Per chiudere il 2015 col botto ci serviva una cosa grossa.
Più grossa della foto della Meloni che mette i Marò nel presepe e degli stronzi che spoilerano Star Wars fuori dai cinema.
Ebbene sì: è arrivato il momento tanto atteso in cui sveliamo quelle che secondo noi sono state le migliori uscite discografiche della stagione.
Non vi preoccupate, non faremo classifiche: abbiamo chiesto a molti nostri collaboratori storici (compresa qualche nuovissima entrata) di scegliere i due titoli che più di tutti gli altri hanno segnato i loro ascolti durante l’ultimo anno.
Nessun vincolo di genere o stile: ci sono dischi da ballare fino al mattino e altri che sarebbe meglio ascoltare da soli sotto le coperte.
E sì, alla fine un vincitore l’abbiamo trovato comunque, ma facciamo che non ve lo diciamo.
Tanto lo capite da soli!
Bienoise
Meanwhile, Tomorrow
Un arrivo dell’ultimo momento, un botto in extremis dal quasi esordiente Alberto Ricca, per una White Forest che chiude in bellezza un 2015 già notevole grazie agli album di Broke One e Furtherset, e al premio di migliore etichetta dell’anno assegnatole dal circuito Italian Quality Music Festivals. Meanwhile, Tomorrow è un album vero, che costruisce un discorso coerente e sfaccettato pescando da vari stili elettronici e uscendone nuovo, a tratti inaudito. House, campioni misteriosi, techno, psichedelia, rumori. Pista (un promo di Focus Numbers a Villalobos, presto!) e cervello. Il pensiero va a capolavori come Techno Primitivism di Juju & Jordash, o American Intelligence di Theo Parrish; non tanto per affinità precise, quanto per ampiezza dello sguardo e capacità di inserirsi in una tradizione rinnovandola. – Andrea Pomini
Broke One
Reminiscence
Altro disco dell’anno, “Reminiscence” di Broke One: pure qui stiamo fuori dai giri giusti (è pure italiano, ‘sto pezzente), fuori dai trend giusti (no techno, no oscurità, piutosto anni ’90 “intelligenti” ma non la versione sporca, acida e robbosa à la Stott bensì quella che si culla su pad atmosferici di classe), per giunta deve ancora da migliorare in alcune malizie sulla resa sonora, che spesso sono quei particolari che fanno la differenza. Però che classe, nelle scelte, nella armonizzazioni. Elettronica danzabile con un cuore e una malinconia: rarissima, oggi. Ora che anche la scena Beats italiana si sta rivolgendo a faccende molto più quadrate e da dancefloor (vedasi Godblesscomputers; e vedrete a breve pure Machweo, per dire di due bravi), “Reminiscence” deve essere visto come un benchmark assoluto, fatto da uno che con la scena Beats suddetta – quella più sotto la lente d’ingrandimento di noialtri media di settore, per meriti veri – non è mai c’entrato particolarmente. Ma appunto, Broke One è (per ora?) fuori dai giri giusti, maledetti giri. – Damir Ivic
D’Angelo and The Vanguard
Black Messiah
Ok, è uscito nel 2014. Proprio tra il dolce e il caffè del pranzo di Natale.
Ma è nel corso di quest’anno che abbiamo avuto modo di approfondire “Black Messiah” e amarlo per quello che è. Non solo l’album del ritorno sulle scene di uno degli artisti più influenti della black music di questi ultimi vent’anni, uno che per lo più era dato da troppo tempo per disperso, ma un disco che racchiude e racconta un periodo storico ben preciso della storia sociale, politica e culturale degli Stati Uniti. “Black Messiah” va preso per quello che è: una specie di saggio musicato sulla storia della musica nera. Dentro c’è di tutto: il jazz, il soul, il funk, Prince (un sacco di Prince), James Brown, i Roots e D’Angelo. Sì, nel disco di D’Angelo c’è un sacco di D’Angelo.
E a noi mancava un casino. – Emiliano Colasanti
Dj Sotofett
Drippin’ For A Trip (TrippADubbMix)
Se non fosse stato per la Honest Jon’s Records, il nome di Sotofett risulterebbe ancora uno di quei best kept secret del mondo clubbing e la sua scoperta sarebbe affidata a malati di Wania e Sex Tags o ad organizzatori di festival italiani avanguardisti con buona pace del risultato finale. Nel suo debutto su lunga distanza, lo sconfinato universo musicale del producer norvegese ha libero sfogo, grazie anche a collaborazioni con artisti come Gilb’R, Jaako Eino Kalevi e Philipp Lauer. L’ascolto di Drippin’ For A Trip ci catapulta su frequenze cosmiche in armonia con ritmi tribali, balearici e suoni ambientali in pieno stile riddim. Un album da riprendere per gli amanti delle linee fumose, delle contaminazioni del non immediato. – Alessandro Montanaro
Il bello di questo “Drippin’ For a Tripp” è sicuramente la varietà di emozioni che riesce a suscitare grazie alla complessità e alla varietà di suoni che Sotofett e relativi guest (da Gilb’r a Philipp Lauer) riescono a inserire in ogni traccia. Due anni di produzione per un album complesso e difficile da digerire perché non c’è niente di banale, scontato o prevedibile. E’ musica profonda, che tocca le corde più sensibili dell’animo, lontana dalle facili soluzioni ogni traccia è una strada tortuosa che merita di essere ascoltata e riascoltata per scoprire sfumature sempre diverse tra ritmi lenti e africanismi, tra richiami dub reggae, balearic, IDM anni ‘90 e tocchi di house music solo accennati. La punta di diamante è sicuramente la bellissima “Nondo” con la voce di Maimouna Haugen ma tutto “Drippin’ For a Tripp” nella sua interezza è una delle punte di diamante di questo 2015. – Dimitri Quintini
Emidio Clementi, Corrado Nuccini, Emanuele Reverberi
Notturno Americano
Emanuel Carnevali è uno di quelli che ha accarezzato il sogno americano, senza riuscire ad afferrarlo. Sua l’autobiografia “Il Primo Dio”, dalla quale Emidio Clementi e due-sesti dei Giardini di Mirò, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi, hanno basato il concept album Notturno Americano. La poesia dei miserabili, dei reietti, come piace tanto a Mimì, il quale un giorno lontano, mentre serviva ai tavoli di un ristorante bolognese, si ritrova davanti un amico con tra le labbra una frase lieve e in mano un libro capace di cambiargli la vita: “Leggilo, parla di uno come te.” – Mattia Grigolo
Floating Points
Elaenia
Lo aspettavo al varco Sam Shepherd, sono sincero. Il giovane produttore inglese che si firma Floating Points era reduce da una serie di Ep, nemmeno pochi considerando che è attivo dal 2009, attraverso i quali ha stigmatizzato momenti musicali più vari made in Uk – dalla bass music, al downtempo passando per la deep house – mantenendo intatta la sua cifra stilistica in un equilibrio che sprizza classe, competenza e buon gusto da tutti i pori. Il 2015 è stato l’anno del suo primo Lp, Elaenia per l’appunto, e siamo di fronte ad una nuova prova di forza eseguita in punta di piedi: una miscela fascinosa di beat e strumenti veri, atmosfere cadenzate e rarefatte, per un disco tutto da ascoltare e riascoltare per goderne ogni passaggio. – Maurizio Narciso
Go Dugong
Novanta
Il giro del mondo in trentaminuti, toccando quanto più possibile e facendo della raccolta il suo personalissimo patchwork musicale. Sto parlando di Go Dugong e di “NOVANTA”, la sua ultima fatica per 42 Records, un lavoro in cui il background 90ies implode su se stesso trascinando al suo interno i campioni più disparati. Balcani, America Latina, Africa e Medio Oriente: l’artista piacentino mischia con gusto, spalmando il risultato sui suoi beat hip hop trascinanti e divertenti. Il nuovo di Go Dugong è un album “giusto”…e ve lo sta dicendo uno che certe derive musicale l’ha sempre abilmente schivate. – Matteo Cavicchia
Hunee
Hunch Music
Uno degli esordi sul lungo formato meglio riusciti di questo 2015 per una delle punte di diamante di Rush Hour. Hunee condensa in poco più di cinquanta minuti tutta la sua maestria nel produrre materiale da club, specificatamente house in tutte le sue sfumature, con un passo tutt’altro che compassato per gran parte dell’album. Dai piatti alla produzione Hun Choi mantiene sempre alta l’asticella.
Il bello di un lavoro del genere è che sta benissimo ovunque, in una borsa di dischi, in un lettore mp3 o nello stereo di un auto, difficile separarsi da un lavoro così completo. – Dimitri Quintini
Iosonouncane
DIE
Questo più di altri è l’anno in cui “l’indie di un certo tipo” è entrato prepotentemente nei cuori di molti che con quel genere hanno sempre avuto poco a che fare. Se pensiamo al successo di The Giornalisti, Iosonouncane e ultimo grande tormentone di questo anno, Calcutta, “l’indie di un certo tipo” è diventato hype per “quelli di un altro tipo” e se questa cosa un po’ fa storcere il naso a qualcuno a noi interessa poco e siamo felici, perché oltretutto è italiano. Tra tutti gli artisti e gli album però scelgo DIE: concreto, pieno e tremendamente bello. Quello che merita di stare al di sopra di tutti gli altri. – Antonio Fatini
Jamie xx
In Colour
Che i confini di quella che chiamiamo dance siano sempre più nebulosi non è certo una scoperta di Jamie Smith, ma pochi altri quest’anno ci hanno fatto esplorare così tanti territori sommersi. Molti di questi continenti nuovi erano sempre stati lì: un po’ come l’America di Colombo, altri erano solo nella nostra memoria. Ma Jamie ce li ha fatti visitare con un album che riesce a essere allo stesso tempo esplosivo e molto intimo. – Daniele Cassandro
Quando in futuro si proverà a descrivere la musica di questo decennio e a catturarne lo zeitgeist, non si potrà prescindere da In Colour. Dopo aver elegantemente abbattuto le rimanenti barriere fra indie e dance elettronica, la mente musicale del trio londinese abbraccia un amplissimo spettro cromatico nelle infinite suggestioni di una scaletta che attraversa il carnival sintetico di Gosh, la dancehall futuribile di I Know There’s Gonna Be Good Times, le steel drums di Obvs, e poi Hold Tight e le sue tinte fosforescenti fino a scendere nella profonda malinconia di Stranger In A Room, ovviamente cantata da Oliver Sim.
A tutto ciò si aggiunge l’estasi dei due episodi che coinvolgono la voce di Romy: SeeSaw e soprattutto Loud Places, forse la miglior canzone mai scritta sull’amore per i club. Una scaletta irresistibile e senza passi falsi, chiusa dalla meraviglia di Girl: ecco perchè Mr. Smith è fra gli eroi di questo 2015. – Giorgio Valletta
John Carpenter
Lost Themes Remix
Il buon Carpenter, all’età di 67 anni compiuti, se ne esce con il suo album d’esordio. Tutto materiale composto con l’ausilio di Logic Pro, dentro c’è tutta la sua leggenda, un percorso che ha attirato a sé decine e decine di cloni, sparsi nel globo. Il Pifferaio Magico. Aiutato dal figlio Cody si rimette in gioco (ha mai smesso?) e il risultato è indubbiamente perfetto. Poi esce anche l’album di remix ed io sorrido, perché è bellissimo. Nomi di un certo livello mettono mano alle tracce; parlo di Silent Servant, Zola Jesus, ohGr (Skinny Puppy), Prurient e compagnia bella. Cose enormi. – Mattia Grigolo
Kamasi Washington
The Epic
Kamasi Washington non ha inventato nulla, lo sa anche lui e il bello e che non gli interessa proprio.
“The Epic” è un disco importante e lo è per tutta una serie di ragioni.
Partiamo dalla prima? Avreste mai pensato che un album di spiritual jazz registrato nel 2014 e pubblicato nel 2015 potesse ottenere riscontri notevoli in termini di hype e hipsteria (ehm) collettiva? Dai, è inutile che fate i fighi: lo sappiamo già che la risposta è no e anche se più di qualcuno pensa che si tratti di mero revival in grado di funzionare solo tra quelli a digiuno di ascolti del genere, la realtà dei fatti va in tutt’altra direzione.
“The Epic” ha avuto il merito di riprendersi il jazz e portarlo fuori dalle accademie, dai Very Bello e dai libri di Walter Veltroni: finalmente si ritorna in strada e sulle mensole degli appassionati di hip hop, musica elettronica e psichedelia. Lì dove da sempre stanno anche i classici del genere.
Lì dove tutta la musica di qualità dovrebbe sempre stare. – Emiliano Colasanti
Kendrick Lamar
To Pimp a Butterfly
In un anno di tensioni e di riflessioni dolorose su cosa significhi essere neri negli Stati Uniti, il rapper californiano ha messo insieme un albumperformance immenso. Qui dentro c’è tutto: teatro, cinema, improvvisazione, racconto e un suono che, pur cambiando faccia in continuazione, rimane sempre coeso. E sopratutto teso. Kendrick Lamar parla tutte le lingue della tradizione afroamericana: dal jazz all’hip hop, dal funk allo spoken word. To Pimp a Butterfly, nella sua varietà di registri, è un tentativo di leggere una realtà molto complessa e di ridare urgenza a un linguaggio che sembrava ormai digerito dal mainstream. – Daniele Cassandro
E’ stato un anno straordinario per la scena r&b/hip hop, con lavori che pur non avendo sfondato nel mainstream sono destinati a restare nel tempo (D’Angelo, The Internet, Vince Staples, Young Fathers, Hiatus Kaiyote, Dawn Richard).
Il 28enne di Compton però, reduce dalla lusinghiera accoglienza ricevuta da good kid, m.A.A.d city, ha ulteriormente alzato l’asticella e implicitamente riscattato i lunghi anni in cui il rap era divenuto linguaggio “di maniera”, con un lavoro che per profondità e lucidità nell’interpretare il presente musicale e sociale ha forse come unica pietra di paragone il Marvin Gaye di What’s Going On.
To Pimp A Butterfly ha poi il merito di aver rivelato il talento di Kamasi Washington, che oltre ai voli del suo sax si è qui cimentato negli arrangiamenti orchestrali. Punta di diamante di un dream team che include Flying Lotus e Thundercat, George Clinton e Snoop Dogg, Dr Dre e Pharrell, Robert Glasper e Bilal, i campioni di Sufjan Stevens e Sly Stone, e quell’intervista impossibile con Tupac Shakur a spiazzare e commuovere nel finale. – Giorgio Valletta
Perdonatemi se volete, ma per me è il disco del 2015. Non perché tutti ne hanno parlato, non perché dietro l’uscita c’era un hype smisurata, non per gli importanti featuring che ci sono dietro e non perché per Obama “How Much A Dollar Cost” è la sua traccia preferita del 2015. E allora perché? L’ho detto nella prima riga, è il disco del 2015, è il disco che non si farà ascoltare una volta e poche di più per poi accantonarlo sotto tutti gli altri nuovi o vecchi sullo scaffale, è il disco che terrete sempre là, dove la vostra mentre saprà dove recuperarlo nel momento di astinenza, nel momento di “oddio, dove l’avevo messo”, nel momento di “ma il disco di quello che ha firmato anche un paio di Reebok dove l’ho messo?”. Non è il disco da skipare, non è la voce di Kanye che dopo un po’ potrebbe risultare leggermente fastidiosa all’orecchio (ma lui c’ha da fa con l’abbigliamento e le scarpe in primis) e poi, vogliamo parlare della copertina del disco? Dei video ufficiali di alcune delle tracce dell’album? Di Kendrick che balla? No dai, non mi dilungherò in questo anche se vi consiglio vivamente di spulciarvi tutto ciò, ne vale la pena ed il tempo speso. Una serie di interessantissime considerazioni sull’ennesimo (che non è!) disco hip-hop le avevano fatte al momento dell’uscita Damir Ivic ed Emiliano Colasanti in uno scambio serrato di pensieri e ragionamenti, che vi consiglio di leggere per scoprire meglio e di più il personaggio Lamar e la sua storia passata, presente e futura. Oh, poi c’è chi invece mi vorrebbe dire che è uscito anche il disco di Dr Dre dopo anni e che Lamar può essere considerato il figlio e che deve solo imparare da lui. Ok, magari si. Un’altra volta. Non questa. – Marco Ricci
“To Pimp A Butterfly” è il disco per eccellenza che dovrebbe essere ascoltato almeno una volta da tutti. Dovrebbe essere ascoltato tra i banchi di scuola, nei musei, e persino nelle piazze di tutte le città del mondo. Perché un album hip hop così pieno di significati, concettualmente potente, completo e che suona magnificamente jazzy non si sentiva da tantissimo tempo. Il direttore d’orchestra di questa bellissima operazione artistica, Kendrick Lamar, è stato abilissimo come sempre ad incanalare tutto e tutti nella sua personalissima visione elegante dell’hip hop. Ha riunito dentro questa release discografica quasi tutte le più importanti figure della musica black – Dr. Dre, Kamasi Washington, Thundercat, Snoop Dogg, Robert Glasper, Bilal, Pharrell Williams e Flying Lotus – e ne ha fatto un album mondiale. “To Pimp A Butterfly” è anche una squisita finestra sulla cultura afroamericana. Un album entrato di conseguenza nell’immaginario di milioni di persone. Destinato a rimanere nel tempo. Epico. – Ludovico Vassallo
Larry Gus
I Need New Eyes
Il fatto che Larry Gus esca su DFA è già di per sè una garanzia, ma Panagiotis Melidis vero nome del Nostro non è certo un tipo da sedersi sugli allori, ed infatti ha sfornato un bellissimo disco che ancora una volta ci ricorda del suo talento. “I Need New Eyes” è una piacevole miscela di stili che ricordano il lato più pop e radiofonico del lavoro di Arthur Russell – e scusate se è poco! – Lorenzo Cibrario
Levon Vincent
Levon Vincent
Quando è stata annunciata la release del primo album di Levon Vincent devo dirvi che mi sono sentito male. Dopo tredici anni di EP, lo schivo produttore americano con casa a Berlino si è deciso finalmente a dichiarare il proprio stato di salute musicale con una quadrupla release in vinile. Senza sbilanciarsi più di tanto, l’album “Levon Vincent” non sposta di una virgola il discorso musicale iniziato nel 2002 con “No More Heros”. “Levon Vincent” è un lavoro prima di tutto coerente e, poi, maturo, capace di affascinare con la sua irresistibile semplicità anche l’avventore della prima ora: è techno scura ma genuina, bella, avvolgente, lenta, affascinante e sincera. Quest’omonimo primo disco è stata la ciliegia sulla torta di una carriera solida ed efficace. Chapeau Levon Vincent! – Ludovico Vassallo
Oneohtrix Point Never
Garden Of Delete
Daniel Lopatin è un bastardo! Perché non sai mai cosa aspettarti da lui e quando meno te l’aspetti, ovvero nell’anno 2015, tira fuori dal cilindro il suo migliore album in assoluto. La musica elettronica già da qualche tempo non è più una questione per pochi eletti – e meno male – ma alcuni suoni o meglio soluzioni stilistiche continuano a rimanere ostiche, riflesso dell’inevitabile diversificazione stilistica in musica, eppure Oneohtrix Point Never quest’anno riesce a far convivere noise e pop, complesse trame elettroniche a grana grossa e melodia sfacciatamente appiccicosa prodotta con chitarra – basso, in un gioco serissimo che si chiama GOD (Garden Of Delete). – Maurizio Narciso
Opolopo
Superconductor
La prima volta che sentii parlare di Opolopo fu quando Joey Negro piazzò un colossale remix di “Supersticion” di Stevie Wonder. Dopo aver cercato (inutilmente) di trovarlo, mio fratello, serafico come suo solito, mi disse candidamente: “Ma perché non chiedi? E’ il remix di Opolopo. Ma mettiti l’anima in pace, in giro non si trova..”. In effetti il disco non è mai uscito, ma la mia attenzione è caduta poi sul suo autore. Che proprio in Joey Negro e nella sua Z Records ha trovato la casa ideale per il suo “Superconductor”, che lascia esattamente la stessa sensazione di quel momento. Ogni traccia vorresti saltare al di là del banco consolle e leggerne il titolo. Invece stavolta è tutto lì. Non resta che goderselo. – Federico Raconi
Palmbomen II
Palmbomen II
Un olandese che sembra uno spacciatore e che si chiama come un personaggio di X Files? Sì grazie, ne abbiamo bisogno! Vestito di una disco music al rallenty, come un hangover lungo un intero anno, “Palmbomen 2” offre geniali spunti di riflessione travestiti da schegge techno e ambient – pensate ad una specie di versione ubriaca di Legowelt e ci siete vicini. Un’ottima produzione e video curatissimi non possono che impreziosire un lavoro che deve essere ricordato in questo 2015. – Lorenzo Cibrario
Richie Hawtin
From My Mind To Yours
E’ tornato (ed era già tornato nel 2014 col moniker Plastikman con l’album “EX” e aveva impressionato il suo pubblico e non con progetto della torre colorata al Sonar 2014 e prima ancora al Guggenheim di New York aveva dato spettacolo), stavolta è tornato, sul serio. “Dalla Mia Mente Alla Tua” è l’ultimo album firmato Richie Hawtin, uscito un po’ all’improvviso, un po’ in punta di piedi con un “Unknown Artist” in vinile, rilasciato circa 7 settimane fa sulla sua Plus8; un Unknown Artist del quale tutti avevamo avuto il dubbio fosse firmato da lui, ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo, di esporsi, di pensare fosse realmente Richie, di immaginare che stesse tornando, che avesse trovato il tempo di fermarsi coi suoi party Enter e col suo tanto amato Sake. Ed eccolo, con “From My Mind To Yours”, un titolo preciso, diretto, concreto, con tanto di sito dedicato. Principalmente ha rilasciato quest’album perché quest’anno si festeggiano i 25 anni della sua (capitanata insieme a John Acquaviva) Plus8 con un messaggio dove annuncia di esser tornato con molti dei suoi alias originali, alcuni conosciutissimi altri meno e presentando una collezione di tracce apparentemente molto old-school, ma allo stesso tempo molto riconoscibili nella sua firma. Bentornato Richie, bentornata Plus8, e avanti per altri 25 anni di successi. – Marco Ricci
Romare
Projections
Avete presente quando ascoltate un brano e i piedi si muovo da soli portandovi da una parte all’altra della stanza? Ecco, questa è esattamente la sensazione che si prova non appena schiacciate play sull’iPod e la prima delle undici tracce di “Projections” inizia a suonare nelle orecchie. Dopo una manciata di EP per Black Acre e Ninja Tune e dopo l’apparizione nella compilation LateNightTales di Bonobo, Romare confeziona via Ninja Tune un album davvero di qualità. Il suono è quello che contraddistingue le produzioni dell’artista inglese, dove la ritmica dance ha le più disparate influenze: ne escono undici signori brani, uno più trascinante dell’altro. – Costanza Antoniella
Shlohmo
Dark Red
Se “Bad Vibes” aiutava a distendersi, “Dark Red” è quel tipo di viaggio che traccia dopo traccia è capace di smuovere anche l’emozione più profonda, riuscendo ad unire a sé inquietudine e introspezione. Si tratta di un lavoro concreto che rapisce e che parte dal profondo per poi risalire per la colonna vertebrale e il cervelletto. “Dark Red” è il lato oscuro di Henry Laufer: ci sono lamenti, suoni alienanti e synth avvolti dalle tenebre, nulla a che vedere con tutto quello a cui eravamo abituati, ma che comunque non delude in nessun modo le aspettative. Questo è sicuramente uno dei migliori lavori del 2015. – Costanza Antoniella
St Germain
St Germain
Ludovic Navarre è tornato. La sua ultima fatica propone un gran numero di voci e strumenti non convenzionali, provenienti dall’Africa nera (in particolare dal Mali) che si sposano perfettamente con l’animo jazz e tribale del genietto francese. Il tour con cui ha portato in giro questa sua nuova creatura è la testimonianza di una sinergia fortissima fra elettronica e musica leggera, capace di regalare delle tracce che assomigliano più a delle jam session. Un’esperienza che non possiamo far altro che sposare e consigliare. – Federico Raconi
Squarepusher
Damogen Furies
Verrà il giorno in cui ci stuferemo di essere ossessionati dal suono-del-momento (e, di conseguenza, di giudicare il valore di un disco solo ed unicamente a seconda di quanto questo suono riesce a seguirlo o addirittura ad imporlo). Per intanto vengono le classifiche di fine anno, e chi vi scrive in un’annata comunque buona (senza picchi, ma buona) scegli intenzionalmente due dischi molto ma molto demodé. Demodé è Squarepusher, che con “Damogen Furies” fa il suo disco migliore di sempre ma parecchi, ehm, influencer/hipster dell’elettronica se lo filano zero perché è troppo spigoloso per essere sognante, troppo brutale per frequentare i salotti buoni e troppo melodioso per essere xxxxxxx (inserire bestemmia a piacere – ma detta con intellettualità). Oh, peggio per loro: è di una ricchezza di idee e riferimenti clamorosa. – Damir Ivic
Sufjan Stevens
Carrie & Lowell
Uno che, badasse al portafoglio e all’ego, avrebbe capitalizzato da tempo su un talento enorme. E invece dal 2000 ha vagato fra progetti tanto affascinanti quanto improbabili (un album per ogni stato degli Usa: finora ne sono usciti due), divagazioni fra elettronica, classica e sperimentazione, messe a fuoco ripetute di uno stile già nitido da tempo. Quello che brilla in Carrie & Lowell, ridotto ai minimi termini di una voce, una chitarra acustica e poco altro. In undici canzoni intime e personali che ascoltate una volta non vi lasceranno più, nate da un’esigenza privata d’amore – Carrie è la madre, Lowell il suo compagno – e fattesi amore universale come capita solo con i fuoriclasse. – Andrea Pomini
The Chemical Brothers
Born In The Echoes
Il 2015 è stato un anno di grandi ritorni, ma tra tutti solo quello di Ed e Tom ha convinto appieno, dimostrando che è ancora possibile assemblare un album che costruisca un discorso coerente nella sua interezza ma che contenga anche un buon numero di hit: “Born In The Echoes” infatti è un’esperienza di ascolto piacevolissima sia ascoltato tutto d’un fiato dall’inizio alla fine che preso a piccole dosi, soprattutto se queste dosi si chiamano “Sometimes I Feel So Deserted”, “Go” o “Wide Open”. – Mattia Tommasone
The Internet
Ego Death
Quello che è successo qui è molto simile a quello che è successo la prima volta che ho ascoltato “Channel Orange” di Frank Ocean: colpo di fulmine e loop infinito. La colpa è di “Girl” su cui Kaytranada ha fatto un lavorone ed ha permesso a molti di quelli che non conoscevano il gruppo di avvicinarsi e apprezzare il resto di un album davvero da incorniciare. Speriamo che Syd the Kyd & co. non finiscano in un cassetto come il povero Frank, aspettiamo il loro quarto album, tanto sul secondo di Ocean ci abbiamo messo una croce sopra. – Antonio Fatini
V.A.
Pc Music Vol.1
Che la PC Music sia uno dei fenomeni più interessanti e “nuovi” degli ultimi anni l’abbiamo già ampiamente raccontato, per cui è naturale che tra i nostri album preferiti dell’anno ci sia la porta di ingresso migliore per il mondo intero che si nasconde dietro l’aspetto misterioso: una volta sentite tracce come “Beautiful” di AG Cook o “USA” di GFOTY siamo sicuri che vi resteranno incollate addosso a lungo, come la voglia di approfondire una scena ricchissima di idee e di contenuti, che promette sorprese in quantità industriale per il 2016. – Mattia Tommasone
Vilod
Safe In Harbour
Il catalogo Perlon rappresenta da sempre un nonluogo di sperimentazione musicale e quest’anno con “Safe In Harbour”, firmato da Ricardo Villalobos e Max Loderbauer, si è raggiunta una punta elevatissima dell’estetica che ha caratterizzato il lavoro di Franzmann e Nikolai sin dal 1997. L’album si sviluppa in un labirinto di micro suoni, rimandi jazz, dettagli minimal sottotraccia affidati alla bontà del supporto di riproduzione, ritmiche di batteria instabili che Loderbauer ha ripresentato in “Sounding Lines” che predispongono ad un ascolto fine a se stesso. Non c’è spazio per una comprensione critica, per la ricerca di appigli semantici, “Safe In Harbour” va preso per quello che è, con buona pace di chi questo tipo di musica la rifugge. – Alessandro Montanaro
Zenker Brothers
Immersion
Grezzo, ruvido, irregolare, saturo e imprevedibile, ma non per questo disomogeneo, il suono proposto dai fratelli Zenker è certamente una delle note più liete delle ultime stagioni della techno. Il percorso che da quasi dieci anni ha preso vita e si è articolato attraverso le release della loro Ilian Tape ha trovato l’ideale compimento in “Immersion”, la loro prima raccolta spalla a spalla; un lavoro capace di dare una bella scossa a un genere che, dopo l’ennesima riesplosione, è finito in breve tempo per appiattirsi sull’estetica vincente proposta dai big del movimento. Insomma, potrà sembrare assurdo visti i connotati del disco, ma “Immersion” è stata davvero una bella boccata d’aria fresca. – Matteo Cavicchia