Altro che Vitangelo Moscarda! Se Pirandello avesse fatto in tempo a conoscere Uwe Schmidt avrebbe preso lui come protagonista del suo ‘Uno, nessuno e centomila’, tante sono le varie identità artistiche che il tedesco di stanza a Santiago del Cile ha seminato nell’arco di una straordinaria carriera quasi trentennale, cruciale per mappare le evoluzioni del suono elettronico. Ad ognuna di esse corrispondono direttrici musicali specifiche, progetti collaborativi di varia natura (come quello con Tobias Freund del quale raccontava Ludovico Vassallo qualche tempo fa), ambiti di ricerca, rapporti con etichette… La radice Atom è una delle poche costanti tra le tante ragioni sociali utilizzate per produrre oltre 200 dischi, tra i quali vari sono vere e proprie pietre miliari dell’esplorazione elettronica più radicale. La sua musica ha spaziato dalla techno, all’ambient, passando per acid house, glitch e industrial. Con l’alias Atom™ si è spesso scagliato, con rigore e ironia, contro ciò che lui definisce ‘corporate pop’, producendo vari capitoli discografici seminali per etichette come la Raster-Noton. In occasione della sua performance fiorentina, nel progetto Internet Kills curato da Disco_nnect che lo vede assieme a Lorenzo Senni, Leo Anibaldi e Life’s Track, e subito prima della doppia data a Terraforma, lo abbiamo raggiunto per alcune domande sui progetti in corso e le prossime cose in agenda.
Sei sempre impegnato su più fronti diversi. A cosa stai lavorando in questi giorni?
Lo scorso anno ho cominciato molti progetti che ora sto cercando di portare a compimento. In particolare c’è un EP che sto chiudendo con la cantante russa Lisokot, una collaborazione in corso con Lustmord, la rimasterizzazione del mio catalogo che sto per fare uscire sulla mia etichetta No. e il nuovo lavoro con Burnt Friedman come Flanger. In realtà n questo momento sto facendo tanti live in giro e non ho molto tempo per stare in studio: dovrò concentrarmi da novembre in poi per ultimare tutto.
Il tuo ultimo lavoro porta il titolo di ‘Texturen II’ ed è un’unica composizione ambient della durata di circa 54 minuti, edita attraverso la No Ware, l’etichetta che hai fondato nel 2014 con Andre Ruello. Qual è la genesi di questo progetto?
Un paio di anni fa ho cominciato ad interessarmi nuovamente alla musica ambient, alla quale mie ero dedicato principalmente dalla metà alla fine degli anni Novanta. Rimettendo le mani sul mio catalogo ho apprezzato molto l’energia che c’era in alcuni di quei lavori, alla luce di un nuovo interesse che ho nei confronti del lato tecnico del suono. Questo mi ha dato un approccio inedito alla composizione che ho provato a sviluppare nei due primi capitoli di una serie che immagino composta di nove album, tutte legate a specifici stati d’animo che determina delle tessiture soniche corrispondenti.
Stai ascoltando qualcosa che ritieni particolarmente significativo in termini di influenza artistica?
Non ascolto molta musica contemporanea. Non mi affascina perché è troppo vicina a quello che io sto facendo in questo momento e quindi troppo intellegibile. Preferisco ascoltare cose che contengono elementi che fatico a comprendere, ho bisogno di cose che non capisco per essere motivato a comporre ancora. Mi sono dedicato a lungo, ad esempio, allo studio della musica rinascimentale e barocca, semplicemente perché suona molto distante rispetto a tutto quello che io sto facendo. È così lontana che non so neanche più se arriva dal passato o dal futuro e non fa differenza in questi termini.
Ad analizzare le tue ultime uscite credo che ‘HD’ sia stato un album particolarmente importante e significativo per te. Ci racconti il processo di lavorazione?
L’album in sé è stato composto molto velocemente ma una parte significativa è musica che avevo registrato circa otto anni fa, per un disco che pensavo di intitolare ‘Hardest Rock’. Per problemi tecnici avevo perso quei mix, allora mi sono rimesso in studio e ho mixato nuovamente i brani ma per un altro inconveniente sono andate smarrite anche le seconde versioni. A quel punto ho perso interesse in quell’album e l’ho messo da parte. Capitava però che, più o meno una volta l’anno, tornassi su quel materiale, eliminando ogni volta le cose che non mi convincevano. Alla fine sono rimaste tre tracce che mi parevano significative e quando Olaf Bender della Raster-Noton è venuto a trovarmi nel mio studio mi ha chiesto di completare l’album per l’uscita. A quel punto ho inciso nuovamente quelle tre composizioni e ne ho aggiunte altre sette completamente nuove, finalizzando il tutto nel giro di pochi mesi.
Cosa ti lega maggiormente all’etichetta tedesca?
Prima di ogni altra cosa apprezzo molto, dal punto di vista umano, le persone che ci sono dietro. Poi conta il legame affettivo con loro, dal momento che hanno cominciato a cercarmi ormai dieci anni fa. Infine conta l’intesa artistica, dal momento che non amo discutere con le etichette il lavoro che faccio. La cura maniacale dei dettagli, la coerenza della linea artistica, l’appropriatezza del roster… sono tutti fattori che mi fanno amare la Raster-Noton.
Prima di ‘HD’ hai cominciato ad associare una parte visuale alle tue performance live che ora si è evoluta. Come l’hai pensata e come si è sviluppata?
Il set up tecnico del live prima di ‘HD’ era molto basilare. Sul palco usavo semplicemente una drum machine che come interfaccia aveva un piccolo monitor LCD. Ho pensato potesse essere interessante che il pubblico vedesse esattamente quello che vedevo io mentre suonavo e allora ho proiettato, alle mie spalle, quello che si vedeva sul monitor. Sostanzialmente si trattava di parametri numerici e navigazione nei menu, una cosa un po’ da nerd dato che buona parte della gente in sala non aveva idea di cosa stesse guardando. Essendo una cosa in tempo reale c’era, però, questa corrispondenza visiva con quello che si poteva ascoltare e, dunque, l’interazione resa palese. Quel progetto embrionale si è poi sviluppato, nell’arco di tre anni, fino a diventare lo show audiovisivo che farò nella mia prossima data fiorentina.
Questa modalità di gestione integrata del suono e dell’immagine mi fa venire in mente quei processi generativi basati sui codici di programmazione che rappresentano un orizzonte di sperimentazione al quale in molti si stanno avvicinando. È un ambito di ricerca che trovi interessante?
È un argomento del quale sento molto parlare tra addetti ai lavori, nei festival e nei talk degli artisti. Mi sento di fare una distinzione importante tra il lato visivo e quello sonoro della processazione generativa. Ho seguito molti di questi esperimenti e devo dire che la componente visiva mi pare sfoci troppo spesso nell’arbitrarietà mentre il compositore riesce ad avere gli strumenti intellettuali per gestire la componente musicale. Al punto di sviluppo nel quale siamo ora, il limite principale mi pare stia proprio nelle scarse possibilità di controllo creativo di ciò che si genera attraverso il codice. L’artista dà il via a qualcosa che poi si genera per proprio conto, fino a raggiungere un punto di tale complessità algoritmica per cui tutto sfocia presto nel randomico e il pubblico non capisce più se quella complessità è frutto del lavoro creativo o dell’arbitrarietà del processo informatico. Dietro c’è una componente matematica legata al nostro sistema percettivo che è in grado di decifrare sistemi complessi solo se le variabili in gioco sono poche. Quando queste aumentano troppo i nostri sensi leggono con difficoltà quello che arriva loro, rendendo indecifrabili le intenzioni artistiche. È il problema che sorge con le macchine che producono arte random attraverso un codice: tutto tende a somigliarsi troppo. In parte può dipendere dal fatto che si tratta di forme di produzione artistica ancora troppo giovani, per le quali bisogna ancora trovare le giuste direzioni di sviluppo, quelle capaci di far emergere l’intenzione artistica attraverso il codice in un processo che sia effettivamente comunicativo. Quello che io cerco è il lato umano dietro l’arte, la componente emotiva e personale.
A Firenze suonerai dentro un evento intitolato ‘Internet Kills’. La politica dell’industria musicale è stato un tema centrale di molti dei tuoi lavori. Come descriveresti il suo stato in questo momento?
Credo che l’industria musicale non faccia eccezione rispetto a tanti altri ambiti della produzione culturale. In questo senso è una piccola parte di un meccanismo economico molto più grande. Per lavoro sono quotidianamente in contatto con festival, etichette, agenzie ed artisti e dunque ho una visione della cosa abbastanza specifica. Una delle questioni principali riguarda il fattore di scala: il sistema imperialistico della major investe ancora enormi cifre sulla promozione di pochi artisti per il grande pubblico mentre una straordinaria quantità di piccole e piccolissime realtà tesse le fila di un complesso sistema underground, sempre più ricco in termini di presenze ma che ha molto poco a che fare con una dimensione economica. Trovo questa situazione molto ispirante ma per niente ideale. Mi pare che questo stato dell’arte sia coerente con molti altri fenomeni leggibili a livello sociale.
Il concetto di identità liquida è uno dei temi centrali quando si parla di questa epoca digitale. Tu ne sei stato un precursore, adottando molti alias diversi e disperdendo la tua identità artistica in una pletora di rivoli differenti. È una strategia a cui oggi possiamo dare lo stesso senso che aveva agli inizi della tua carriera?
Le mie idee in proposito sono cambiate drasticamente. Dieci anni fa ho capito che la faccenda dei vari nomi usati per i vari progetti, inizialmente in una maniera estremamente funzionale e come riflesso del tempo che stavamo vivendo, aveva completamente cambiato senso dato che erano cambiate le condizioni al contorno. Per questa ragione ho deciso di unificare tutto il mio catalogo usando solo il nome Atom™ o quello dei progetti collaborativi. Sul piano strettamente personale tengo molto all’eclettismo che ha sempre caratterizzato la mia produzione ma l’uso di troppi moniker rischiava solo di amplificare la confusione attorno al presunto valore di critica sociale, economica e politica insito in quella pratica. Il senso per il quale lo facevo era puramente pratico e non sottintendeva nulla se non una certa libertà artistica. Ora la situazione è molto diversa da come non lo fosse venticinque anni fa e, forse, non ne ho più bisogno.