C’è un intero universo che racchiude “tutto quello che è successo dopo la tempesta del dubstep”, ma nel panorama degli artisti in grado di unire tutto ciò di cui sopra al cantautorato Jessy Lanza spicca nettamente: sono davvero pochi, infatti, i produttori in grado di coniugare l’elettronica più raffinata ai vocal pop di dichiarata ispirazione r&b come lei. Subito dopo la tappa milanese del suo tour, lo scorso gennaio, abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con lei, anche, ma non solo, su “Oh No”, il suo nuovo album in cui la sottile linea rossa tra il dancefloor e l’ascolto rilassato viene percorsa e attraversata spesso e volentieri, così come la zona grigia che c’è tra la sperimentazione e la “Top 40”: l’artista che ne esce è una persona infinitamente ricca di spunti interessanti, di quelle con cui si potrebbe parlare di musica all’infinito.
Allora com’è andata? Sei soddisfatta dello show? A me è piaciuto molto, e a te?
Sono contenta che ti sia piaciuto, adesso che non suono più da sola ma con una batterista mi diverto molto di più, mi sento molto più libera. E poi ho anche questo diffusore di incenso con la luce colorata che mi piace un sacco! C’è ancora qualche problema tecnico da sistemare, però niente di grave.
Beh dai, resterai in tour per un paio di mesi, quindi credo che di tempo per sistemarli ne avrai in abbondanza.
Già, hai ragione!
Parliamo del tuo album nuovo, “Oh No”: ci ho trovato alcune somiglianze rispetto al precedente, ma anche un sacco di differenze: c’era così tanto che volevi cambiare, rispetto a “Pull My Hair Back”?
Mah, sai, non è stato esattamente un processo cosciente; molto semplicemente, ho cercato di fare della musica che mi piacesse in questo momento; spero piaccia anche alla gente, ma in definitiva era più importante che piacesse a me.
Mi rendo conto che possa suonare un po’ come un cliché, ma non saprei davvero dirlo in nessun altro modo.
Beh, credo che di te si possa tranquillamente dire che fare musica sia una cosa che ti viene dal di dentro, visto che la musica ha sempre fatto parte della tua vita, fin dai tuoi genitori che poi con i tuoi studi, non solo ora, giusto?
Sì, è proprio così, e proprio per questo ora mi sento in grado di fare esattamente la musica che piace a me, grazie anche a tutta l’esperienza che ho accumulato; cerco di trovare qualcosa che penso possa piacere alla gente e che piaccia anche a me.
Parlando della tua lunga storia con la musica: cosa ascoltavi da bambina? Ho notato che spesso quello che i musicisti hanno ascoltato durante l’infanzia rimane con loro, nella musica che producono.
Ascoltavo un sacco di R&B, e direi che evidentemente è rimasto con me, ma grazie ai miei genitori o ascoltato anche moltissimo jazz, che poi ho anche studiato, e anche tantissimo gli Steely Dan.
Oltre a studiare musica all’università, la hai anche insegnata nelle scuole per un certo periodo. Insegnare ha influenzato in qualche modo la tua attività di musicista?
Non esattamente, direi di no. È una cosa che non faccio più perché devo dire che non mi piaceva molto, anche perché per entrare in contatto con i miei studenti ho dovuto ascoltare anche tanta musica che magari non mi piaceva, sai tipo Taylor Swift o cose del genere…anche per questo, ho sempre cercato di tenere separata la mia attività da musicista con quella da insegnante, ho cercato di fare in modo che non entrassero in contatto e poi una delle due l’ho abbandonata.
Mi dicevi che l’R&B è il punto di partenza della tua musica, ma com’è fatto il processo che porta alla nascita delle tue tracce?
Quasi sempre io e Jer (Jeremy Greenspan dei Junior Boys, ndr) partiamo da un singolo sample, da un singolo suono e da lì poi aggiungiamo elementi intorno fino ad avere una traccia finita, è un processo incrementale: a volte può essere che il punto di partenza sia una progressione di accordi, o un riff, ma la maggior parte delle volte è un sample.
Però la sensazione che ho avuto ascoltando entrambi i tuoi dischi è che ci sia dietro tantissimo lavoro di rimozione del superfluo, sembra davvero che tu abbia tolto tutto quello che non serviva dalle tracce per lasciare solo l’essenziale.
Esatto, è proprio così! Io e Jer passiamo tantissimo tempo ad aggiungere elementi alle tracce, e poi altrettanto, se non di più, a toglierne.
E che mi dici, invece, dei testi? Come nascono?
In realtà non penso troppo al significato dei testi, anzi, quasi per niente! Cerco fondamentalmente solo dei testi che suonino bene col resto della musica.
Cambiando discorso: l’etichetta su cui esci, la Hyperdub, è inglese ed è forse una delle più marcatamente “inglesi” come sound, al momento, però tu sei canadese e vieni dalla stessa città non solo dei Junior Boys ma anche di Caribou, il che fa di te un’artista un po’ a cavallo tra due scene diverse: ti senti parte di una scena, di un movimento, di un gruppo di artisti connessi?
Per niente, se togli il mio legame con Jer e i Junior Boys in realtà viviamo in un posto che nessuno conosce, siamo un po’ fuori dai confini del mondo, quindi non è che siamo particolarmente legati ad altri, non so se mi capisci.
Ti capisco eccome, anche noi qui in Italia siamo parte di una sorta di terzo mondo musicale…per esempio, conosci dei musicisti italiani?
Fammici pensare…i Goblin?
Sì, ok, ma dei musicisti italiani recenti?
Alexander Robotnik, che non è recentissimo ma produce musica tuttora, e poi quel tizio di “Self Control”…com’è che si chiama?
Raf? Vedi? Nessuno di questi è recente, anche noi da qui facciamo fatica a spingere la nostra musica fuori dai confini nazionali. Tra l’altro è interessante che tu mi abbia nominato praticamente solo musicisti del periodo tra fine anni ’70 e gli anni ’80, perché in effetti è qualcosa che in “Oh No” si sente molto.
Sì, mentre registravamo l’album ascoltavo un sacco gli Yellow Magic Orchestra, mi piacevano così tanto che sono andata a cercarmi tutti i progetti solisti di Haruomi Hosono, di Ryuichi Sakamoto e degli altri membri, e anche se la loro produzione è enorme e copre davvero tutti i generi credo che comunque la loro impronta si senta nel mio disco.
Quindi sei una di quegli artisti a cui piace ascoltare molta musica e approfondire la ricerca di ispirazioni? È abbastanza raro, a volte ti capita di incontrare artisti che ti dicono che l’unica musica a cui si interessano è la propria, mentre io credo sia interessante conoscere tanti tipi di musica diversi.
Assolutamente! Forse un po’ per la mia formazione e i miei studi di musicologia sono abituata ad ascoltare tanta musica, per cui sì, cerco di approfondire tanto e di scoprire perle nascoste, però ascolto anche un sacco di musica nella Top 40 di vendita e un po’ mi lascio ispirare anche da questa.
Il che mi suona abbastanza curioso, visto che la tua musica a me non suona per niente simile alla Top 40: non è difficile, ma non è neanche così diretta come quello che di solito domina le vendite.
Lo apprezzo, perché vuol dire che io e Jer riusciamo a mantenere la nostra identità, però sai, io non credo a quelli che dicono che non vogliono fare musica da Top 40: anzi, a me piacerebbe avere del successo così grande, però è vero anche che non posso produrre della musica che non senta mia. Come ti dicevo prima, se poi al pubblico piace tanto meglio, però io non sarei in grado di esprimermi con della musica diversa da questa.
E dopo il tour cosa ti aspetta? È una domanda un po’ difficile visto che ti aspettano ancora più di due mesi in giro, mi rendo conto.
Già: credo che in tour non avrò molto tempo tranquillo per concentrarmi e produrre qualcosa di nuovo, quindi credo che in estate, una volta finito il tour, mi chiuderò in studio e cercherò di tirar fuori della musica nuova.
Tra l’altro un tour così lungo dev’essere un’esperienza piuttosto impegnativa…che sensazioni ti sta dando, anche se è appena iniziato?
Mah, per ora mi piace: ok, mi mancano i miei gatti, mi manca casa mia, mi manca mia mamma, però mi piace andare in giro a suonare la mia musica.
Ultima domanda: le uniche informazioni che ho trovato in rete su “Oh No” sono legate a una tua dichiarazione secondo cui un ruolo molto importante nella produzione del disco è stato rivestito dalle piante tropicali, che infatti compaiono anche sulla copertina. Come mai?
Sai, la casa dove vivo è piuttosto vecchia e umidissima, per cui a un certo punto mi è venuta la convinzione assoluta che l’aria che si respirava in casa mi stesse facendo male, e infatti avevo sempre mal di testa, soffrivo di insonnia ed ero davvero di pessimo umore. Mettere piante tropicali in giro per tutta la casa mi ha aiutato rendendo l’aria più pulita, o se non altro mi ha aiutata a convincermi che lo fosse.
Quindi in un certo senso “Oh No” è un disco che parla di piante tropicali e aria pulita?
In un certo senso, sì!