Noi italiani lo sappiamo: passato ferragosto arriva il tempo della nostalgia; le giornate si accorciano, le ultime comitive di turisti si apprestano a godere degli scampoli di bella stagione, le spiagge si svuotano e regalano uno splendore fatto di quiete e tramonti silenziosi. Difficile immaginare momento più perfetto per l’uscita di “Roosevelt“, il debutto lungo del tedesco Marius Lauber.
Roosevelt, che è anche il moniker del giovane artista, è un connubio di ritmi balearici da lounge bar ibizenco, synth sognanti dedicati a chi cerca le stelle cadenti e voce calda da serenata d’amore; è un disco che fa della nostalgia un capolavoro, e il merito non è solo della lunga lista di stereotipi che vanta – l’amore per gli ’80 e per la disco, la cosmic e l’italo, le conga e il french touch, i testi malinconici e i ritornelli – ma soprattutto della maestria con cui il giovanotto renano è riuscito a far proprio lo spirito di chi, questi stereotipi, li ha originariamente concepiti.
Roosevelt non si dedica a giochi cervellotici e virtuosismi intellettuali; non inventa suoni nuovi, ma nuovi trucchi da mago multistrumentista: il risultato è sì nostalgico, ma anche chiaro, pulito, meticoloso.
È facile immaginare il giovane Lauber, nel grigiore della sua Colonia, sognare sulla magica chitarra di Nile Rodgers, imparare a memoria i testi di John Martyn e Arthur Russel e scoprire che i sintetizzatori possono essere divertenti tanto quanto una chitarra elettrica. I suoi ascolti vanno da Brian Eno a Robyn e la produzione che ne consegue è fatta di melodie semplici e lineari, di cui apprezzare la qualità delle linee di basso e degli accordi di chitarra, dei laser intelligentemente dosati e dei loop in leggero crescendo. Le tracce di Roosevelt scorrono fluide, la fine dell’una introduce l’inizio dell’altra, a rendere omaggio all’esperienza da dj dell’artista, e quando il disco finisce viene voglia di farlo ripartire, per non smettere di sognare: ogni volta che parte il beat l’ascoltatore viene preso per mano e gli viene raccontata una storia, che diventa più avvincente ogni volta che si aggiunge uno strumento. Con Roosevelt si sogna, si balla e si canta, perché è un disco pop, dedicato a tutti; mai noioso, mai pretenzioso.
Tra tutti i producer/band contemporanei che si sono dedicati alla riscoperta dello spirito disco, da Is Tropical a Goldroom, da Tesla Boy a Haelos, dalle collection di Eskimo Records a quelle di Maison Kitsunè, per non parlare della cricca nordica di Todd Terje, Prins Thomas e Lindstrøm, Roosevelt è forse quello che ci ha regalato il prodotto più puro e fedele: non poteva sfuggire all’occhio lungo di Joe Goddard e i soci di Greco-Roman, sempre attenti a quel magico binomio fatto di ballo da dancefloor e cantatoni da summer hit. Pur senza le pretese di elevarsi a nuovo genio del pop, Roosevelt ci ha regalato un’ottima colonna sonora per questi giorni di transizione verso l’autunno: genuina, colorata, nostalgica.
Non rimane che sperare in una data italiana del suo tour internazionale: dico a voi, bookers.