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The Dining Rooms: quando i veri hipster ascoltavano Sun Ra

Beats, jazz, elettronica, melodia soul, ambient. Immergersi nel riascolto della discografia dei Dining Rooms evidenzia come questo progetto, nel suo percorso quasi ventennale e assolutamente slegato da qualsiasi “scena” -almeno nella nostra penisola- sia stato in grado di reinventarsi e di evolversi costantemente, pur restando fedele a un’immaginario onirico e “cinematico” quanto legato all’interpretazione di questi stili musicali in funzione delle atmosfere. Con il recente album “Do Hipsters Love Sun (Ra)?”, pubblicato nello scorso novembre da Schema, il duo milanese ha ripreso questo percorso dopo qualche anno di riflessione, e l’ha fatto con un disco di forte suggestione e che si riallaccia stilisticamente ai primi capitoli discografici della vicenda Dining Rooms, come dimostra anche “Interstellar”, brano del quale vi offriamo il videoclip in anteprima, e che ospita al basso Francesco Giampaoli dei Sacri Cuori.

A ripercorrere le evoluzioni dei Dining Rooms ci accompagna Stefano Ghittoni, che di quest’avventura è stato fautore insieme a Cesare Malfatti.

The Dining Room by Matteo Ghittoni
The Dining Rooms by Matteo Ghittoni

 

The Dining Rooms prende il via nel 1998, in un’era musicale molto fluida dal punto di vista dell’evoluzione sonora. C’era in giro una notevole varietà nel suono elettronico non necessariamente destinato al dancefloor, dall’eco delle vicende di Bristol alle derive più astratte dell’hip hop, fino all’emergere di un filone che all’epoca venne definito downtempo. Tu eri reduce da “Colori”, disco firmato in proprio, mentre Cesare Malfatti già da qualche anno riscuoteva consensi come parte dei La Crus. Com’è nata l’esigenza di condividere un progetto musicale? E cosa ricordi di quegli anni?


Colori era stato già in parte prodotto con Cesare, che aveva suonato anche in uno degli ultimi pezzi di Outoff Body Experience per Vox Pop. Abbiamo continuato la partnership produttiva anche se le dinamiche di sviluppo artistico erano più mie, lui ovviamente aveva i La Crus come primo progetto. Stavo lavorando ad una continuazione di “Colori”, quindi elettronica e cantati in italiano, quando mi sono chiesto che senso potesse avere un progetto del genere che sarebbe comunque stato fondamentalmente ancorato a una realtà nazionale. “Colori” era stato pubblicato in Germania ed aveva avuto un discreto seguito internazionale ma era una cosa secondo me abbastanza irrisoria, che non avrebbe portato da nessuna parte. Ho deciso così di tenere alcune basi costruite e pensate per alcuni canzoni, producendole però come fossero brani strumentali, quindi intervenendo sulla stesura e sull’arrangiamento e spingendo la produzione verso un uso più approfondito delle ritmiche. “Subterranean Modern Volume 1″ è nato così, e le dinamiche distributive del nostro editore, proiettato verso un mercato globale piuttosto che domestico, ha portato poi il progetto ad acquisire sempre maggiore visibilità nel mercato internazionale.”

Il nome del progetto era una mutazione di Subterranean Dining Rooms, che a fine anni ’80 fu un progetto parallelo dei Peter Sellers and the Hollywood Party. La tua intenzione era quella di riprendere quel cammino, ma con un’estetica sonora più contemporanea?


Direi di sì, in quanto espansione dell’attitudine originaria. D’altronde ai Subterranean Dining Rooms partecipavano i Peter Sellers e altri musicisti del giro Crazy Mannequin ma erano fondamentalmente un progetto mio, soprattutto nel secondo disco. E’ stato un progetto che ha anticipato tante cose, lo-fi prima del lo-fi, ambientale, blues ed anche cinematico. Così, quando ho sentito che stava iniziando qualcosa di importante mi è venuto naturale utilizzare il nome The Dining Rooms, visto che era più o meno la stessa cosa con l’aggiunta di beat funk ed hip-hop. La modernizzazione nel caso dei Dining Rooms è soprattutto nelle forme di produzione, che sono elettroniche e digitali ma il mood rimane analogico, anche nella scelta dei sample e del loro sviluppo. Infatti mi piace definire The Dining Rooms un progetto di elettronica vintage.

La prima traccia di “Subterranean Modern Volume Uno”, “Occhi Neri” si apre con un campione recitato di Giorgio Gaber (“La paura”). E poi ci sono titoli come “Cinemaroma (1 e 2)”, l’atmosfera surreale -stavolta con un campione dialettale siciliano- di “Hip Hop Hippies”, la citazione di Soriano in “Triste, solitario y final”, un romanzo che si svolge con Hollywood sullo sfondo… E’ quasi come una dichiarazione di intenti circa il potenziale evocativo e cinematografico che avreste trasmesso nei vostri dischi da lì in poi, o no?


In quel periodo si giocava molto con il concetto di musica per film immaginari, con il senno di poi era ovviamente uno slogan anche un po’ furbetto ma aveva un fondo di verità. Mi ricordo che avevo trovato in un mercatino un vecchio vinile prodotto dalla Kodak che aveva pubblicato delle atmosfere musicali per sonorizzare i vecchi filmini di famiglia in super 8, c’era scritto sopra “background music for your personal movies”, per un po’ è diventata la nostra filosofia, ci abbiamo fatto anche delle magliette ai tempi.

Trovo che in “Numero Deux” ci sia una significativa messa a fuoco, sia dal punto di vista sonoro che della portata emotiva (ad esempio in “Sei tu” e “Così ti amo”). Si può dire che eravate più consapevoli dei vostri mezzi?


Non so se fossimo più consapevoli, probabilmente no: io personalmente lo sono diventato dopo questo disco. “Numero Deux” è tuttora il nostro disco più conosciuto ed apprezzato, è anche uno dei più rigorosi. Nel suo piccolo è un classico del trip-hop, allora si definiva così il nostro genere anche se io preferivo definirlo hip hop strumentale. Plurilicenziato in compilation e sonorizzazioni varie, tuttora dai rendiconti che mi arrivano continua a vendere, soprattutto in America e ovviamente in digitale. Il doppio vinile ed il cd originali sono esauriti da tempo, anche se la Schema ha ristampato il cd un paio di anni fa.

Inoltre è il primo disco ad esser pubblicato all’estero da una prestigiosa etichetta americana come la Guidance…


Questa è stata la ciliegina sulla torta, è stato pubblicato per il mercato americano, tedesco e giapponese da Guidance, all’epoca una delle mie label preferite, ma l’eco della pubblicazione ha varcato i confini di tutto il mondo. Il fatto di uscire per un’etichetta del genere, oltre alla soddisfazione personale, ha ovviamente dato una visibiltà ed un posizionamento impensabili prima di quell’uscita. Mi ricordo che una volta a Milano suonarono Kruder & Dorfmeister con Alex Kid al Ragno D’Oro, se non ricordo male. La serata era stata organizzata da Mac Mac che ai tempi era anche il nostro booking agent e mi sono trovato a pranzo con Alex Kid. Mentre parlavamo del più e del meno è venuto fuori che conosceva The Dining Rooms per quel disco, senza che io gliene avessi parlato.

E poi va sottolineato il contributo dei Sepiatone (Marta Collica e Hugo Race), che ha aggiunto una dimensione più esplicitamente bluesy al vostro suono.


La partecipazione di Marta e Hugo è stat molto intrigante perché ci ha permesso di tornare a lavorare sulle canzoni però con un sistema produttivo completamente lontano dalle tematiche, non solo del pop, ma della costruzione della canzone classica con cantato e ritornello. Enrambe le canzoni sono state composte da Marta su un paio di samples jazz e sono state arrangiate in un secondo momento, in pratica un remix di una canzone che non c’era.

Nel 2003 arriva “Tre”, che è un disco che ho amato particolarmente, a partire dall’introduttiva “Tunnel” con la voce di Sean Martin, che poi diverrà un vostro collaboratore fisso per alcuni anni…


“Tre” è il secondo disco che esce anche per Guidance, è un disco che sposta la visione musicale dal downtempo puro a situazioni ritmiche più spinte, con l’uso di mezzi tempi in 4/4. “Tunnel”, tra le altre cose, è stato scelto da Gilles Peterson tra i 50 pezzi più belli del 2003 nel suo show radiofonico Worldwide. Sean nel frattempo ha lasciato la musica e si occupa con ottimi risultati di produzioni video in 3D.

A proposito di ospiti, forse grazie anche al contributo di Anna Clementi, mi sembra un disco più malinconico dei precedenti. O è una mia impressione?


Tutti i dischi dei Dining Rooms sono molto malinconici.

Cinematic Orchestra, Four Tet e Quantic Soul Orchestra sono fra coloro che si occupano delle “Versioni Particolari” uscite nel 2004. Segno che avevate seminato bene, pur senza esser a capo di un vero e proprio “movimento” italiano legato a queste sonorità…


Ho sempre pensato che il profilo di un progetto si evince anche dal livello dei remixer delle tue canzoni, non tanto dalla loro fama ma soprattutto dalla loro attitudine. Abbiamo quindi sempre cercato progetti che potessero allargare le nostre composizioni, spaziando dal funk al nu jazz all’elettronica, e devo dire che abbiamo ottenuto sempre degli ottimi risultati. Nel caso di Kieran e Jason poi si tratta di relazioni personali che si sono sviluppate prima dell’esplosione della loro carriera. Jason lo conobbi quando lavorava in Ninja Tune addirittura prima che The Cinematic Orchestra nascesse e Kieran ai tempi del primo disco di Four Tet. Gli ho chiesto se avesse avuto piacere a remixarci in una pizzeria a Milano durante il famoso derby Inter-Milan 0-6. Era a Milano per promuovere il suo primo disco per Domino e doveva suonare al Tunnel prima di The Clifford Gilberto Combination che sonorizzava la Decima Vittima di Elio Petri. Il fee che gli è stato corrisposto per il remix mi fa ancora sorridere. The Cinematic Orchestra invece ha addirittura remixato 2 nostre canzoni.

Il successivo “Experiments In Ambient Soul” sembra portare in primo piano, come suggerito dal titolo, un groove più “black”. E poi basso, batteria e chitarre live. Sentivate quest’esigenza dopo l’intimismo di “Tre”?


E’ il nostro disco più soul, anche se molto meticcio. Il suono di quest’album è soprattutto figlio del fatto che dopo “Tre” abbiamo iniziato a suonare dal vivo con una formazione allargata, in quintetto, superando così la fase iniziale che era invece ancora ancorata ad un live di un dj project, fondamentalmente giradischi ed elettronica. L’energia del live si è quindi spostata nella produzione del disco, per quello suona in quel modo.

Ci sono episodi dal potenziale radiofonico, come “Driving”. Avete mai pensato che quella avrebbe potuto essere una strada percorribile?


Io personalmente mai, i nostri brani sono stati molto suonati, e lo sono tuttora, ma in un circuito underground, quindi molte college radio e web radio. Insomma, rimane un suono alternativo…

“Ink” (2007) si apre con un ospite a sorpresa, Dodo Nkishi del giro Mouse On Mars. Un mondo apparentemente molto distante dal vostro, o no?


In realtà Dodo è stato per un periodo un po’ il terzo Mouse On Mars, con i quali cantava e suonava la batteria in studio e dal vivo, un collaboratore importante piuttosto che un vero membro. L’abbiamo conosciuto quando si è trasferito in provincia di Milano per amore ma abbiamo sfruttato il suo lato black, tra il reggae ed il soul, piuttosto che quello elettronico. Con lui poi io e Cesare abbiamo anche fatto un album di folk e soul con il marchio Sem’bro.

A proposito di collaborazioni, “Ink” è uscito anche in un’edizione francese per la EMI, con i cameo di Charlélie Couture e Rodolphe Burger (Kat Onoma), quest’ultimo in una nuova versione di “Tunnel” ribattezzata “Promise”. Puoi raccontarci com’è accaduto?


Quando uscì “Experiments In Ambient Soul” fu pubblicato anche per il mercato francese, con un buon risultato. Il nostro editore francese credeva molto in noi e quando abbiamo pubblicato “Ink” ci ha chiesto di fare una versione specifica per il mercato francese, amava molto “Tunnel” e ci ha suggerito di ipotizzarne una versione “Gainsbourg-oriented” creando la connessione con Rodolphe Burger che io personalmente amavo dai tempi di Kat Onoma soprattutto per “La Chambre”. Così sono andato in Alsazia nello studio che Rodolphe ha in mezzo alla valle, a Saint Marie Aux Mines, e abbiamo realizzato un provino che poi Rodolphe ha riregistrato definitivamente a Milano nello studio di Cesare.

Dopo aver fatto innamorare della vostra musica un altro prestigioso artista internazionale, nel 2009 arriva l’insolito esperimento “Christian Prommer’s Drumlesson plays The Dining Rooms”. Ci racconti com’è nato?


Ho conosciuto Christian ai tempi di Fauna Falsh e del Truby Trio, ha remixato tra l’altro anche un nostro brano tratto da “Ink”, ed ho molto apprezzato il lavoro che ha fatto con Drumlesson, soprattutto nel primo disco. Per celebrare i nostri anni di vita ho proposto alla Schema di far reinterpretare una parte dei brani del nostro repertorio a Christian come Drumlesson. L’operazione è andata in porto, riuscendo nel doppio intento di vedere i propri pezzi, prodotti molto spesso con l’uso dell’elettronica, suonati da un gruppo jazz, e di fare un lavoro più armonico con gli altri dischi prodotti dalla Schema. La Schema è soprattutto una label di modern jazz e noi non siamo esattamente in linea con le altre produzioni. Il jazz è ovviamente un’influenza fondamentale per me ma il mio in ogni caso è un approccio, e soprattutto uno sviluppo un po’ deviato.

“Lonesome Traveller” sembra approfondire il focus sul songwriting in senso stretto, oltre ad affidarsi per la prima volta a un solo cantante, Jake Reid. Un’esigenza narrativa dettata dal tema ispirato a Kerouac, o cos’altro?


E’ vero, è l’album con il songwriting più sviluppato e Jake secondo me è molto bravo. Lui è un giovane ragazzo inglese, cantante soul e studente di filosofia, ed era un nostro fan che ci aveva scritto la prima volta ai tempi di MySpace, si era complimentato e si era timidamente proposto nel caso avessimo avuto bisogno di cantare una canzone.
Quando abbiamo iniziato a lavorare a “Lonesome Traveller” e stavamo pensando ai cantanti da usare, mi è ritornato in mente. La sua voce ci ha subito colpito molto, era perfetta per le atmosfere che stavano uscendo ed abbiamo così deciso per una volta di usare un cantante solo per tutto l’album. Il risultato è stato molto soddisfacente anche se purtroppo l’album non ha ottenuto i risultati che avrebbe meritato. E’ uscito forse nel momento peggiore della discografia mondiale, peccato.

Arriviamo al presente: con “Do Hipsters Love Sun (Ra)?” da una parte c’è il ritorno alle origini “cinematiche” del vostro suono, dall’altra il tributo alla portata rivoluzionaria dell’arte del filosofo “afro-futurista” per eccellenza. Il tutto con contributi importanti come quelli di Antonio Gramentieri e Francesco Giampaoli (Sacri Cuori) e Bruno Dorella (Ronin).


Il nuovo album nasce dopo un periodo di quattro anni in cui siamo stati senza fare dischi ed un po’ di cose sono successe. E’ assolutamente un ritorno alle atmosfere di hip hop strumentale dei primi due album. Un album completamente strumentale, molto cinematico ed anche un po’ sporco, con un attitudine punk nello sviluppo. Rispetto ai dischi precedenti è un disco che ho prodotto da solo: Cesare è ovviamente presente, sei pezzi li abbiamo fatti insieme, ma in questi anni è stato molto preso dal suo progetto solista post-La Crus e quindi i rimanenti otto brani li ho composti e prodotti da solo oppure appoggiandomi ad altre collaborazioni molto importanti_ Giovanni Ferrario, Geppi Cuscito, i Sacri Cuori come gruppo e separati, Bruno Dorella e Jessica Lauren. Sono molto soddisfatto del risultato finale. Il disco è soprattutto una ripartenza dalle dinamiche delle sonorizzazioni italiane degli anni sessanta e settanta, le cosiddette “library”, il cui concetto originario, ovviamente riveduto, corretto e soprattutto aggiornato ai nostri giorni, è diventato il flio rosso dell’album. Quasi un album concettuale.

Nelle note che accompagnano il disco, Raffaele Costantino ha giustamente puntualizzato come storicamente -ad esempio quando furono i primi bianchi ad abbracciare il jazz- gli hipsters fossero “cacciatori di nuovo”. Ricondurre questo termine alla sua origine e al suo significato socio-politico era uno degli obiettivi che vi proponevate quando avete scelto il titolo dell’album?


Nel titolo c’è un intento abbastanza preciso, omaggiare Sun Ra, uno dei personaggi più profondi e rivoluzionari nella storia della musica, non solo jazz e non solo black. E subito dopo riposizionare, ironicamente, il significato della parola hipster, ai nostri giorni ormai sinonimo di nulla e di superficialità ma in origine con un grande significato, estetico ma anche socio/politico. Parliamo dei primi bianchi ad ascoltare il jazz, e ad appassionarsi al be-bop ed all’hot jazz, contro lo swing considerato ormai fuori moda e svilito da musicisti commerciali. La sottocultura hipster si ampliò rapidamente quando al movimento si associò una fiorente scena letteraria. Jack Kerouac per esempio li descrisse come anime erranti portatrici di una speciale spiritualità. Ho quindi giocato ed evocato tutti questi elementi: esistenzialismo, sperimentazione, spiritualità, e ho lavorato ad un album che potesse rievocare tutto ciò. Ed ecco ancora Sun Ra, la dedica a lui tra le righe, e di conseguenza un disco da concetto molto spaziale, comunque con un influenza sunraiana più nella visione globale che sotto l’aspetto prettamente musicale.

Oltre al videoclip di “Interstellar”, che siamo felici di presentare in anteprima, cosa c’è nel tuo futuro?


Ora stiamo preparando il nuovo live che dovrebbe essere pronto per la primavera inoltrata, sarà incentrato soprattutto su questo nuovo album e lo porteremo in giro in trio o in quartetto. Elettronica, beats, basso, chitarra o tastiera e probabilmente un fiato. Stiamo anche ipotizzando di commissionare qualche remix ma non c’è ancora nulla di definito. Nel frattempo ho collaborato alla produzione del nuovo disco di Ovo, fornendo un po’ di beats e samples che Bruno Dorella ha rielaborato e trasformato. E sto ipotizzando nel futuro, neanche troppo lontano un disco, probabilmente strumentale, in trio: io, Bruno Dorella e Francesco Giampaoli dei Sacri Cuori. Dalla fine del 2015 gestisco con alcuni amici un etichetta di ristampe in vinile di vecchie sonorizzazioni degli anni 60, primi 70. Si chiama Intervallo Dischi ed ha pubblicato e pubblicherà rare registrazioni di Alessandroni, Iacoucci, Brugnolini e Torossi tra gli altri. Continuo poi a produrre il programma radiofonico Comizi D’Amore per Radio Popolare Milano che è giunto ormai al quarto anno di air play.

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