Avere a che fare con Dave Clarke è qualcosa di speciale. Per la sua personalità. Il suo carisma. Il suo piglio apparentemente freddo e feroce. Sarà perché eravamo nella sua amata Amsterdam, sarà perché eravamo nel contesto di un festival al quale è legatissimo (l’ADE), ma quella che è venuta fuori è stata una chiacchierata di rara intensità e, soprattutto, rara onestà. Non troverete molto facilmente in giro parole così lucide, così affilate, così impietose.
Ok. Prendiamo la prospettiva dei veri appassionati di club culture, o supposti tali: quella che ci potrebbe portare a dire che, insomma, siamo in pericolo. Le orde superficiali dell’EDM che improvvisamente trionfano, i soldi, i giri d’affari sempre più grossi e discutibili… Insomma, siamo in pericolo?
Dipende appunto dalla prospettiva con cui guardi le cose. Io personalmente? Beh: io, personalmente, me ne frego. EDM? Non mi interessa, grazie. Non mi interessa quella scena, esattamente come non mi interessavano e non mi interessano le boy band – perché all’epoca avrei dovuto perdere tempo a preoccuparmi dell’avvento dei Westlife, per dire? Ecco, è la stessa cosa. In più, parti dal presupposto che io cerco sempre di non prendere le cose troppo sul serio; e parti anche dal presupposto che io ho scelto di restare nell’underground, e ci sto bene. Ok? Sto da quella parte lì. Nessuna ansia di diventare una rockstar, adesso. Gli altri? Fatti loro, buon per loro. Sai qual è l’unica potenziale faccenda seccante di tutta ‘sta storia? Che quando questa bolla dell’EDM esploderà, perché esploderà di sicuro, questa esplosione potrebbe avere degli effetti anche sulle persone che fanno musica di qualità. Sai, mi immagino già la scena: all’improvviso un sacco di potentissimi uomini dell’industria americana dell’intrattenimento (sono loro a tirare le fila del successo globale) ai primi fatturati in diminuzione cominceranno a dire (imita l’accento americano, NdI) “Questa musica è tutta uguale, è fatta di gente senza talento, sanno solo stare dietro ad un tavolo, sono inutili, liberiamocene!”. Il risultato è che il mercato EDM si sgonfierà in un attimo, e un mare di artisti di quella scena torneranno verso l’Europa, proveranno a rientrare nel circuito della club culture più originaria ed underground, più “europea” diciamo. Improvvisamente (ri)scopriranno tutto questo: dopo aver snobbato tutto, occupati com’erano a preparare i grandi show per grandi folle negli stadi.
E noi? Li accoglieremo? Come li accoglieremo?
Boh. Non dipende da me. Quindi non faccio previsioni. Non ci resta che aspettare, e vedere come butterà.
Ma sei soddisfatto di come vanno le cose ora, dalle “nostre” parti?
Abbiamo un grande problema: il giornalismo. Manca il giornalismo d’inchiesta. Manca un giornalismo che nel “nostro” settore, indaghi e sveli le mille frodi e manipolazioni che ci sono, a partire da quelle nei social media. Il marketing è diventato onnipresente. E la vittima è il talento. Brutta cosa, quando il talento diventa una vittima e non invece il primo metro di misura di tutte le cose. Starebbe al giornalismo prima di tutto svelare questo, ma da tempo non lo fa. Non lo fa per un motivo ben preciso: non è più autonomo, non ha più soldi, nel suo sistema le fonti di sostentamento si sono prosciugate. La gente non ha più la necessità di pagare per avere informazione e quindi non ne sente nemmeno più l’esigenza – non pensando alle conseguenze di questo approccio, a cosa comporta questo togliere linfa economica al circuito dell’informazione, a quanto lo indebolisce e lo rende malato. E questo è un problema. Le cose devono cambiare.
Ma un cambiamento ci sarà? O stiamo andando tutti verso una brutta china, in qualche modo irreversibile?
Non voglio pensare a nulla che sia brutto ed irreversibile, visto che mi diverto troppo a fare quello che faccio e signore e signori voglio continuare a farlo per molto tempo ancora. In più, non voglio essere nemmeno a capo di un qualsiasi movimento di opinione: voglio fare il mio lavoro, stop. Il mio lavoro è andare nei club: atterro in una città verso le 23, mi faccio se riesco un sonnellino di un’ora, arrivo poi al club all’1, suono alle 2, finisco verso le 4 o le 5, resto lì fino alle 6 massimo. Questo faccio, stop. Per dire, lo faccio anche quando vado in Italia: e non è che non mi voglia mescolare alla vita italiana, al contesto culturale e sociale di una serata in un club italiana. Sono stato abbastanza fortunato da potermi permettere di conoscere da solo, per i fatti e coi miei tempi miei, il contesto italiano (che amo, tra l’altro). Il lavoro è un’altra cosa; e a me piace viverlo nelle giuste proporzioni, che secondo me sono quelle che adotto io. Giuste proporzioni per me, sia chiaro. E quindi: spendere ore a scambiarsi chiacchiere e pacche sulle spalle con la gente? Tirare su un po’ di groupie da portare poi in hotel? Non mi interessa, grazie. Io sono quello concentrato sulla musica.
Sei anche quello che per i tour manager locali è abbastanza un terrore, hai una fama di antipatico ed intrattabile che ti precede…
Lo so.
Ah ecco: lo sai.
Sì che lo so. E sai che c’è? Funziona.
Quindi lo fai apposta.
In parte. Prima di tutto va detto che quando dormo poco divento molto umorale, questo è più forte di me, non ci posso fare nulla. Ma al di là di questo: io voglio concentrarmi solo ed esclusivamente sul mio lavoro, che è quello di suonare bene e far stare bene la gente in un club; tutto il resto è accessorio e poco significativo. Se io, prima di andare a suonare, spendo energie per fare il simpaticone in giro è probabile che il mio set poi ne risentirà. Ne vale la pena? Io ho un ben determinato quantitativo di energia emotiva – e non è perché sto invecchiando, sono sempre stato così anche da giovane, fidati – e devo assolutamente usarne il 100% se voglio fare bene il mio lavoro, così come devo fare bene il mio lavoro se voglio sperare di continuare ad essere chiamato in giro. Ecco perché quando sono in giro sono così silenzioso e non parlo con nessuno. Questo silenzio non piace, lo so.
Non piace, e spaventa.
Questo silenzio vi spaventa? Non ci posso fare molto. Inoltre, va detto che molto spesso io dico cose altamente spiritose mantenendo però una faccia serissima: il mio sense of humour è così, da sempre. La gente spesso non capisce se dico certe cose sul serio o se sto scherzando. Il trucco ci sarebbe: guardare le mie sopracciglia. Ma nel semibuio di un locale le sopracciglia spesso manco le puoi vedere, e quindi… Quindi sì, lo so, lo sento che spesso mentre sono in club quelli vicino a me parlano di me dicendo – nella loro lingua – cose tipo “Ma guarda questo qui che stronzo, ma chi si crede di essere…”. Io amo fare musica. Sono stato fortunato abbastanza da poter far diventare questo il mio lavoro. Mi piace il contesto della club culture, che è quello dove la mia musica circola. Ma non sono particolarmente interessato nel diventare per forza amico delle persone che gravitano attorno all’industria del clubbing. E non perché mi senta migliore degli altri, attenzione, no, il motivo è ben diverso: il motivo è che non voglio nasca alcun conflitto di interessi, alcuna dinamica basata più sull’amicizia che sulla qualità e sul talento. Odio queste cose. Odio il nepotismo. E dalle nostre parti ce n’è tantissimo. Prendi Ibiza: dovrebbero cambiare nome all’isola, dovrebbero chiamarla Nepotismo. Pessimo. Non voglio fare parte di questo gioco. Non mi piace. Tutti i miei migliori amici sono fuori dall’industria musicale, o se ne fanno parte operano in settori e circuiti che sono completamente non comunicanti coi miei. Sia chiaro: ci sono persone che hanno il dono naturale di mettere a proprio agio ogni interlocutore che incontrano, in qualsiasi contesto si tratti, a partire dal proprio. Benissimo. Questo è tutto tranne che un difetto, se è un’attitudine naturale, e non va assolutamente represso come modo di porsi. Ma io non sono così. Io amo la musica, amo andare in giro a suonarla, il resto mi interessa molto poco. Non ti piace tutto questo? Non chiamarmi a suonare da te.
Che però, da un tuo accenno precedente, mi pare di capire che tu hai ancora una specie di paura atavica di smettere di essere chiamato a suonare…
Esattamente.
Ma scusa: tu?! Cioè, davvero?
Certo. Qualsiasi altro atteggiamento potessi avere, sarebbe arrogante. E un principio fondamentale, se quello che ti interessa è mantenere la tua arte e la tua creatività al livello più alto possibile, è evitare l’arroganza. L’arroganza fa malissimo all’arte. Cose tipo “Sono il meglio, la gente mi ama, sarà così per sempre, è inevitabile sia così…” sono la morte, per un artista. Devi evitarle ad ogni costo. Piuttosto, per un artista la vera benedizione è l’esatto contrario, ovvero l’insicurezza, il temere di essere sempre sul punto di perdere tutto, di non essere più considerato: perché questa insicurezza ti spingerà ad esigere sempre il massimo da te stesso, anzi, a migliorare, perché non ti senti mai “abbastanza”. Se invece ti senti “abbastanza”, beh, allora stai benissimo nel circuito dell’EDM. Accomodati.
Ci sono cose che rimpiangi di aver fatto e…
Sposarmi.
Eh?
Esatto: sposarmi.
In realtà la mia domanda – che stavo ancora finendo – voleva essere limitata al mondo musicale e artistico, non volevo essere così irrispettoso ed ineducato da chiederti subito cose molto personali.
Artisticamente no, non credo di avere rimpianti particolari. Mi viene in mente una cosa, ecco: quella volta che sono stato obbligato a fare un remix per i Faithless… cosa che mi hanno imposto per potermi liberare da una situazione contrattuale pessima, e invece avrei davvero voluto farne a meno. Oh, sia chiaro: nulla contro Rollo, che è una persona che adoro, nulla contro Sister Bliss; ma quel remix di “We Come One” non avrei dovuto farlo e basta. Tant’è che se lo ascolti bene ho lasciato, verso la fine, un sample vocale che fa intuire un po’ tutta la faccenda, il mio piccolo messaggio trasversale a chi di dovere – “This is the record of my rights, of my wrongs”. Ma ecco, tolto questo non mi vengono in mente particolari rimpianti. Avrò fatto delle cose che non avrei dovuto o voluto fare, ma ora non mi tornano alla memoria. Non devono quindi essere state particolarmente gravi o importanti.
Che mi dici di “Devil’s Advocate”, il tuo disco uscito su Skint – che in quel periodo era un po’ l’etichetta del momento, per la popolarità di Fatboy Slim – dove in qualche modo per come la vedo io c’era il tentativo di celebrarti come superstar, con tanto di featuring di peso sull’album?
Diciamo che era la cosa giusta da fare in quel momento lì. Non la rinnego assolutamente. Tanto più che non è stato casuale lavorare con la Skint: per andare con loro ho rifiutato due, tre offerte che erano molto più favorevoli dal punto di vista economico. Fare il disco con loro era anche il modo migliore per, come dire?, chiudere un cerchio, chiudere una fase della mia carriera. Loro sono di Brighton, esattamente come me: li ho visti nascere, come realtà discografica, anzi li conoscevo da prima ancora che avessero mezza idea di entrare realmente nel mondo della musica. Erano le persone con cui spendere ore a parlare di dischi strani, di roba d’importazione, di novità stilistiche inaspettate. Dopo, sono diventate persone con cui comunque è stato bello lavorare. Bene così, quindi. Più che altro, ci sono alcune cose che mi dispiacciono se ripenso a quel periodo e al rapporto con loro: una cosa che volevo, e che la Skint non mi ha concesso per motivi di budget, è stato farmi fare il servizio fotografico d’accompagnamento alla release da Anton Corbijn. Niente, troppo costoso. “Allora Annie Leibovitz”, ho detto. Troppo costosa pure lei. “Allora Helena Christensen”, che in quel momento dopo la sua carriera da modella iniziava a fare foto con la Lomo – e ci voleva coraggio per farlo fallora, non era una pratica hipster ed inflazionata come adesso, era molto controcorrente voler uscire dalla patinatura da Photoshop. Beh, per Helena i soldi c’erano: ma lì si è messa di mezzo la mia fidanzata dell’epoca, “No, tu con quella lì proprio non ci lavori”. Che a pensarci bene è un grandissimo complimento che mi fece: ehi, tu vuoi dirmi quindi che credi che io avrei anche solo mezza chance di conquistare Helena Christensen? Sul serio? Proprio sul serio? Ma grazie! Io di sicuro non ho così tanta stima di me…
Non fa una grinza.
…quindi pure lì non se n’è fatto nulla, ed è un peccato. Come ti dicevo, mi piaceva l’idea di avere foto dai colori chiari, sgranati, non trattati; esattamente come per quanto riguarda Corbijn mi ero innamorato dopo un suo servizio fotografico per una release di Brian Ferry, le foto scattate sul retro di un taxi, hai presente? Ecco: lì la pelle di Ferry era così chiara, gli dava un aspetto così indifeso, così onesto, poco artificioso, l’artista in qualche modo si presentava finalmente come fragile, fallibile…
Non ti faceva paura quell’onestà all’ennesimo grado, a costo di apparire vulnerabile?
Io amo l’onestà. E’ anche per questo che prima ti ho risposto in un certo modo, andando sul personale. Io amo fare musica: per un certo periodo ho dovuto smetterla di farlo, e la causa è stata proprio il divorzio e tutto quello che è ne è conseguito. Ho cambiato nazione, ho dovuto vendere lo studio, costruirne uno nuovo – cosa che mi ha portato via una quantità enorme di tempo, l’ho terminato per intenderci solo un anno fa, per un sacco di tempo non avevo un posto dove suonare né l’opportunità o la voglia di farlo. Questo ti spiega perché per un lungo periodo sono stato poco prolifico, a livello di produzioni. Non farmi aggiungere altro, sul divorzio. Lascio alla tua immaginazione cos’altro avrei potuto aggiungere a riguardo.
Ami ancora Amsterdam?
Oh sì.
La consiglieresti a tutti, come posto dove andare a trasferirsi?
Assolutamente non a tutti. Deve restare un segreto. Il mio segreto.
Ad esempio, a chi non lo si dovrebbe dire assolutamente?
Ai turisti inglesi.
Mmmh. Non credo che i turisti italiani siano molto meglio.
Oh, loro mi fanno sempre un sacco di feste, quando mi riconoscono!
Ma nei club, esistono differenze tra i pubblici italiano, tedesco, inglese, francese…?
Si diceva prima che io sono noto per non sorridere mai, no? Ecco: in Italia, anche quando sono focalizzato al cento per cento sul mio lavoro alla console, è difficile non sorridere alla gente.
Cosa significa “techno”, oggi?
Oh be’, dipende. Se sei uno smaliziato in fatto di marketing, “techno” è il modo perfetto per descrivere la tua tech-house senza sugo scarnificata all’osso e far credere che sia una cosa valida ed interessante…
Per te?
“Techno” per me è uno stile di vita. Ogni singolo giorno.
Non è solo musica, insomma.
Per me, no.
Hai notato che oggi è in qualche modo più facile, per un dj, suonare set più eclettici ed “aperti”?
Indubbiamente. La tecnologia gioca un ruolo fondamentale in tutto questo: puoi portare molta più musica con te, e puoi suonarla in un modo molto più elaborato. Adesso come mai in passato l’unico limite possibile è la tua immaginazione, stop. E la musica tech-house più dozzinale e di scarsa qualità, quella che per un sacco di tempo veniva spacciata per minimal techno (senza nessun rispetto per i veri pionieri del genere, come il grande Robert Hood), era ed è la cosa più lontana possibile dall’immaginazione possa esistere.
La mia impressione, più che altro, è che pure il pubblico sia tornato ad apprezzare e desiderare dei set meno monocorde. Per molti anni invece si pretendeva il set monolitico, per non dire monocorde; ora invece la gente è molto più aperta.
Beh, l’Italia è sempre stata aperta, è sempre stata diversa.
Oddio, sicuro?
Per me, sì. Amo l’Italia. Amo soprattutto Napoli: la amo dal cuore. Ha significato davvero tanto per me. Il pubblico napoletano è quello più rispettoso, educato ed appassionato.
Lo sai vero che i primi due aggettivi, soprattutto nel resto d’Italia, raramente vengono associati a Napoli e al suo pubblico…?
Lo so benissimo. Ma se non avete capito questo lato di Napoli e dei napoletani, beh, peggio per voi. La città è un casino, lo so: disordine, spazzatura, spaccio, illegalità… Ma oltre a questo, c’è tanto ma tanto di quel cuore. Tanto. Napoli è una città punk: all’apparenza brutta, sporca, cattiva ed oltraggiosa. Napoli è un porcospino: se la guardi e l’affronti solo in superficie allora ti punge, ti fa male ed è sgradevole. Il segreto però è andare sotto la superficie, andare alla vera essenza di Napoli e della napoletanità. Ma loro non concedono a tutti di farlo: devi essere la persona giusta, avere la sensibilità giusta. Sennò ti lasciano nei tuoi pregiudizi.
Senti, mediamente com’è la gente che ruota attorno alla club culture? Intendo: è meglio o peggio di quella che ruota attorno ad altri macrogeneri di musica, attorno al cinema o attorno alla moda?
Ah, la moda. Un posto pieno di bastardi isterici. Creativi, creativissimi per carità – nulla da dire su questo. Ma è come se fossero tutti drammaticamente incazzati con se stessi per qualcosa che nella loro vita sta andando storto, solo che non hanno il coraggio di ammetterselo (o non riescono a capire di cosa si tratta) e allora si sfogano con gli sta attorno comportandosi sempre e programmaticamente da stronzi. Però guarda, ti dirò, nella moda magari questo è particolarmente pronunciato, ma ovunque si formi una cricca specifica credo che insorgano dalle dinamiche umane insane, simili a questa appena descritta. Appena ti senti di fare parte di un “gruppo esclusivo”, diventi una testa di cazzo.
Non sono cose che si dicono a metà intervista, mai, però oh non resisto: parlare con te è davvero una bella esperienza. Pochi sono così diretti, affilati, appassionati. Ma è una cosa che avevo notato anche osservandoti all’esterno; ad esempio quando partecipi ai panel dell’ADE. Ti dai davvero in tutto e per tutto, come testa pensante. Senza rete.
Beh, se in un’intervista la chiacchierata diventa interessante inevitabile divertirsi a rispondere bene, senza filtri. Se invece è tutto un “Qual è il tuo club preferito? Qual è il tuo disco del cuore? Qual è il pezzo del momento?”, beh, lì non viene fuori quasi nulla. E’ bello, quando i discorsi scivolano su questioni un po’ più vaste. Anche perché nel rispondere puoi scoprire delle cose di te stesso di cui nemmeno ti eri accorto. Una buona intervista è come una seduta dallo psicologo a gratis. Rinunciarvi o rispondere in modo superficiale sarebbe stupido, no?
Avere regolarmente delle buone conversazioni può anche migliorare la musica che crei?
No.
Sono due mondi separati, insomma.
Forse qualche influenza subliminale c’è, ma essenzialmente in studio devi fare una cosa, ed è molto poco poetica e dialettica: lottare contro le macchine, per tirare fuori il meglio da loro.
Il dj e producer lo sappiamo che lo sai fare; però sei anche molto analitico, bravo a parlare e pure bravo a scrivere, visto che hai fatto anche il giornalista. Se non avessi fatto il musicista, cosa avresti fatto nella vita?
Non fosse stato per la musica, e guardando a come la mia famiglia mi ha tirato su da piccolo, ora probabilmente sarei in galera da qualche parte.
Questa è una frase forte.
Lo so. La musica è stata mio padre e mia madre. Ad un certo punto, da giovane, sono stato cacciato di casa ed ero letteralmente un senzatetto, un homeless. Capisci? Sai, probabilmente è per questo che amo così Napoli: so cosa significa vivere nella merda, so quanto sia difficile. Senza musica, credo che le cose per me sarebbero andate veramente male per me. Ero appassionato di informatica, volevo studiare quella materia lì, ma non c’erano certo soldi per mandarmi al college. Quindi la musica mi ha salvato la vita, sì. Musica che ha avuto anche un altro grande merito: è stata una passione così splendida e totalizzante che, da sempre, le droghe non hanno esercitato alcun fascino su di me, in quanto sentivo di avere già tutte le emozioni che volevo. Mai trovato le droghe né interessanti né desiderabili, non me ne è mai fregato nulla di loro.
Ti vedi dj per sempre, sempre in giro per club?
Ad un certo punto della mia vita mi ero convinto che la mia realizzazione esistenziale e professionale sarebbe stato diventare il Phil Spector della techno: possibilmente senza impazzire e senza sparare alla gente, ok; ma ingrassare mangiando cibo di alta qualità, possedere la mixing console più grande del mondo e stare lì a modificare e rendere più complessa e spettacolare la musica di altri sì, quello sì, mi ero convinto che nel mondo della techno avrei potuto ritagliarmi questo ruolo. Stavo per mettermici veramente d’impegno, quando – per fortuna – l’industria discografica ha iniziato a collassare. E lì è venuto fuori il mio istinto, che ha iniziato ad urlare “FERMATI, NON FARLO”. Stavo per prendere in affitto uno studio di registrazione gigantesco e pieno di storia (i Queen c’avevano fattto “Bohemian Rhapsody”, anche i Pearl Jam c’avevano inciso), perché ero convinto che fosse comunque necessario avere qualcosa di grosso, di importante, di imponente, di leggendario, fare le cose in grande in tutto e per tutto insomma. Per fortuna che mi sono fermato. Fossi ancora lì, nella stanza dove si incidono le tracce vocali ora ci sarebbe la macchina del caffé; quella per registrare le batterie invece l’avrai già subaffittata in giro completamente a caso, per rimandare il più possibile la bancarotta. Mi sono salvato da un destino pessimo ed inglorioso. Più invecchio, più ascolto il mio istinto: e faccio bene. Ho fatto bene allora, faccio ancora più bene adesso.