Tarda mattinata di fine estate, in una Milano sorniona, un po’ impigrita dal post-ferie e sorprendentemente silenziosa. Secondo piano di una palazzina post industriale, nel cuore di un complesso dirigenziale di recentissima ristrutturazione, atmosfera ovattata da sala riunioni. Davanti a me Federico Cirillo, amico di vecchia data e oggi direttore del Dance Department di Universal Music Italia, ed Alberto Fumagalli, mente (ma anche braccio) di Nameless Music Festival. Nato dal sogno di un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, aggiustato e migliorato edizione dopo edizione, ormai decisamente rodato nella cura del marchio e nella gestione dei progetti satellite, come l’avventura discografica di Nameless Records in collaborazione con la stessa major, il tutto con la mission costante di dare il giusto valore e la giusta esposizione al talento italiano. Al di là di ogni retorica, non è difficile cogliere il grande potenziale di Nameless e il valore che un progetto del genere può avere nella realtà dance del nostro paese. Ne abbiamo parlato con i diretti interessati.
Fede, visto che tu con Universal sei entrato più tardi nel progetto, volevo iniziare chiedendo ad Alberto di raccontarmi gli inizi di Nameless, dalla primissima edizione alla successiva crescita…
Alberto Fumagalli: Ah, vuoi sapere del bagno di sangue (ride n.d.r.)? Noi abbiamo sempre fatto eventi, quindi come ho sempre tenuto a specificare, siamo sempre stati dalla parte di chi produce l’evento piuttosto che da quella di chi fa pubbliche relazioni. Ci siamo fatti una discreta esperienza, in particolare con l’evento di capodanno a Bormio che quest’anno vedrà la settima edizione, ma anche in altre occasioni in cui ci siamo inventati delle location da zero, quindi sulle ali dell’entusiasmo ci siamo detti “perché non provare a fare un festival?”, convinti che fosse un impegno poco più grande di quelli a cui già eravamo abituati. Invece fin dalla prima edizione ci siamo ritrovati invischiati in una serie infinita di problemi di tutti i generi. Il primo anno è andato malissimo dal punto di vista economico, il giorno dopo il festival nessuno di noi ci credeva più, te lo dico sinceramente. Poi però l’uscita dell’aftermovie ha cambiato radicalmente le cose, perché abbiamo visto che i feedback sono stati assolutamente positivi, al di là di ogni nostra più rosea aspettativa. Forse è stato quello che ci ha dato la forza di rimetterci a lavorare e, partendo dagli errori che sapevamo di aver commesso, provare a costruire qualcosa di migliore. L’anno successivo non dico che siamo stati immuni da qualche piccola sbandata, ma a mio parere abbiamo messo in piedi una cosa spettacolare, a partire dalla line up. Abbiamo investito in modo molto più oculato e i risultati hanno cominciato ad arrivare. Abbiamo iniziato a crederci per davvero e a dedicarci al festival full time, cosa che prima non facevamo, con l’obiettivo di farlo esplodere. Obiettivo a cui ci stiamo sempre più avvicinando, soprattutto dal 2015 in poi, ovvero da quando da Lecco ci siamo trasferiti a Barzio. Anche questo passaggio non è stato del tutto esente dai problemi: anche solo dal punto di vista dei servizi, passare da un capoluogo di provincia ad un paesino di 1300 abitanti non è come dirlo. Ma per fortuna a Barzio abbiamo trovato un’intera comunità pronta a sostenerci, tutti credono nelle potenzialità di Nameless a partire dal sindaco, quindi a posteriori riconosco che non avremmo potuto fare una scelta migliore.
So che siete tutti giovanissimi, tra i 25 e i 31 anni, e a maggior ragione lo eravate cinque anni fa. Quali sono le principali difficoltà che si parano davanti ad un gruppo di ragazzi di questa età che vogliano mettere in piedi un festival?
A: Le primissime barriere che incontri sono finanziarie, ovviamente. Noi abbiamo sempre potuto contare su capitali risicatissimi, roba che se mi guardo indietro mi domando come abbiamo fatto. Puoi stare certo che oggi come oggi, se un ventiseienne entra in banca chiedendo neanche mezzo milione ma, che ne so, cento o anche solo cinquantamila euro per fare un festival, gli ridono in faccia. Noi siamo stati bravi, a mio parere, a pensare fin da subito a lungo termine. Abbiamo creato delle partnership solide con i nostri fornitori, arrivando ad ottenere un minimo di credito grazie al lavoro fatto in precedenza con gli altri eventi. Non ci siamo inventati una credibilità, come azienda, ce la siamo costruita man mano. Quindi dicevamo, il primo ostacolo è quello della liquidità, perché gli artisti sono da pagare in anticipo e per fare una line up decente sui tre giorni vuol dire spendere almeno centocinquantamila euro. Decente, eh, non figa. Poi ti scontri inevitabilmente con la cultura del pubblico italiano, che secondo me non è ancora del tutto pronto a recepire un festival. Spesso siamo oggetto di paragoni assolutamente inappropriati che ci fanno capire come ancora non siamo riusciti a far comprendere del tutto il concetto di festival musicale, che è ben diverso dal singolo evento open air di un giorno, come è profondamente diverso dalla realtà dei club. Da ultimo devo menzionare l’apparato burocratico italiano. L’ho messo volutamente in fondo alla lista perché in realtà per noi non ha mai rappresentato un ostacolo insormontabile, ma ti accorgi spesso di quanto tante volte ti faccia perdere in cazzate per ottenere questo o quel permesso, questa o quella licenza. A noi le istituzioni e le autorità locali non hanno mai messo i bastoni tra le ruote appositamente, anzi, al contrario ci hanno sempre supportato e hanno creduto nel progetto tanto quanto noi. Dall’altra parte è anche vero che la burocrazia rallenta spesso inutilmente molte operazioni. Probabilmente per colpa di qualche furbetto che cerca sempre la scappatoia, le istituzioni sono diventate fin troppo rigide nelle richieste o nell’applicazione delle norme, anche quando queste vanno al di là del buon senso per la specifica situazione. Da una parte lo capisco benissimo e sono ben contento di questa rigidità, stiamo pur sempre parlando della sicurezza di migliaia di persone; dall’altra però riconosco che uno snellimento di determinate procedure ci farebbe sicuramente bene e non ne comprometterebbe l’efficacia.
In quanti siete, ad oggi, che vi occupate di Nameless?
A: In tutto siamo in dodici ma operativi full time solo su Nameless siamo in due, io e Alessandro Spreafico che cura marketing, media e comunicazione. Abbiamo la fortuna di poter fare tutto internamente, al 100%. È quello che ci ha permesso di sopravvivere, perché non avremmo mai avuto la disponibilità per poter pagare un professionista in ogni campo. Siamo partiti come un gruppo di dieci stronzi che si trovavano tutte le sere allo stesso bar e di tanto in tanto organizzavano festicciole. Poi di quei dieci stronzi uno si è preso bene con la produzione video, uno ha detto “a me piacciono i laser e le teste mobili” e si è messo a progettare i palchi, e via dicendo. Siamo diventati dei professionisti, ognuno nel suo campo, ed è stata la nostra fortuna. Poi ovviamente durante il festival ci moltiplichiamo, ci sono troppe cose da fare sul campo per stare dietro a tutto da soli. Anche se negli anni abbiamo imparato a fare qualsiasi mestiere, davvero. Abbiamo provato a mettere giù due chilometri di recinzioni a mano. Quest’anno, dopo tutta la pioggia che è venuta, siamo andati noi con il bobcat a spalare la ghiaia sotto il secondo palco per renderlo agibile. Abbiamo provato a reinventarci tutti in qualsiasi ruolo per il bene dei nostri eventi e non ti nascondo che ora della fine è una delle parti divertenti. Alla fine ci ridi sopra, magari con il mal di schiena, ma ci ridi sopra.
E cosa c’entra la Universal in tutto questo?
Federico Cirillo: Dunque, tutto è nato circa un anno fa e ci tengo a dire che l’incontro tra le due realtà, con tutto quello che ne è conseguito, è stato merito della terza mente di Nameless, Giammarco Ibatici. Io ho partecipato da spettatore all’edizione 2015 e ne ero rimasto piacevolmente sorpreso. Personalmente venivo da un ambiente completamente diverso da quello mainstream e quello era forse il primo festival EDM a cui prendevo parte, sicuramente il primo in Italia. Sono rimasto a bocca aperta quando ho scoperto da Giammarco che gli organizzatori e tutte le persone coinvolte nel festival erano miei coetanei, era una cosa che non credevo possibile. Dopo quella edizione, durante l’estate, tramite amici comuni ho preso contatto con Alberto e con Stefano Usai con l’intenzione di capire su cosa avremmo potuto basare un’ipotetica collaborazione. Ero molto entusiasta di questa cosa, perché vedevo che tutti loro avevano il mio stesso obiettivo ovvero promuovere la scena dance italiana. Abbiamo iniziato pubblicando su Universal la soundtrack dell’aftermovie del 2015, “We Are The Fire”, poi abbiamo fatto uscire una compilation targata Nameless in collaborazione con la Do It Yourself, poi si sa che da cosa nasce cosa… Una sera eravamo al Fabrique qui a Milano per il concerto di Zedd e ci è venuta l’idea che ha portato alla nascita di Nameless Records, è stata una specie di escalation.
Perché tu nel momento in cui ti sei messo in contatto con loro non avevi un’idea precisa di come avreste collaborato…
F: No, non ce l’avevo, e forse non ce l’ho neanche ora. Te lo dico sinceramente, la maggior parte delle idee che ho mi vengono come conseguenza a determinati rapporti interpersonali. Con loro è un brainstorming senza sosta, un continuo botta e risposta, ci completiamo a vicenda e andiamo sempre nella stessa direzione. Al momento il rapporto tra Nameless e Universal è principalmente discografico, ma abbiamo già in mente mille altri modi per approfondirlo.
A: Per farti un esempio, l’ultima cosa che ci siamo inventati è istituire una giornata in cui faremo venire qui in Universal i giovani produttori che intendano sottoporci delle demo, ovviamente con un minimo di pre-selezione, in modo da poterli incontrare di persona, assisterli anche tecnicamente se necessario, consigliarli, farli crescere. Abbiamo deciso che, a partire da Settembre, ogni due settimane avremo un giorno di demo session, che alla fine non è altro che l’estensione concettuale del format “Demo for Lunch” che avevamo già lanciato durante il festival, coinvolgendo personalità di tutto rispetto della discografia internazionale come Eddie Sears di Ultra e Luke Armitage di Universal UK. E questa idea ci è venuta per sopperire al fatto che Fede stava venendo letteralmente sommerso dalle demo per Nameless Record e stava diventando difficile per lui dedicare la giusta attenzione agli artisti. L’obiettivo primario della nostra collaborazione è quello di arrivare a creare un sistema organico che non sia il sistema Nameless + Universal, ma che sia il sistema Italia. Vogliamo allargare il pubblico che segue la dance, ampliando di conseguenza lo spazio per i talenti italiani emergenti, perché è l’unico modo che abbiamo, noi che vogliamo vivere di questo, per sopravvivere più a lungo possibile. Oggi qui purtroppo ci si fa la guerra per spartirsi una torta piccolissima. Basterebbe lavorare tutti alla preparazione di una torta più grande e ce ne sarebbe per tutti!
E al di là della partnership discografica, di Nameless Records eccetera, nel festival vero e proprio qual è il ruolo di Universal?
F: Per rispondere in modo esaustivo a questa domanda dovrei avere la sfera di cristallo per guardare nel futuro. Abbiamo un sacco di progetti in cantiere e sicuramente ti posso dire che Universal mira a sostenere Nameless anche nella produzione del festival stesso. Anzi, ti dico la verità, il progetto discografico di Nameless Records inizialmente non rientrava neanche nei piani della major stessa, è un input partito esclusivamente da noi in persona. Universal poi ci ha dato carta bianca in questo, mentre ci ha dato degli input importanti riguardo al festival perché si sono accorti tutti fin da subito che poteva valere qualcosa. Quindi stiamo lavorando insieme proprio in questi mesi su un progetto di lungo termine che mira a portare NMF ad un livello almeno pari ai grandi festival europei. Un grande errore che il pubblico italiano commette troppo spesso, purtroppo, è paragonare le nostre realtà con altre straniere già affermate. Vogliono tutto e subito, dimenticando che nel 99% dei casi ci sono voluti dieci, anche vent’anni per avere questo Tomorrowland o quell’UMF. In Italia siamo partiti più tardi, ma continuiamo a confrontarci con il resto del mondo che invece è già avviato. Noi non vogliamo stravolgere Nameless e farlo diventare l’Ultra 2017, vogliamo che la crescita sia graduale, organica ma costante.
A: Esatto, stiamo lavorando su centomila sinergie, su tante cose che sicuramente una struttura come quella di una major è in grado di gestire meglio rispetto ad una piccola azienda come la nostra. Io dico sempre che Nameless è un festival artigianale, una cosa fatta in casa, che però quando arriva ad un certo livello ha bisogno di strutturarsi come tutte le grandi aziende di questo mondo. Universal da questo punto di vista ci sta permettendo di fare dei notevoli salti di qualità che altrimenti avrebbero richiesto molto più tempo. Per dirla in parole povere, abbiamo visto con l’etichetta che Nameless può, potenzialmente, essere un milione di cose: da soli possiamo essere solo il festival, mentre Universal ci può aiutare ad essere quel milione di cose. Davvero, abbiamo una tonnellata di progetti spin off da testare, poi quando avremo le idee un po’ più chiare e ne potremo parlare apertamente ti richiameremo per aggiornarti in anteprima!
F: Per me questa collaborazione è uno dei traguardi professionali più belli che potessi pensare di raggiungere. Mai avrei immaginato che una major potesse interessarsi così a fondo ad un progetto locale, per di più legato alla musica elettronica. È davvero una cosa che mi riempie di orgoglio, un sogno nel cassetto che finalmente, dopo anni, sta vedendo la luce.
Cambiamo argomento: quali sono i pro e i contro di avere un pubblico molto giovane, come il vostro?
A: In realtà da noi l’età media cresce di anno in anno. Io sono dell’idea che oggi, in Italia, un pubblico specifico per la dance non esista, che ce lo dobbiamo costruire. Paradossalmente nei filoni più underground c’è sempre stato, da un certo punto di vista, mentre nel mainstream si è andato a perdere quindici anni fa. Noi quando abbiamo iniziato non avevamo né un club né niente, a Lecco; facevamo feste studentesche in location un po’ improvvisate con i nostri dj resident che suonavano quella progressive/electro house che stava già diventando EDM. Da lì ci siamo costruiti un seguito che per forza di cose partiva dai ragazzi del ’94, ’95, e andava a svilupparsi di anno in anno seguendo l’evolversi delle generazioni nella nostra città. Questo è stato un grande vantaggio per noi, soprattutto all’alba di Nameless, perché ci ha consentito di vendere qualche migliaio di biglietti a scatola chiusa a ragazzi che sapevano che cosa venivano ad ascoltare. Siamo sempre stati i primi a sostenere che un festival, per come lo concepiamo noi, non debba avere limiti di età di nessun genere, tant’è che ci siamo spesso ritrovati con famiglie con bambini al seguito all’interno di Nameless. Senza dubbio è una cosa che ha pro e contro, a partire dalle necessità di una maggiore attenzione nei controlli fino ad arrivare al trentenne che vorrebbe venire ma è frenato, chissà poi perché, dalla presenza di ragazzi più giovani.
E anche quello poi è un retaggio tipicamente italiano…
A: Assolutamente si, ed è un altro di quei pregiudizi senza senso che stiamo cercando di debellare, nel nostro piccolo, devo dire con discreto successo. Di pro, come dicevamo, c’è sicuramente quello di avere una fan base importante. I contro che abbiamo citato potevano rappresentare un problema se Nameless non fosse diventato così sentito a livello di brand. Noi ce ne siamo fregati fin da subito e oggi ti posso dire che abbiamo vinto la scommessa. Il nostro pubblico diventa più maturo anno dopo anno e accanto a questo, ogni anno vediamo una generazione che entra ma non ancora una che esce. Per quanto riguarda la sicurezza dei ragazzi, al di là delle classiche perquisizioni all’ingresso e ai braccialetti distintivi per impedire la vendita di alcolici ai minorenni, l’età del pubblico non ci comporta neanche chissà quale sforzo. Il nostro regolamento di funzionamento non è niente di esagerato, è assolutamente simile a quello di tutti gli altri festival in giro per il mondo, A riprova del fatto che l’età non è un fattore discriminante, anche quest’anno abbiamo avuto per Nameless un rapporto di AREU, che è la società che gestisce il soccorso in Lombardia, assolutamente positivo. Abbiamo avuto un numero davvero esiguo di interventi e soprattutto sempre per ragazzi maggiorenni e solo per abuso di alcolici, a riprova che il problema non è l’età.
Anche se di solito non ce lo si aspetta da un festival prettamente EDM, si può dire che facciate anche degli sforzi finalizzati all’educazione musicale del vostro pubblico. Ogni volta ci provate ad indirizzarlo verso generi diversi, per quanto sotto l’ombrello della dance mainstream…
A: Si, e ti assicuro che non è per niente facile. Nel 2014 ad esempio abbiamo provato a dedicare il main stage alla Drum’n’Bass per una giornata intera, quella del venerdì. Abbiamo portato Netsky e ShyFX come headliner e anche il resto della line up non era niente male. È stato difficile perché siamo stati completamente ignorati dal pubblico D’n’B, ma di contro il nostro pubblico, quello più marcatamente EDM, che il venerdì era lì praticamente solo perché aveva il biglietto per i tre giorni, si è divertito parecchio. Ci lanciamo sempre volentieri in esperimenti di questo tipo, per quanto rischiosi, perché il più delle volte ne otteniamo belle soddisfazioni. Anche quest’anno, ad esempio, mi ha fatto un sacco piacere sentirmi dire dalla manager dei Chocolate Puma, che poi era la stessa di Bart B More quando l’abbiamo portato qui due anni fa, che i suoi artisti si sono trovati benissimo e che Nameless è una delle migliori situazioni in cui si siano esibiti in Italia. E i Chocolate Puma non sono proprio gli ultimi arrivati, hanno un curriculum di tutto rispetto, non sono mai banali sia nelle produzioni che nei dj set e di sicuro non rientrano nel calderone dell’EDM in senso stretto. Possiamo permetterci di portare gente come loro perché credo che oggi Nameless viva al 90% dell’immagine del festival e solo al 10% di quella degli artisti in line up. Anzi, se portiamo un artista che in Italia fa fatica, stai sicuro che se fa bene da noi può dare una bella spinta alla sua popolarità nel nostro paese. Vedi Snails quest’anno: magari qua in zona qualcuno lo conosceva già grazie a belle realtà come Oh My Club a Legnano, che l’aveva già ospitato qualche tempo fa, ma la stragrande maggioranza di quelli che erano sotto la tensostruttura durante il suo set credo che fosse la prima volta che lo sentivano nominare. Non è mai facile, con quegli artisti che non sono necessariamente votati al pop, ma sono convinto che possano sempre risultare un asso nella manica se collocati nel contesto giusto. Ogni artista a suo modo è una scommessa e per ora posso dire che le abbiamo vinte quasi tutte. Un altro esempio è Jonas Blue: l’abbiamo pagato pochissimo anche se veniva da una hit mondiale come “Fast Car” e nessuno sapeva cosa aspettarsi da un suo dj set. Insomma, non solo ha fatto un set interessantissimo, che ha lasciato tutti soddisfatti, ma si è anche rivelato una persona squisita, umilissima, con cui ci siamo divertiti molto. Tra l’altro so che sull’onda della sua esibizione da noi ha fatto tante altre date in Italia quest’estate, e non potremmo esserne più felici! Poi per l’anno prossimo abbiamo intenzione di aumentare il numero di palchi, quindi ci sarà ancora più spazio ad esperimenti di varia natura, però qui mi fermo perché al momento non ti posso dire altro.
D’accordo, aspetteremo news allora! E invece tra gli artisti qualcuno che ha deluso le aspettative vostre o del pubblico c’è stato?
F: Parlando dell’ultima edizione devo dire che gli artisti sono stati apprezzati più o meno tutti. Anzi, alcuni nomi “medi” hanno fatto persino meglio degli headliner. Tutta la Barong Family ha impressionato alla grande e abbiamo avuto piacevoli sorprese anche dai nostri ragazzi emergenti.
A: Mi viene in mente, se penso all’anno scorso, che forse uno che non è riuscito a convincere del tutto è stato Mike Mago ma perché probabilmente abbiamo sbagliato noi a metterlo in un orario in cui è stato difficile da capire ed apprezzare. Ha fatto un set mezzo future house, un po’ lento, molto figo ma un po’ in anticipo rispetto ai tempi e soprattutto inserito in un contesto prettamente Melbourne Bounce come quello dell’anno scorso, in cui è risultato un po’ più difficile da apprezzare.
A proposito degli italiani emergenti, mi pare di capire che siano uno dei capisaldi sia del festival che di Nameless Records…
F: Senza dubbio, Nameless Records è nata praticamente per quello e anche il festival ha un ruolo fondamentale nella crescita dei nostri ragazzi. Stiamo cercando di rendere Nameless una sorta di canale per poter arrivare a farli esplodere tutti. È l’obiettivo della label, ma anche del festival: se ci pensi, ogni anno vedi almeno una dozzina di emergenti italiani sul main stage e ad orari sempre più rilevanti. Guarda anche solo Merk&Kremont, quest’anno erano praticamente headliner, hanno aperto ad Alesso. Ma anche gli altri, sono tutti ragazzi giovanissimi che pian piano stanno arrivando ad essere sulla bocca di tutti.
Il contest che proponete ogni anno è una miniera d’oro per voi, in questo senso…
F: Certo, ci permette di scoprire dei ragazzi interessanti, che altrimenti non avrebbero modo di farsi notare. Penso ad esempio a Marble, a Kharfi, sono ragazzi giovanissimi ma con le idee molto chiare. Hanno stile e personalità e questa cosa ci piace tantissimo. Siamo riusciti a dare risalto ad un progetto trash-goliardico come Edmmaro ma anche a cose più di nicchia. Secondo noi sono due facce della stessa medaglia, da una parte l’esasperazione e la storpiatura più estrema dei paradigmi EDM, dall’altra cose decisamente più ricercate. Oggi puoi trovare contesti di club esageratamente trash o diametralmente opposti verso l’underground, ma non credo esistano realtà che riescano a far convivere i due mondi e questo per me è un valore aggiunto. Sappiamo divertirci senza prenderci troppo sul serio, anzi certe volte per nulla, ma sappiamo anche apprezzare e valorizzare i contenuti con un certo valore artistico.
A: Io sono convinto che l’Italia sia un paese pieno di talenti, anche nell’EDM. Ma è altrettanto vero che è pieno di luoghi comuni del cazzo, di rivalità fine a se stessa, di porte chiuse a priori. Noi cerchiamo innanzitutto di offrire un’opportunità a chi dimostra di meritarsela, ma anche di sconfiggere quel modo di pensare così meschino. Anzi, scrivilo pure: la mia nuova politica è che chi mi parla male gratuitamente di un collega, può anche essere il miglior produttore del mondo, ma per me finisce direttamente in black list!
Invece parliamo un po’ dei competitors di Nameless: come vedete la situazione italiana in materia di festival?
A: Partendo dal presupposto che, come dicevamo prima, in Italia manchi una cultura dance di fondo, è un po’ difficile parlare di competitors se ci riferiamo al mondo strettamente EDM. Negli ultimi due, tre anni, ho girato un po’ tutti i vari mini-festival che si trovano sul nostro territorio e ho sempre visto un sacco di gente di Lecco. Gente che viene a Nameless da anni, che è abituata ad una certa tipologia di eventi e che quindi lo va a cercare anche al di fuori della propria città. Sono generazioni che sono rimaste un po’ orfane dei club, quindi magari fanno meno serate in discoteca durante l’anno per poi spendere 100€ per andare ad un festival, che ne so, a Torino o a Genova o chissà dove. Purtroppo noto che da parte degli organizzatori ci sia poca coscienza del fatto che i nomi in line up non determinano la dimensione del festival stesso, ed è il motivo per cui tante realtà sono nate ed implose nel giro di pochi mesi. Molti pensano che basti un nome grosso per fare il festival, salvo poi tirarsi la zappa sui piedi per via dei grandi costi che questi nomi si portano a presso e provocare danni di immagine sia a se stessi che agli artisti che alla scena italiana in generale. Bisogna sempre pensare che un possibile flop di un artista ad un evento, di chiunque siano le responsabilità, ha conseguenze su tutto l’ecosistema. Io ritengo che tre, quattro, cinque festival importanti siano indispensabili all’Italia per poter costruire un mercato, motivo per cui auguro tutta la fortuna possibile, ad esempio, al Wish Outdoor a Firenze. Sono favorevole a queste “importazioni” perché portano del know how preziosissimo da un paese come l’Olanda che notoriamente è parecchio più avanti di noi in materia. Però devono rendersi conto, per il loro bene, che il mercato italiano è infinitamente più ristretto rispetto a quello olandese e che, come gli abbiamo suggerito, è preferibile partire mantenendo un profilo mediamente basso per poi crescere costruendosi la reputazione nel medio-lungo periodo. Questo è un discorso che facevo qualche giorno fa con Dino Lupelli di elita ed è un discorso se vuoi difficile da capire, secondo la mentalità tipicamente italiana: se nell’arco di un anno, che comunque è un periodo ampio, si distribuissero quattro o cinque appuntamenti importanti sparsi sul territorio nazionale, sono sicuro che le aree in cui questi si sviluppano vedrebbero sicuramente fortificarsi la festival culture e si verrebbero di conseguenza a creare delle sacche di potenziale clientela anche per le altre realtà. Avere uno scambio di clienti tra le varie realtà e tra le varie aree geografiche vale molto di più che coltivare il proprio orticello locale isolandolo dal resto d’Italia. Io spero con tutto il cuore che con il tempo arrivino sempre più festival che possano competere con Nameless, fissando anche standard e obiettivi sempre più alti e contribuendo a creare un mercato che oggi ancora non c’è.
F: Io mi ricordo di un articolo che ho letto proprio su Soundwall, in cui il tuo collega Damir Ivic, parlando di un festival italiano piccolo ma ben fatto, lo definiva come una specie di paradigma del modo di fare i festival all’italiana: ecco, Damir ha perfettamente ragione. Non ci può essere solo la maniera olandese di fare i festival, esistono anche i festival all’italiana! Saranno anche più piccoli, ma ognuno ha il suoi elementi caratterizzanti. Nameless è uno di questi, e rimarrà tale. Secondo me è una figata andare sopra al lago di Lecco, in una location del genere, ad ascoltare musica elettronica e mangiare la polenta taragna con un tagliere di affettati e un bicchiere di vino locale. Sarebbe molto bello e molto più fruttuoso se altre realtà italiane valorizzassero ciò in cui non siamo secondi a nessuno, piuttosto che cercare di imitare gli olandesi o gli americani.