Non potete immaginare quanto siamo orgogliosi di avere, come podcast numero 300, un artista e un uomo come François K. Come Soundwall, lo avevamo incontrato poco meno di un anno fa (qui l’intervista del nostro Maurizio Narciso), ma un appuntamento così particolare come questo podcast c’ha fatto pensare tutti assieme che era il caso di fare qualcosa di speciale. Ed è lì che il sottoscritto è andato a ripescare un articolo-intervista scritto più di dieci anni fa (ed uscito su quel gioiellino che era Superfly, magazine fondato da David Nerattini e Silvia Volpato e dove l’elettronica vantava primo contributor Andrea Benedetti). Sinceramente: una delle cose a cui sono più affezionato, e su cui è più stato emozionante lavorare. Ovvero, il tentativo di rendere il più fedelmente possibile due ore di chiacchierata faccia a faccia in cui François ripercorre la sua carriera iniziale con aneddoti, storie, considerazioni, facendolo fa col suo caratteristico piglio tanto brusco quanto, in realtà, incredibilmente appassionato e pieno di amore. Ha fatto la storia con la “s” maiuscola, Kevorkian – qui potete leggere perché, e potete vedere come un tempo essere dj era qualcosa a cui si arrivava in modo completamente diverso rispetto ad oggi. Completamente diverso. Continua a farla la storia, Kevorkian: e su questo cediamo la parola a questo set registrato durante l’evento Deep Space al Cielo di NYC il 25 Gennaio 2016. Difficilmente potevamo festeggiare in modo migliore.
La storia
“Dj? Nel 1975 non c’era nulla. C’erano solo musicisti. E io, facevo il batterista. Poi, altro punto fondamentale: oggi c’è internet, no? Che ridere. Ora se cerchi informazioni su una cosa, su qualsiasi cosa, vai su Google e in una frazione di secondo ti arrivano qualcosa come duemila risposte, puoi passare tutto il pomeriggio a leggertele. Nel 1975 no. Dovevi alzare il culo e darti una mossa. Le informazioni erano prede da cacciare. Io in Francia mi sentivo dannatamente isolato. La musica che piaceva a me, Herbie Hancock Miles Davis Carlos Santana Jimi Hendrix, era cosa per pochi in Francia. Non avevo nessuno con cui condividere le mie passioni. E quando hai ventun anni cosa fai? Quando hai ventun anni a cosa pensi? Io, non pensavo a niente. O meglio: pensavo che odiavo la Francia. Sì, buon cibo, belle ragazze, ottimo vino… ma per quanto riguarda la musica, la Francia del 1975 non era certo un posto eccitante. Manco l’Italia, no? Quindi: mi guardo attorno. Mi guardo allo specchio. Mi dico: non ho una macchina, non ho un mutuo da pagare, non ho una famiglia. Prendo un paio di vestiti, li metto in borsa, e parto per New York. Fatemi andare a New York! Non sapevo dove stavo andando, non sapevo dove sarei andato a stare, e avevo nel portafogli qualcosa come i duecento euro di oggi. Ok. Tutto a posto.”
“Non sono andato a New York ‘per fare il batterista’. Volevo scoprire la musica che amo, attingendo dalla fonte. Nel 1975, andavo pazzo per il jazz funk – Herbie, la Mahavishnu… Insomma: arrivo a New York. Maledizione. New York è una città che un po’ ti intimidisce quando ci arrivi, accidenti. Non conosci nessuno. Ti piazzi in un ostello della YMCA, nove dollari a notte. Facciamo un po’ di conti: avevo dicevamo qualcosa come duecento dollari, quindi ok, diciamo undici giorni di autonomia come vitto e alloggio. Undici giorni per trovare un lavoro. Mh sì, sapevo l’inglese. Quello studicchiato. Mentre là cammini per strada ed è tutto un “YO MAN WASSUP!”. Bene. Undici giorni per trovare un lavoro. Non vado nei dettagli, ma posso dire che New York è strapiena di lavori veramente prestigiosi da offrire: il lavapiatti, il facchino, l’uomo delle pulizie, cose così. Ho fatto un mare di cose. Nulla che avesse a che fare con la musica; ma abbastanza per potermi pagare l’affitto. E ho trovato un sacco di persone che sono state gentili con me, mi hanno aiutato come potevano – mi hanno anche aiutato a conoscere alcuni musicisti, negozi dischi. La comunità dei musicisti è una comunità molto forte, a New York. Così, ricevendo le prime dritte, ho cominciato ad andare alle prime audizioni.”
“Audizioni. Diventare il batterista di una band. Bello. Vado: 150 persone in fila ad attendere. Accidenti. Fra questi, gente come Sammy Merendino, gente che suonava da trent’anni… che diavolo ci faccio, io qua? Competizione feroce. Terrificante. Però dai, mi dico, sei una testa dura, intanto continua ad andare a queste audizioni, prima o poi qualcosa succederà, e intanto conosci gente, stringi amicizie, cose così. E’ stata dura. Ma non ho mollato. Ad ogni modo, torniamo alla routine quotidiana: ero finito in un momento logisticamente incasinato, dovevo raccattare qualche lavoretto in più, e soprattutto dovevo cambiare casa dove stare. Prendo i giornali, vado subito nelle colonne degli annunci: “camere in affitto”. Uhm. Uno nella mia situazione magari andrebbe a vedere le offerte più economiche. E invece io faccio esattamente l’opposto, decido di cominciare chiamando le offerte più spaventosamente costose – perché se vivi in appartamenti di lusso devi essere uno con un sacco di soldi, e quindi magari in cambio di un po’ di lavoretti sei disposto a pagarmi… pulisco, rammendo, rattoppo, trasporto, accudisco. Chiamo l’annuncio coll’affitto più maledettamente alto: “Senti amico, io non ho soldi per pagarti quello che chiedi, ma immagino che tu abbia una casa molto grossa che quindi ha bisogno di cure, io sono pronto a dare una mano su tutto quello che vuoi, è una cosa che so fare molto bene”. “Mah guarda, a dire il vero no, un aiutante del genere non mi serve. Ma senti un po’: tu che è che fai nella vita?”. “Sono un batterista”. “Ma va’? Allora: io gestisco un club. Tu sei un batterista. Ti andrebbe di suonare nel mio club? Tipo, suoni in pista mentra la gente balla”. “Ok… sì… accidenti, volentieri… un club?… ci provo!”. “E allora vieni al club. Prepara la batteria, suona, vediamo che sai fare”. Sono andato al club. Ho suonato.”
“Parliamoci chiaro: non avevo mai visto prima un “club” in vita mia. A me sembrava un enorme night club. Dalla pista da ballo sconfinata. Un posto da 1500 persone. Persone di tutti i tipi ed etnie: bianchi, neri, ispanici, asiatici… Era il 1976, e un “club” era ancora una cosa dannatamente underground. Un posto dove si suona James Brown, Sly & The Family, Barry White, Diana Ross, pezzi della Motown… e poi dischi che nessuno conosceva, roba misteriosa, Soul Makossa… non c’era in fondo troppo funk, eravamo già legati ad una estetica disco. Il dj era lì. Il suo nome era Walter Gibbons. Il primo che ha mixato due dodici pollici. Il primo. El primero. E io arrivavo nel club dove lui suonava proprio quando si metteva a perfezionare questa tecnica. Beh… lui mi odiava! Cominciava a suonare i suoi dischi, e io mi mettevo a suonare la batteria, tentando di capirci qualcosa, perché che vada all’inferno se conoscevo uno solo dei dischi che stava mettendo. Accidenti… mi guardava malissimo. E io suono, suono. E suono ancora. Suono per tutta la serata. Quanto dura la serata? Otto ore. E per otto ore io suono, suono. Che muscoli mi sono fatto… Ad ogni modo: io suono tutto il tempo, e Gibbons è infuriato con me. Però alla gente piaccio. Gibbons si infuria ancora di più. Si fa venire un’idea: comincia a suonare solo dischi in cui ci sono assoli di batteria (pensando che se suona quelli, io divento inutile). Beh, pessima idea amico: perché i dischi con dentro assoli di batteria erano gli unici che conoscevo!! Ci vado sopra che è un piacere, faccio un figurone… e al club decidono di assumermi.”
“Lavorando al club mi faccio da zero una cultura musicale enorme su tutto quello che sta venendo fuori in quegli anni: ritmi nuovi, ritmi strani. Anzi no, faccio un passo indietro: lavorando al club mi pagano! Per suonare la batteria! Da non crederci! Mi pagano per questo! E conosco un sacco di gente veramente simpatica, per giunta, che mi incoraggia mentre ci do dentro su cassa, rullante, tom e piatti. Mi diverto parecchio. Va tutto bene. Va tutto benissimo. Un giorno però mi fermo a pensare: “Certo però che portarsi sempre dietro la batteria è una seccatura pazzesca, pesa da morire, tutto quel tempo per stare lì a montarla…”. Guardo ‘sto tizio che fa il dj, e penso: “Ma, guarda quello. Porta solo una borsa coi dischi. E non deve montare proprio nulla. Accidenti. Lo pagano, più di me. Mentre invece fatica meno di me. Forse è il caso che ci faccia un pensierino”. Ah, dimenticavo una cosa: al club io facevo comunella col ragazzo che stava alle luci, diventiamo subito molto amici. Il suo nome è Kenny Carpenter, penso proprio che vi dica qualcosa, no?”
“Insomma, eccomi qua. Guardo il dj, e capisco che fa un lavoro molto più facile del mio. Il pigro che c’è in me mi fa capire che forse dovrei provare anche io, nulla da perdere, tanto da guadagnare. Mi metto a studiare meticolosamente quello che fa Gibbons, per due mesi mi annoto qualsiasi cosa lui faccia, qualsiasi disco lui metta. Passati i due mesi, ok, vado a fare un tentativo: mi presento ad una audizione per dj. Ricordate quello che ho detto prima? Andavo alle audizioni per batteristi, e c’erano 150 candidati. Vado ora in un club, audizioni per trovare un dj. Beh: cinque candidati!! Figata! Aperta parentesi: come detto prima, il mio maestro (involontario?) è stato Walter Gibbons, uno che per quegli anni faceva trucchi incredibili col giradischi: una fonte eccezionale da cui imparare. Insomma, mentre gli altri cinque candidati arrivano con quantità enormi di dischi, io ne ho solo dieci (anche perché non ne avevo altri, non avevo i soldi per comprarmeli), ma riesco lo stesso a fare la mia figura. Alla fine, non mi prendono. Però mi sono divertito da matti. E’ il caso di riprovarci, mi sa. Perché se devo gareggiare con centocinquanta persone è improbabile che ce la faccia, ma se lo devo fare con cinque stai sicuro che prima o poi, più prima che poi, capisco come mettermeli in tasca.”
“Nel frattempo, lavoravo al club di sera, ma di giorno stavo in un altro club: a fare una cosa prestigiosa, cioè quello che pulisce i cessi. Però piano piano i miei compiti in quest’ altro club diventano più vari, quando serve faccio anche da autista, da factotum, e divento amico del dj di quest’altro club. Un ragazzo simpatico. Jellybean Benitez. Che all’epoca aveva già cominciato a fare il produttore. Parliamo un po’, del più e del meno, di quello che fa, di questa cosa del produrre. A me arriva in mano un giorno per caso un registratore a bobina. Di nuovo, la mia pigrizia mi dà l’intuizione giusta. Perché avevo in mente le cose fantastiche che faceva coi vinili Walter Gibbons, faticando come un pazzo, lanciandosi in acrobazie e tagli degni di un dj hip hop. Lui si sbatte tanto, ogni sera: ma se io invece faccio un po’ di montaggio su nastro di pezzi diversi, ottengo lo stesso effetto faticando quasi zero – basta premere il tasto play! Sì! Ma sì! Quindi mi metto a pasticciare con l’editing. Dopo un paio di mesi, ho messo su abbastanza nastro decente. Bel bello vado lì dove possono farmi un acetato di questo mio nastro: ecco pronto il mio vinile con dentro già tutti i tagli e le acrobazie. Ne faccio qualcun altro. Con questi acetati nella borsa dei dischi, torno alle audizioni per dj, impazziscono tutti. Però, sarò sincero, pur con tutte le audizioni continuavo a non trovare un club che mi piacesse davvero, rifiutavo tutte le offerte. Intanto avevo fatto sentire anche a Jellybean i miei acetati, e pure lui era rimasto entusiasta. Tant’è che una sera mi telefona dicendo “Senti, io stasera non ho voglia di andare lì a suonare: sostituiscimi”. Un posto enorme, bello davvero – quello dove ero arrivato pulendo i cessi, dove io e Jellybean ci siamo conosciuti. Infatti quando al capo dicono che Jellybean quella sera non viene, va su tutte le furie; quando gli dicono che sono io a sostituirlo, si mette a sbraitare che è una cosa che non esiste. Lo calmano, lo convincono a darmi almeno mezz’ora di prova. Va benissimo. Io e i miei acetati (eravamo in pochissimi a New York ad averli e a sapere cosa fossero) trionfiamo. Il proprietario è entusiasta. Mi paga. Mi assume. Sono diventato un dj.”
Il podcast
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