“La nostra musica è nata per riuscire a raggiungere altri posti, altre situazioni, altre realtà.”
La storia dei Giardini di Mirò è avventurosa e non convenzionale, proprio come il loro suono. I ragazzi di Cavriago, che nel frattempo sono diventati uomini, mantengono intatta la loro integrità artistica e la loro curiosità nei confronti della musica del mondo, anche a quindici anni dal primo disco “Rise and Fall of Academic Drifting”. In occasione di questo importante anniversario abbiamo avuto la possibilità di parlare con Corrado Nuccini, uno dei protagonisti di questa “palestra di spunti e di scambi musicali”, facendoci raccontare quello che sono stati, sono e saranno i Giardini di Mirò. “La nostra è una storia fatta di progetti musicali storti” ci dice ad un certo punto Corrado, e non potrebbe essere altrimenti considerato che nelle loro canzoni c’è dentro il post-rock, il jazz, l’elettronica, la fascinazione nei confronti delle musiche da film e tanto, tanto altro ancora.
Mi racconti, prima di tutto, chi erano i Giardini di Mirò nel 2001?
Posso dirti che era un gruppo all’inizio della propria avventura musicale, con la voglia di utilizzare la musica non solo per fare un disco ma per uscire dalla nostra dimensione, da quella dove avevamo vissuto fino ad allora. Mi piace rievocare un’immagine dello scrittore Pier Vittorio Tondelli: più o meno dalle nostre parti ha inizio la “Brennerautobahn”, l’autostrada del Brennero che porta fino a Berlino, ebbene la nostra musica è nata per riuscire a raggiungere altri posti, altre situazioni, altre realtà.
Alla fine degli anni 2000 usciva il debutto dei Gorillaz e poi nel 2001 “Amnesiac” dei Radiohead, “Discovery” dei Daft Punk e il vostro “Rise and Fall of Academic Drifting”. Come vivevate il rapporto con la musica che sentivate attorno a voi?
Erano anni febbrili, oltre alla nostra dimensione geografica di cui ti dicevo prima, i Giardini di Mirò erano, e continuano ancora ad essere, una palestra di spunti e di scambi musicali. La fine degli anni ‘90 per me e per Jukka Reverberi significavano andare spesso a Bologna, quella del “Link”, del “TPO”, un po’ dopo anche del “Covo”, che erano locali dove potevi andare due o tre volte a settimana e trovare sempre concerti incredibili. Credo che in quel periodo lì, dal ‘95 al 2000, comprassimo o perlomeno ascoltassimo tutte le uscite che c’erano. Erano anni importanti non solo per i dischi che hai citato tu, che sono delle autentiche pietre miliari, ma anche per la nostra scena, quella più underground, che va dal post-rock agli altri suoni. Se non sbaglio anche il primo dei Mogwai usciva in quegli anni lì, poi c’erano già i Godspeed You! Black Emperor e i Tortoise, era tutto un fermento musicale che poi ha portato all’uscita anche del nostro disco.
Come suonerete dopo è cosa nota a tutti, mi piacerebbe sapere qual era il vostro suono appena vi siete conosciuti?
Il primissimo progetto dei Giardini di Mirò nasce durante il nostro periodo universitario alla facoltà di lettere di Bologna. La frequentavo io e Giuseppe Camuncoli, che però ha lasciato il gruppo quasi subito per diventare poi un noto fumettista; oggi disegna regolarmente Batman e altri supereroi americani. Volevamo tirare su un gruppo e i riferimenti erano quelli del rock degli anni ‘90, sia degli americani che provenivano dal grunge che della scena italiana cosiddetta “alternativa”, tipo CSI e tutto quello che gli gravitava attorno. Le primissime cose erano, per l’appunto, con Camuncoli alla voce ed io alla chitarra e pian piano si aggiunsero Jukka e tutti gli altri. Quando Camuncoli lasciò il gruppo, proprio Jukka propose di registrare un disco strumentale, senza cantante, tipo quelli dei Tortoise e da lì è partita la storia che conoscete tutti.
“Rise and Fall of Academic Drifting” è un disco strumentale che però contiene due collaborazioni molto riuscite. Matteo Agostinelli degli Yuppie Flu mise la sua voce su “Pet Life Saver” mentre Paul Anderson dei Tram cantò la ballata “Little Victories”. Ci racconti come sono nate queste collaborazioni?
Il disco uscì per l’etichetta bolognese “Homesleep”, che era la fusione di esperienze diverse, quella fiorentina di Giacomo Fiorenza da un lato, poi c’era quella di Daniele Rumori e infine l’apporto di Matteo Agostinelli degli Yuppie Flu. Quindi con Matteo la collaborazione fu del tutto naturale; per quanto riguarda Paul Anderson tutto nacque per una serie di coincidenze, ci piacevano molto i Tram, come ti dicevo ascoltavamo tutti i dischi che uscivano e il loro debutto fu per noi un disco molto importante. Inoltre, Daniele Rumori lo conosceva e ci mise in contatto con lui.
Siccome prima hai tirato fuori l’argomento, ne approfitto per chiederti come reagivate quando si parlava di voi in termini di post-rock. Non la trovavate una definizione limitante? Magari vi dava pure fastidio.
Se la definizione viene utilizzata come limitazione del genio creativo allora sì, ti può dare fastidio, ma noi abbiamo sempre dato valore alla nostra musica e cercato di farla nel migliore modo possibile. Conosciamo i nostri limiti e le nostre qualità e questo è sempre stato il nostro punto forte, ci ha permesso di superare le difficoltà come gruppo, perché non è per niente facile tenere assieme una band per tanti anni. I diversi ego dei componenti devono stare a bada, per esempio. Per rispondere meglio alla tua domanda posso dirti che all’inizio essere identificati come facenti parte di una scena ci ha anche aiutati, ha permesso di far girare di più il nostro nome, è dopo che è diventato un fardello. Comunque poi passa, i Giardini di Mirò si sono sempre evoluti e ora possono essere considerati come un gruppo che ha fatto dischi molto diversi, abbracciando sonorità che vanno dal noise-rock alla dark-wave, frullando dentro tutta quella musica che semplicemente ci piace.
Al di là dei generi, credo che le vostre siano sempre state soprattutto canzoni e non composizioni, anche quando più lunghe e strumentali. Forse il misurarsi con il formato canzone è il vostro vero filo conduttore artistico. Sei d’accordo?
Sì, non abbiamo mai avuto l’ambizione di fare qualcosa di altro rispetto alle canzoni. Venivamo dall’universo dei pezzi da tre minuti e mezzo e ci siamo ritrovati catapultati dentro a qualcosa di diverso, almeno all’inizio, ma ci tengo a dire che la nostra forma mentale è sempre stata orientata verso le cose semplici. Ricevemmo un bel commento a quei tempi, non ricordo bene da chi, ci disse che riuscivamo a rielaborare in una forma semplice tipi di musica più complessa, riproponendola in un formato fruibile per tutti.
Sono d’accordo, la stessa cosa vale anche per la vostra parentesi più elettronica. Come è nato il disco del 2006 “North Atlantic Treaty of Love”?
La nostra è una storia fatta di progetti musicali storti e all’inizio ci soffrivano anche. Ci sarebbe piaciuto fare un disco come lo fanno tutti, con arrangiamenti normali e così via, poi però ci siamo appacificati con quest’idea, abbiamo compreso che il nostro stile è questo qui. “North Atlantic Treaty of Love” nasce dai nostri tour che facevamo in Germania e dall’incontro con realtà quali la “Morr Music” e altre etichette dell’epoca come la “City Center Offices”, che ha anche stampato alcuni nostri dischi. Insomma, è un lavoro legato a Berlino, a quel nascente filone elettronico di gente come Notwist e Lali Puna. Loro ci piacevano perché riuscivano a coniugare bene suoni diversi che andavano dagli Slowdive ai Kraftwerk. All’epoca il nostro disco di riferimento era “Neon Golden” dei Notwist, che rimane tutt’oggi un album fondamentale.
E la collaborazione con Apparat come nacque?
Apparat venne a Berlino a un nostro concerto perché gli piacque un disco prima di “North Atlantic Treaty of Love”. Lo conoscemmo e nacque in modo molto naturale la collaborazione che lo portò a remixare un nostro pezzo inserito nella raccolta (“Once Again A Fond Farewell Apparat Remix” ndr). L’anno dopo tornò a collaborare con noi sulla produzione di un brano dentro l’album “Dividing Opinions” (“Cold Perfection” ndr).
Prima mi hai rubato le parole di bocca, se penso ai Giardini di Mirò l’unico accostamento musicale sensato che mi viene da fare è con i Notwist. Ti avrei chiesto cosa ne pensi ma praticamente mi hai già risposto.
E’ un bellissimo complimento, grazie! Loro li abbiamo sempre ammirati in tutto, per l’apertura musicale, per la capacità di portare i loro suoni e il loro stile in tante dimensioni e realtà diverse, con un approccio che mi fa tornare in mente ciò che dicevamo all’inizio dell’intervista e di cui andavamo fieri, ovvero dare alle stampe dischi dove ci sono citazioni, rielaborazioni e concetti provenienti dalla musica colta, ma resi assolutamente pop.
Torniamo un attimo al vostro anniversario. State festeggiando i quindici anni di “Rise and Fall of Academic Drifting” riproponendolo dal vivo in un tour speciale. Cosa si prova a fare un’operazione del genere?
All’inizio non eravamo esaltati dall’idea di fare questo tour, nel tempo se ne sono viste parecchie di queste cosiddette “operazioni nostalgia”, magari da parte di band sciolte vent’anni prima, che in occasione di un certo anniversario tornano a suonare assieme per dieci date. Non è questo il nostro caso però, perché non ci siamo mai sciolti e non abbiamo mai smesso di suonare. Siamo tutti d’accordo con quell’idea secondo cui la musica è di chi la fa ma anche di chi ascolta e quindi c’è dentro tutta quella condivisione di emozioni, di vita, di periodi storici, di ricordi che hanno coloro che al tempo hanno amato il disco. Quindi abbiamo pensato che potesse semplicemente essere un bel momento di condivisione con il nostro pubblico.
I Giardini di Mirò di oggi come rifaranno quell’album?
Come approccio live sarà piuttosto simile, però nel mezzo sono passati quindici anni, quindi se vogliamo uscire dalla poesia legata al nostro di cambiamento, è proprio diversa la tecnologia e i modi di suonare. Sarebbe impossibile rifarlo esattamente com’era perché è cambiata del tutto la strumentazione, la mia pedaliera, i piatti, c’era a malapena internet a quei tempi, c’era “myspace” e non “Facebook”, era davvero un mondo antico. Cercheremo di portare il meglio di quei pezzi e li rifaremo tutti, anche qualcosina delle nostre stazioni successive. Se vai sul nostro Instagram abbiamo anche pubblicato una scaletta tipo.
Quanto è stato difficile trovare un equilibrio tra le vostre radici – la provincia emiliana – e il voler essere un gruppo dal respiro europeo?
Cerco di risponderti con un aneddoto che mi viene in mente. Si viveva in un mondo meno conosciuto, più misterioso, credo non solo per noi. In occasione del nostro primo tour in Germania nel 2001, partimmo da casa con il furgone carico di persone e di strumenti, ma trovammo lo spazio per mettere della pasta, del parmigiano, come neanche Totò e Peppino. In realtà poi durante quei quindici giorni di tour non cucinammo mai la pasta se non una sera per fare folclore, la riportammo tutta indietro. Però andavamo incontro a quel mondo con questa ingenuità qui, ed è stato bello anche crescere e capire che in Germania non si muore di fame e non hai bisogno di queste cose. E’ davvero come essere su un ponte tra la provincia e l’Europa, con noi nel mezzo a vedere casa nostra da un lato e l’altrove imperscrutabile di là. Alle volte è anche molto difficile stare in mezzo perché si rischia di non essere capiti da nessuna delle due parti.
Se siete qui a festeggiare i quindici anni di un album, non avendo comunque mai smesso di dare alle stampe ottimi dischi, vuol dire che avete capito come funziona. Cosa ci vuole per far girare bene le cose?
Non bisogna fare altro se non quello che si ama profondamente. Noi abbiamo sempre fatto così e questa è l’unica regola che mi sento di dare con tranquillità.
Pensavo anche io al fatto che concentrarsi sul business probabilmente non porta a nulla, eppure un po’ è necessario, no?
Ho capito cosa vuoi dire, diciamo che la nostra priorità è stata, ed è ancora oggi, quella di far emergere ciò che abbiamo dentro. Quindi abbiamo anche fatto alcune scelte ben precise, i componenti dei Giardini di Mirò hanno anche altri mestieri, che convivono con quello dell’essere musicisti. L’idea di business comunque non ti nego che mi affascina, ci sono band come i Sigur Rós che riescono ad avere successo senza snaturare la loro essenza, ma si possono anche citare moltissimi gruppi americani come i Wilco, i Sonic Youth o i National che sono band di tutto rispetto, molto note, che riescono a far convivere ricercatezza sonora e popolarità. Noi anche, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di diventare più popolari possibile, ma tenendo sempre e comunque fede alla nostra idea musicale.
Qual è stato il momento più difficile per i Giardini di Mirò?
Ciclicamente nei gruppi ci sono momenti difficili, per esempio quattro anni fa abbiamo avuto alcune defezioni perché il nostro batterista storico Francesco Donadello si è trasferito a Berlino. Lo abbiamo sostituito con un altro batterista che poi è a sua volta andato a New York. Poi il nostro bassista ha avuto qualche problema e ha sospeso l’attività musicale. In quei momenti vengono a mancare alcune sinergie che sono importanti. Mentre le vivi magari non te ne accorgi neanche, ma poi quando quell’unicità che si era instaurata viene a mancare o si sbilancia il futuro diventa seriamente incerto. Abbiamo avuto questa fase subito dopo l’album “Good Luck” però siamo riusciti ad uscirne, fortunatamente.
C’è stato, invece, un momento in cui hai pensato che tutto stava andando per il meglio, che eravate pienamente soddisfatti, intendo davvero al 100%.
Sì, probabilmente tra gli album “Dividing Opinions” e “Il Fuoco”, perché avevamo superato delle situazioni particolari, Francesco Donadello produceva i dischi e lo faceva in un modo eccelso. Sono due dischi che oggi suonano ancora benissimo e hanno una sonorità per noi importante, di quei dischi lì siamo pienamente soddisfatti.
Consigliateci un disco a testa uscito nel 2016.
Mirko Venturelli: Nik Bärtsch’s Mobile – “Continuum”; Jukka Reverberi: Heron Oblivion – s/t; Corrado Nuccini: Tim Hecker – Love Streams. Inoltre io vi consiglio di ascoltare anche “The Catastrophist” dei Tortoise, “Nerissimo” di Teho Teardo & Blixa Bargeld e un pezzo che si chiama “Nuccini” contenuto nell’album “La Guerra Di Domani” a firma di Sorge (il nuovo progetto di Marco Caldera ed Emidio Clementi ndr).
Chi si occupa della stesura dei testi dei Giardini di Mirò?
Solitamente per noi vale la regola che i testi li scrive chi li canta, tranne qualche rara eccezione come in “Dividing Opinions” dove il testo è stato scritto a quattro mani da Jukka e Jonathan Clancy e “Broken By” che invece ha visto la collaborazione tra Jukka e Alessandro Raina. Anche quando c’è un contributo esterno tendiamo a lasciare spazio all’ospite, infatti, tornando a “Rise and Fall of Academic Drifting”, Paul Anderson si è occupato del testo di “Little Victories” mentre per “Pet Life Saver” ci hanno pensato gli Yuppie Flu.
E sulla costruzione di un album? Ci racconti in che modo capite che è pronto e se ci sono dei passaggi obbligati per realizzarlo, magari suonare tutti assieme in studio, cose così.
La paternità dei nostri pezzi solitamente è chitarristica, quindi nascono e si sviluppano principalmente da alcune idee mie e di Jukka, poi a seconda dell’album, naturalmente, entrano anche suoni diversi e collaboratori che portano dentro idee e spunti nuovi da elaborare tutti assieme. Quando un album ci sembra pronto facciamo una pre-produzione che facciamo girare per capire se funziona o meno, non ci siamo mai imposti scadenze o termini perentori, perché quella è un’altra cosa.
Chi è il perfezionista del gruppo e chi quello che preferisce il “buona la prima”?
Il vero perfezionista del gruppo era Francesco Donadello. Sulla qualità sonora lui era intransigente, tant’è che oggi lavora con Jóhann Jóhannsson, produce colonne sonore che sono candidate all’oscar, sull’aspetto tecnico sonoro è sempre stato il più attento di tutti. Noialtri ci teniamo comunque molto, abbiamo compiti diversi sui quali cerchiamo di fare il nostro meglio. Il concetto di “buona la prima” mi affascina molto ma non è facile da realizzare. Gli ultimi dischi, comunque, li abbiamo registrati con una componente in presa diretta, che è un buon compromesso per non avere un disco troppo statico. “Rise and Fall of Academic Drifting” invece fu registrato completamente in analogico su di un banco dove avevamo ognuno il suo canale, ogni strumento era registrato singolarmente su di una pista, una registrazione di un altro mondo.
E adesso lo avete ristampato in edizione di lusso, in vinile doppio, in collaborazione con la “42 Records”. Una provocazione: ha ancora senso, oggi, il formato fisico?
Finché ce lo chiediamo, secondo me ha senso. E’ chiaro che ci stiamo spostando verso un altrove dove la musica è di bassa qualità, il che è un po’ un’umiliazione per chi la fa. Il vinile ha questo momento di gloria perché è un oggetto bello, che racconta una storia, con l’acquisto ti sembra di portarti a casa un surrogato del gruppo e della sua musica, qualcosa che ti avvicina ai musicisti.
Avete già in testa il prossimo album, vero?
Facciamo queste date e poi penseremo a qualcosa di nuovo, non abbiamo ancora nulla nel cassetto ma ci sarà, questo posso dirtelo di sicuro. Ci siamo già un po’ confrontati, ma a parole ognuno vorrebbe fare qualcos’altro, come sempre. Poi ci mettiamo a suonare e convogliamo i diversi stimoli in qualcosa di coerente, funzioniamo così.
Lasciaci con il tuo pezzo preferito di “Rise and Fall of Academic Drifting”.
Direi “Little Victories” . E’ un pezzo al quale sono molto legato. Ricordo ancora che avevamo scritto questa mail a Paul Anderson chiedendogli la collaborazione sulla traccia ed eravamo in fremente attesa di risposta. Lo stimavamo moltissimo e controllavamo la posta tutti i giorni, ci fece aspettare moltissimo e ci rispose un attimo prima di andare in stampa con un pacchetto che conteneva un cd con la registrazione della sua voce. La riportammo esattamente così com’era su disco, è quella che oggi tutti conoscete.