I fatti di Parigi hanno colpito tutti. Inevitabile. Un mare di emozioni, di parole, di condoglianze, di considerazioni. Un mare non sempre limpido, spesso increspato dalla rabbia, inquinato dall’ignoranza, deturpato dall’iprocrisia di chi vuole marciarci sopra – con irresponsabilità – per fini propri. Poi figuriamoci: capita a tutti, anche alle persone migliori, di scrivere sull’onda delle emozioni qualcosa di sopra le righe, di non lucido, di non azzeccato. Ecco, a Levon Vincent è successa quest’ultima cosa, nella migliore delle interpretazioni possibili. Tra l’altro subito dopo una data italiana – al Dude a Milano, dove di fronte a noi ha regalato uno dei set migliori che gli abbiamo mai sentito fare – e appena avuto coscienza di quello che stava a Parigi ha postato un primo status che oltre alle condoglianze tanto inevitabili quanto sentite diceva un qualcosa in più. Purtroppo, diceva un qualcosa in più. E quel qualcosa era riassumibile con: bisogna dare alla gente le armi, così si possono difendere (“People need to arm themselves”).
Il post completo lo potete estrapolare da questa immagine (o questo post se preferite):
Già, bisogna ricorrere ad uno screenshot, perché poco dopo Levon ha editato il testo, rendendolo più asciutto, stringato, senza considerazioni a latere sulla necessità di armare la popolazione come unico modo possibile per gestire la situazione: una posizione che ha suscitato immediatamente un mare di critiche. Da qui, la scelta di cambiare, editare il tutto. Tuttavia senza rinnegare mai quanto scritto precedentemente (vedasi appunto la scelta di postare lui stesso, dopo varie critiche per la mossa “autorevisionista”, lo screenshot che raffigura lo status così com’era orignariamente).
Se le cose spiacevoli non fossero già mancate, possiamo aggiungere anche una reazione inutilmente piccata alla critiche: un post passivo-aggressivo. “Alright everyone, go for it. I’m done. I’m not a musician anymore and you are not my friends, I’ve somehow become some kind of hyped up public figure and part of pop culture. I’m supposed to a musician, working independently and operating my own network and interfacing with fans directly. I really understand now after this year that this really isn’t a personal page for fans anymore, it’s a public page. Look Ma, I made it! Do your worst. I’m out!”. Riassumendo, una specie di “Mi criticate? E allora me ne vado e non gioco più, brutti cattivi, pensavo che foste miei amici”, con tanto di sarcasmo sul come ormai lui sia diventato una figura pubblica (…che poi è la verità, inutile caricarla di sarcasmo, è una figura talmente pubblica che com’è giusto che sia richiede anche cachet di un certo tipo se chiamato a suonare, dato che appunto non è “uno qualunque”, ma un artista il cui talento è conosciuto e riconosciuto – anche economicamente). A chiosa di tutto, gli inviti a non commentare, nello status editato: “Please, don’t comment on this thread”.
Mettiamo in fila le cose che non vanno? Si potrebbe iniziare dall’invito ad armare la gente, ma diciamo che questo può rientrare nella facoltà di esprimere delle opinioni: questa libertà però si accompagna al corollario che le suddette opinioni possono essere discusse e criticate, sennò non sono opinioni, ma sono sfoghi corporei di color marrone (o del verde della bile) colmi di irragionevolezza e soprattutto, in momenti come questi, irresponsabilità. Tuttavia ci sono politici di professione che giocano a questo giochetto, e lì la cosa è ancora più grave: qui Levon Vincent è insomma fra i meno colpevoli. Non brilla certo per lucidità ed intelligenza, ma avere un’opinione non è una colpa, come principio di base. Partiamo da questo assunto.
La colpa però è quando questa opinione non vuoi discuterla. Quando non accetti che, se tu posti una cosa su un social network (…ehi, avete presente il significato di “social”?), la cosa in questione possa essere discussa, anche aspramente. E’ altresì una colpa non rendersi conto del proprio ruolo pubblico. Questa forse è la cosa che salta meno all’occhio, ma a pensarci bene è quella che dà più fastidio. Premesso che le puttanate non bisognerebbe dirle quasi mai qualsiasi mestiere si faccia nella vita, quando si ha una professione che per un motivo o per l’altro ti spinge a stare in mezzo al pubblico e spinge il pubblico suddetto addirittura a pagare per vederti, sentirti, seguire le tue mosse (un giro economico che ti permette di vivere in modo più agiato rispetto a quanto ti capiterebbe se facessi un lavoro “normale”), ecco, in questi casi bisogna essere attenti il doppio, il triplo. Non vogliamo scadere in un’altezzosa pedagogia morettiana da “Le parole sono importanti”, però ecco, maledizione, le parole sono importanti davvero, a maggior ragione se non sei proprio un signor nessuno.
Abbiamo sempre amato Levon Vincent non solo per la sua musica, ma anche per la passione e alcune prese di posizione molto forti a favore di una club culture “sana”, priva di ego e deviazioni biecamente commerciali e ricca invece di attenzione alle radici e di spirito collaborativo. Un musicista non è assolutamente obbligato a schierarsi, a fare dichiarazioni “impegnate” (siano esse di politica che di arte), non è compito suo, ma proprio per questo quando succede la cosa non può che farci piacere. Però ecco, se succede bisogna essere sicuri prima di tutto di avere acceso il cervello, secondo di tutto di essere pronti a discuterne, ad affrontare critiche e reazioni di vario segno. E qui torniamo al primo punto, quella sulla “libertà d’opinione”: che una posizione in cui “People need to arm themselves” non sia propriamente la più intelligente è evidenziato molto bene ad esempio da domande fattegli nello snodarsi della discussione “Ok, a breve suoni nella mia città, mi vuoi consigliare qualche fucile specifico da portarmi dietro andando al club?”. Perché sì, non è che qua si vuole portare la club culture su specifiche posizioni politiche a forza, ma è anche vero che la club culture ha nel suo dna – e lo dicemmo ai tempi di Ten Walls – indubitabilmente delle componenti libertarie, pacifiche, tolleranti, lontane dall’uso della violenza come metodo di azione e risoluzione. E già qui Levon Vincent ha toppato clamorosamente.
Toppa altrettanto, lo ribadiamo, quando si concede reazioni piccate, quando si rifiuta di discutere in modo razionale le sue affermazioni (da lui stesso non rinnegate), quando fa il passivo-aggressivo facendo capire di essere vittima di un giochetto – quello dell’esser personaggio pubblico – che lui non vuole e non riconosce. Mah. Peccato però che questo giochetto sia parte della sua vita, del suo lavoro, delle modalità con cui interagisce con le persone e le persone interagiscono con lui. Ha sbagliato tre volte, Levon. Per quanto buona sia la sua musica e per quanto belle siano le sue affermazioni su cosa dovrebbe essere la club culture più autentica, affermazioni che spesso ci trovano molto d’accordo, stavolta va proprio detto che ha fatto errori gravi. Nel migliore dei casi, dettati da scarsa lucidità. Nel peggiore dei casi, dettati da ipocrisia. A occhio, fra le due è la prima. Ma in ogni caso così non va bene, proprio per nulla.