Come spiegarvi che cosa fondamentale erano gli A Tribe Called Quest? Come spiegarvelo, se siete abituati all’hip hop odierno, fatto o di sintetizzatori e rapper che urlano o di star mediatiche da tabloid in egotrip scomposto? Come spiegarvelo, in tempi in cui il chiasso pare prevalere sullo stile, non solo nel rap ma anche troppo spesso nell’elettronica? Soprattutto: come spiegarvelo adesso, ora che maledizione Phife Dawg se ne è andato – notizia tragica di poche ore fa – e quindi non si potrà mai più ricomporre l’accoppiata al microfono con Q-Tip?
Sì, perché tra i due quello più “visibile” nell’alleanza ATCQ è sempre stato Q-Tip: per il suo talento supremo, prima di tutto, ma anche per la sua capacità di essere trasversale, per le sue collaborazioni con ambienti “altri” seminali (“Groove Is In The Heart” dei Deee-Lite) o spettacolari (le comparsate nei singoli dei Chemical Brothers). Però A Tribe Called Quest, ovvero uno dei gruppi hip hop più meravigliosi di tutti i tempi, era una faccenda di incastri perfetti: Phife Dawg per quanto apparentemente più dimesso era importante tanto quanto il suo socio.
Davvero. E’ una perdita enorme. Lo sarebbe già di suo, lo è ancora di più in un periodo storico-artistico in cui si è persa l’abilità e il buon gusto di fare un rap lineare, affilato, fatto anche di giochi parole disimpegnati e non solo di contenuto, sia chiaro, ma in grado di comunicare sempre e comunque il concetto di “realness”: qualcosa di difficile da definire, riassumibile forse con “Lo faccio perché lo voglio fare, lo faccio perché lo sento mio, non lo faccio perché voglio diventare famoso e comprarmi trentasei ville e ventisette Bentley”. Tradotte nella nostra lingua le rime di Phife suonano in qualche caso perfino banali o ovvio, ma sentite recitare da lui al microfono diventavno, come dire?, perfette. Assolutamente perfette. Perché potevi sentire in loro il gioco, la purezza, il rispetto verso la cultura hip hop e non verso il proprio manager o commercialista. Gli egotrip c’erano, ma erano egotrip giocosi, dichiarati, autoironici, costruiti in modo filologicamente onesto nei confronti della storia del rap.
E’ stato sempre un “unsung hero”, Phife, pur nella grandezza riconosciuta degli A Tribe Called Quest. Q-Tip era quello sotto i riflettori, nelle avventure da solisti. Q-Tip era quello dei contratti con le major e dei mega-progetti, mentre Phife ad un certo punto ha dovuto farsi adottare da label rap tedescehe pur di fare un disco. Sarà il carattere, saranno anche i problemi di salute – il diabete – che non lo hanno mai aiutato a sviluppare a pieno la sua carriera. Ma la sua grandezza è stata comunque enorme. Una grandezza tranquilla, gentile, non sguaiata, non fatta di virtuosismi pazzeschi; ma una grandezza che ha reso grande la musica hip hop, molto più di quanto lo possano fare video opulenti, gangsterismi ostentati ed orgogliosamente rivendicati, servizi fotografici col clan Kardashian.
Qualsiasi appassionato della vera cultura hip hop, oggi, gira con la morte nel cuore. Dovrebbe farlo qualsiasi appassionato di musica. E qualsiasi appassionato del cuore, dell’onestà, della vera sincerità nell’arte. Ci sarebbero mille modi per ricordarlo: vogliamo farlo come ha fatto Gilles Peterson, con “Check The Rhime”, dove secondo lo stesso Gilles gli interventi di Phife sono qualcosa di meraviglioso. Confermiamo. Una semplicità chirurgica, sorridente, splendente. Lezione di stile. Rest in peace, Malik Isaac Taylor, aka Phife Dawg.