Da quando aveva chiuso i battenti (con ampissimo preavviso da parte degli stessi organizzatori) nei primi giorni dello scorso anno, il Trouw, celebre locale posto proprio nell’ex sede del popolarissimo ed omonimo quotidiano sulla Wibautstraat (una delle arterie principali che collegano la periferia col centro storico della città dei canali) aveva lasciato un vuoto considerevole nel cuore di molti. Un po’ per essere tra i pochi detentori della licenza di apertura 24/7 che l’avessero effettivamente sfruttata a dovere, un po’ per la differenziazione della proposta (non solo club, ma anche ristorante e spazio ricreativo diurno), ma anche e soprattutto per aver plasmato col tempo (forse come nessun altro locale in Olanda) un’assidua cerchia di adepti e devoti, quasi più indirizzati all’esperienza di vivere il club in sè piuttosto che farsi guidare dai nomi presenti in scaletta. Più o meno ció che avveniva agli albori della club culture, dove il dj aveva sì un volto riconoscibile, ma era il locale a mantenere il centro dell’attenzione ed a forgiarne la notorietà.
Nonostante la club scene olandese (ed in particolare quella di Amsterdam) non fosse di certo rimasta orfana di eventi e venue di altissimo richiamo, è sembrato peró palese che l’assenza di quello strano ibrido (che tanto aveva fatto breccia nel tessuto sociale della città) venisse percepita come un vuoto impossibile da colmare. Fino a che qualcosa non si è mosso: da prima un articolo che paventava l’apertura (in un futuro pressochè prossimo) di un nuovo Trouw, con le stesse licenze del suo predecessore, all’interno di una scuola in disuso. Chi vi scrive personalmente non ci credeva nemmeno un po’, soprattutto perchè ci si aspettavano tempi biblici tra autorizzazioni demaniali e necessari lavori di ristrutturazione. Invece, come un fulmine a ciel sereno, poco prima di Natale è arrivata la notizia che il 3 Gennaio il club avrebbe aperto e che contestualmente sarebbero stati messi in vendita i biglietti per i primi due mesi di programmazione. Abbiamo realizzato definitivamente quanto la figura del Trouw mancasse all’appello dalle scene di isteria collettiva che si sono vissute durante la fase di prevendita: tutto spazzato via nel giro di pochi minuti (ad eccezione di qualche biglietto tenuto per la vendita alla porta) con decine e decine di scontenti ad assaltare i profili social dell’organizzazione. Sicuramente un hype che tenderà a calare nel corso dei mesi, ma (a nostra memoria) non ricordiamo una programmazione artistica così essenziale (come da comunicazione degli organizzatori, almeno all’inizio, verranno proposti pochi nomi di richiamo internazionale) che abbia fatto segnare un sold out per due mesi consecutivi in pochi giri d’orologio. Va bene che tutti ne parlano, va bene che il presenzialismo è parte integrante della club culture di qualunque nazione, ma se ci troviamo di fronte ad una situazione del genere direi che i ragazzi del Trouw qualche merito se lo possono facilmente attribuire.
Abbiamo avuto l’occasione di essere tra i primi fortunati a visitare il club nelle sue prime ore di vita e siamo pronti a svelarvi quelle che sono le nostre considerazioni. Innanzitutto partiamo dalla struttura: appena giunti davanti al locale la sensazione (ve lo garantiamo) sarà quella di essere di fronte alla rievocazione in filo e per segno della vostra scuola media. Non si chiama De School a caso, del resto. Dopo aver affrontato una coda (tutto sommato fluida) per i possessori di prevendita, ed aver assistito a qualche rimbalzo nella coda per quelli senza, siamo entrati. Abbiamo letto di gente che lamentava di essere stata mandata via perchè straniera, personalmente possiamo dire di aver sentito al massimo chiedere chi suonava senza risposta con conseguente “ciao, ci vediamo alla prossima” e ci sembra davvero lontano dal modo di fare selezione da queste parti un atteggiamento basato sulla provenienza. Non siamo mica a Berlino. Dopo una rapida perquisizione e la vidimazione del biglietto elettronico, si arriva ad un guardaroba molto grande ma anche decisamente mal gestito, considerata anche la limitata capienza del locale, che ci costringe ad una coda abbastanza lunga. Siamo finalmente pronti ad immergerci in questa esperienza e l’adrenalina scorre insistentemente nelle vene.
La struttura si divide fondamentalmente su due piani: in quello superiore sono presenti il ristorante, i bagni (grandi e bellissimi), la palestra (si, avete capito bene) ed un cortile interno che, se sfruttato a dovere una volta arrivati i mesi caldi, puó tranquillamente diventare un piccolo angolo di Paradiso. Al piano di sotto, sostanzialmente negli scantinati, c’è il dancefloor (con relativo bar a fondo pista) che è nè più nè meno che la sala inferiore del Trouw moltiplicata per due o tre volte, molto simile anche al Tresor di Berlino (sbarre a parte) e alle sale secondarie dello stabilimento industriale di Roggwil, nella svizzera tedesca, dove andavano in scena (fino a qualche anno fa) i celeberrimi rave Goliath. Uno spazio che a primo acchitto ci è sembrato un po’ freddino (anche perche nonostante il sold out dava sempre l’idea di poter tenere ancora qualche centinaio di persone) ma che nel corso della serata ha mostrato ampi momenti di grande empatia collettiva. Il booth, posto in modo da essere interamente circondabile dalla gente, offre uno spazio molto ristretto ed essenziale (siamo curiosi di vedere come saranno approcciati i live più “imgombranti”) ma perfetto per immergersi nel clima della pista.
Proprio a riguardo del dancefloor, ci sono senza dubbio due paricolari che ci hanno fatto storcere un po’ il naso: il soundsystem proponeva due tris di Funktion One fronte consolle più almeno altre quattro “di richiamo” lungo la pista. Nelle prime ore per sentire dignitosamente abbiamo dovuto mettere (quasi letteralmente) la testa nelle casse, tanto che la gente era involontariamente ammassata intorno alla consolle con ampi spazi vuoti nel retro, in piena controtendenza con ció che accade solitamente da queste parti, dove solitamente la gente si mantiene abbastanza distante dal palco e sotto consolle si trovano solo i temerari (spesso e volentieri italiani e spagnoli) che non hanno grande cura per la salute del proprio udito. Col passare delle ore il volume è aumentato, ma se pensiamo al modo in cui lo stesso identico impianto viene sfruttato in altre venue della città (su tutte il Westergastheater) ci sembra davvero strano che un locale solitamente così attento ai particolari offra una qualità sonora sicuramente rivedibile. Il secondo grande neo (e francamente lo troviamo sconcertante) è la vendita di bibite quasi esclusivamente in vetro, col conseguente disseminamento di cocci per tutto il dancefloor. Ci siamo ritrovati a tirare via pezzi di vetro da sotto le scarpe per gran parte della serata e questa cosa puó avere delle conseguenze sulla sicurezza molto serie, specialmente se qualcuno dovesse cadere a terra. Questa grave disattenzione, francamente, non è degna di chi è solitamente all’avanguardia sotto questo aspetto.
Noterete che non abbiamo trattato per niente la parte legata alla selezione artistico/musicale. Nonostante gli artisti proposti abbiano sicuramente fatto il loro in maniera ottimale, riteniamo che sia poco sensato giudicare oggi la proposta musicale, in attesa di percepirne la reale potenza di fuoco nei mesi a venire e preferendo mantenere l’attenzione su ció che ci ha trasmesso la combinazione dei diversi fattori con cui siamo entrati in contatto. Siamo davvero curiosi di vedere come verranno sfruttati, col tempo, gli enormi spazi a disposizione degli organizzatori e quello che ci sentiamo di dire per il momento è che il De School ha ancora l’aria di un cantiere aperto in continuo dinamismo. Non ci resta che viverne gli albori e restare alla finestra, in attesa che la sua essenza venga rivelata.