“Alla fine del 1992, i motivetti allegri del periodo di maggiore fortuna commerciale del rave erano stati eclissati da uno stile chiamato “darkside” o “darkcore”. L’hardcore cominciò a essere ossessionato dalla paura collettiva di “essersi spinti troppo oltre”. Sia sul piano tematico che prettamente sonoro, i brani darkside rendevano l’idea del pedaggio che a lunga scadenza si era dovuto pagare per l’uso sostenuto e prolungato di Ecstasy, marijuana e anfetamina: effetti collaterali come depressione, paranoia, dissociazione, allucinazioni uditive e paura dell’ignoto.”
“Improvvisamente, i club sono pieni di anime morte, con gli occhi da zombie e l’aspetto prematuramente stanco.”
(Simon Reynolds, Energy Flash, 1998)
Il britannico Zomby ha dedicato il suo primo long playing “Where were U in ’92?” (Werk Disc, 2008) a quella seconda ondata rave, fatta di eventi a pagamento e rave club, di studi casalinghi e riferimenti alla cultura punk del DIY, di giovani tuned in e di inni da Top Twenty. Dopo “Let’s Jam!!” (XL Recordings, 2015), il doppio EP uscito lo scorso anno che è un inno alla acid house della second summer of love (1988), “Ultra” (Hyperdub) chiude il cerchio scivolando nelle tenebre del biennio 1992/1993 rielaborando l’incubo delle paranoie post-euforia; in questo caso, però, la differenza con il darkcore originale sembra essere sostanziale: Zomby paga il pedaggio per l’ostentazione prolungata del suo immenso ego; si pensi al numero di elementi immediatamente riconoscibili che l’artista usa quasi come fossero la sua firma: le melodie drammaticamente cinematografiche, le sirene, gli spari di fucile, i richiami all’ambient e all’IDM, i campanellini pixellati, i bassi intensi, i riferimenti hardcore, jungle e eskibeat.
L’oscurità dalla quale si viene avvolti ascoltando “Ultra” è l’esasperazione di un’estetica già sperimentata, seppure ancora bellissima; “Reflection”, la traccia di apertura, descrive perfettamente l’ingresso in scena di un ego mostruoso e fortissimo, in un’atmosfera di inquietudine talmente cinematografica da calzare a pennello una delle scene più indimenticabili di questa stagione televisiva: i campanellini suonano a intermittenza e ricordano le luci di natale che lampeggiano all’arrivo del mostro/demagorgo di Stranger Things, mentre una melodia oscura tiene alta la tensione insieme agli spari di fucile, che mantengono vivo il tema hardcore; la voce femminile arriva dritta dritta da Twin Peaks, forse a tentare di dare un senso al famoso tweet in cui Zomby immaginava una collaborazione con i Beach House per la colonna sonora della nuova serie dello show.
L’amore per il signor Lynch non fa necessariamente del producer mascherato il migliore dei registi: la storia raccontata in “Ultra” risulta troppo frammentata rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare; Zomby ci ha abituati a lavori costruiti come collezioni di tracce brevissime e bruscamente interrotte, ma la struttura più “tradizionale” di questo disco, in termini di durata e numero delle tracce, lasciava sperare in un album più fluido, capace di scorrere facilmente come fosse la pellicola di un lungometraggio; all’ascolto, invece, si ha di nuovo l’idea di un disco fatto per esporre idee ed elaborazioni fascinose, interessanti, colte ed ardite, ma prive di un disegno globale in grado di dar loro un senso compiuto: sembrerebbe quasi un meraviglioso campionario di esperimenti e dj tool.
“Ultra” vanta la collaborazione di ospiti illustri come Darkstar: “Quandary” stupisce per la capacità di Zomby di plasmare a piacimento il proprio stile, che calza a pennello anche sulle percussioni tropicali; il duetto più atteso era certamente quello con il (di nuovo) compagno di etichetta Burial, che per riservatezza personale e stile artistico può essere considerato l’alter ego di Zomby; “Sweetz” è una creatura indipendente, dove loop paranoici si alternano a sospiri metallici, e pause improvvise interrompono una melodia che sembra un patchwork di esperimenti accostati senza regole: è difficile riconoscervi la nostalgia quasi romantica tipica di Burial.
Quello che affascina di questo disco è che l’autore non sembra avere alcun interesse nel compiacere chi ascolta, si limita a regalare al suo pubblico un prodotto altezzoso, frutto di pomeriggi interi passati a scandagliare la storia musicale dalla quale attinge, senza nascondere lo snobismo che lo caratterizza; eppure dopo qualche ascolto si viene stregati da questo pot-pourri di suoni, come fosse la pozione magica preparata da un oscuro stregone, e ci si ritrova inermi ad apprezzare senza, forse, capire.