli occhi di qualcuno la voglia di farli, proprio come ho fatto io, è già un ottimo punto di partenza. Ho quarantaquattro anni, vengo dal dancefloor, sento di appartenerci ancora e quindi ho sempre interagito con le nuove generazioni…tutto questo mi aiuta a capire un po’ meglio i ragazzi di ventidue-ventitré anni che sognano di fare i dj. Stesso discorso vale per Leiras, che ho conosciuto a Berlino, mentre PVS è un ragazzo che conosco da una vita. Poi, guarda KEY Vinyl: non l’ho mai spinta tantissimo, ma ho sempre scommesso sui giovani. Ho scelto sempre di intraprendere la strada più lunga e difficile, facendo uscire gli EP degli artisti direttamente e solamente con il loro nome senza i remix di artisti eccellenti; e credimi, che magari le soddisfazioni ci mettono di più arrivare, ma quando arrivano sono più grandi. Per questo cerco ragazzi che debbano essere simili a me, persone vere che non dimenticano le proprie origini e lavorano sapendo aspettare i frutti dei propri sacrifici. Poi, purtroppo, devo ammettere che sebbene sia italiano, vivendo a Berlino e interagendo con tante persone che vengono da tanti paesi diversi, ho scoperto quanto non mi piaccia più la nostra mentalità, ultimamente quindi cerco di stare un po’ a distanza dai miei connazionali. Mi dispiace dirlo, ma non siamo mai rilassati, non ce ne rendiamo conto e per questo perdiamo le occasioni…
Andando un po’ più nel dettaglio, sei a Berlino da ormai cinque anni. A cosa credi che sia legato il tuo rinnovato successo? Ormai sei resident affermato del party Homopatik, suoni spessissimo al Tresor, poco tempo fa hai fatto chiusura al Berghain…
Come hai detto, sono cinque anni che sto qua e ormai ho riscoperto il vero Alessio. L’Alessio che ero io, ho ricominciato a suonare tanto, e ho dimenticato la rabbia che avevo a Roma. Riesco ad essere di più me stesso, faccio una vita più rilassata, conosco nuova gente, faccio le mie cose con calma, e venire qua è stata la cosa più bella che potesse capitarmi. Berlino mi aiuta a sentirmi ancora giovane, ad avere sempre nuovi obiettivi, a lanciarmi in nuovi progetti. È per questo che è tornato il mio “successo”: quando qualcuno sta bene con se stesso, vive meglio e di conseguenza rende meglio. Personalmente, sin dalla prima gig (che fu all’About Blank per un party Homopatik), ho ritrovato la gioia di suonare che a Roma avevo perso.
Quindi, quanto è stato importante per te lasciare Roma per catapultarti nella realtà berlinese?
Tantissimo. Qua mentre suoni, percepisci l’energia positiva della gente mentre balla, senti la fiducia degli altri nei tuoi confronti e tutto viene più facile. A Roma ormai provavo solo rabbia, delusioni, ero il “matto” della situazione. Qui sento l’amore e la passione della gente, oltre che la stima. Se ripenso alla chiusura al Berghain, e la paragono con le serate a Roma, sembrano due universi diversi.
Parlami di quella sera. Qual è il ricordo più bello di quella domenica notte? Quali sono le sensazioni che senti ancora vive?
Se ci penso mi vengono ancora i brividi. Ci credi che ho pianto per una settimana dopo quella serata? Ho ricevuto messaggi d’amore da parte di gente di tutti i tipi, ma onestamente quelli che facevano più piacere erano quelli da parte dei veterani, quelli che vanno al Berghain da quando ancora si chiamava Ostgut. Gente che mi ha scritto che non si era mai divertita così tanto in tanti anni…Sono state emozioni forti, fortissime, che sento ancora vive. Vedere tutte quelle persone rimanere a ballare la mia musica fino all’ultima nota, vederli chiedere ai ragazzi dello staff di farmi ricominciare a suonare una volta finito. Convincerli, suonare un’altra ora e con le luci accese, vedere i sorrisi sul volto di tutti, brividi, e lacrime a ripensarci…e poi tutti quanti ad aspettarmi fuori, fino alle 13.00 di lunedi più o meno, per salutarmi ed abbracciarmi, per congratularsi…è stata forse la notte più bella della mia vita.
Essendo una città che vive di musica ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, quali sono i posti ad eccezione dei club, che più ti piace frequentare?
Per esempio mi piace molto passare serate all’Irish Pub qua vicino il mio studio con Alan (Alan Sommerville di Kinetic). Andiamo spesso lì per bere qualche birra guardando la Premier League. Lui è un tifosissimo del Manchester United, io da sempre romanista ormai simpatizzo per i Red Devils. È incredibile come anche lì sia possibile incontrare persone legate al mondo della musica. L’ultimo è stato Samuel Kerridge, ad esempio, ma in queste occasioni preferiamo non parlare di lavoro e goderci la serata nella maniera più tranquilla possibile. Ovviamente nel poco tempo libero (se si esclude il tempo passato nei club) adoro vedere e scoprire sempre cose nuove insieme alla mia companga Lizzy…Berlino è sempre viva!
Hai un grande successo in terra berlinese dietro la consolle nonostante tu non produca più un disco da tanto tempo. C’è forse qualcosa che bolle in pentola e che vorresti anticiparci?
Si! In esclusiva, proprio perché mi sento molto ispirato in questo periodo, posso anticiparvi che nei primi mesi del 2016 uscirà un nuovo album su KEY Vinyl che sarà il riassunto di tutte le esperienze che sto vivendo da cinque anni ad oggi. Sarà un album legato a tutto quello che ho intorno, specie a un certo ambiente e mentalità alla quale sono da sempre legato, sin da quando ero ragazzo a Roma e andavo a ballare al Mucca Assassina o alle serate punk/rock del Uonna Club. Siamo già un passo avanti, grazie a un ragazzo squisito con il quale collaboro che fa il fotografo, Søren Drastrup, ho già le foto delle varie copertine. L’album proporrà techno pura, di sperimentale c’è davvero poco; voglio che rispecchi la mia personalità, che sia un album il più ballabile possibile. Si chiamerà “Leather, Steel and Fist”, un nome un po’ forte che però rende subito l’idea della mia vicinanza con un certo tipo di cultura, così viva qua a Berlino e al Berghain in particolare, dove trovo l’ispirazione e nuovi amici e collaboratori. Sono passati venti anni dall’ultimo mio album e finalmente sento che è arrivato il momento di rilasciarne uno nuovo. Non sono mai stato un “vero” produttore, ma sempre più un dj, per questo l’album sarà realizzato con l’aiuto di un forte ingegnere del suono (vi svelerò il nome nelle informazioni dell’album). Cosa a cui tengo moltissimo è il fatto che ovviamente sarà dedicato al mio migliore amico di sempre, Max_M, scomparso recentemente in così poco tempo.
Così su due piedi, se penso al Freddy K produttore, la prima traccia che mi viene in mente è “Devo Andare”. Perché, sebbene sia un brano che tutti i tuoi fan conoscano e richiedano, ti privi dal suonarlo?
Ahaha! Si, la cosa bella è che la suonano gli altri e non la suono io (vedi Fiedel). Perché non la suono? Perché nel nuovo album che sto preparando ce ne sarà una nuova versione; cambierà qualcosa, voglio farla un po’ un po’ più ipnotica e moderna…il brano nacque veramente per gioco. Anche se riguardo questa traccia, ho sempre ricevuto molti complimenti, a partire dai ragazzi che ballano alle serate ai vari proprietari dei club, dai francesi ai giapponesi che la ricantano con il loro accento. C’è qualcuno che me l’ha cantata addirittura in inglese, traducendola….ma non rende molto (ride).
La tua nuova serie di podcast “Krzrzrz” ha un qualcosa di romantico. L’ispirazione, la musica, le immagini, la fotografia. Dove è nata l’idea? E qual è il messaggio che vuoi lanciare?
Ho sempre avuto una vena artistica un po’ più ampia, che non si ferma solo alla musica. Sin da ragazzo, scrivo e disegno. Sono appassionato di cinema, delle sceneggiature in particolare. In più, ho notato che ormai di serie di podcast ce ne sono tante, troppe, e sono tutte uguali! Dunque, ho voluto creare una nuova serie e personalizzarla. Ho sempre amato la fotografia, e ho la fortuna di conoscere Søren Drastrup. Amo e mi piace l’idea di suonare partendo solo da uno scatto, mi permette di cambiare la musica a secondo delle sensazioni che la fotografia che vedo mi trasmette, di spaziare negli stili musicali. Volevo dare un valore artistico anche alle foto e alle immagini, e da lì costruire una storia grazie alla musica. Mi piace questa idea e voglio che sia random senza scadenze, così posso dedicarmici quando sono davvero ispirato. Sono parole mie anche le descrizioni, che scrivo appena finisco di suonare in preda all’ispirazione. Il podcast è nato per questo, per mostrare anche un altro lato di me, che nessuno conosce e che io stesso ho riscoperto da poco. Non ho niente da perdere.