A volerlo analizzare con dovizia e precisione, dedicandogli tempo per crescita e maturazione, questo sesto lavoro di Jamie Lidell non è un brutto lavoro, album di cambiamento e sicuramente di transizione. “Building A Beginning” segna il distacco di Jamie da Warp Records per un’autoproduzione che almeno concettualmente dovrebbe portare freschezza e libertà compositiva, scelte e punti importanti, che però almeno superficialmente non si avvertono (fossimo in TV diremmo: non ci arrivano) in questo nuovo lavoro.
Lidell passa da una label sicuramente fagocitante, che per attitudine e per storia dava il permesso di osare e una condizione di outsider su cui restare innovativo, a uno stato di comfort piatto e sciapo che non soddisfa a fine ascolto. Liberamente (e fin troppo) ispirato al periodo Motown di Steve Wonder, con la presenza di un cast all star agli strumenti (Pino Paladino, Pat Sansone dei Wilco, Daru jones che bazzica con Jack White) “Building a Beginning” è un album “old soul” con tratti fin troppo americanizzati, quasi da strenna natalizia.
Dimenticati i groove potenziati che l’hanno portato (con evidente forzatura) a essere definito il “white D’Angelo”, dimenticati riff e stacchi del precedente che lo accomunavano a Prince (che assurdità) ecco quattordici brani d’amore e riflessione, di familiarità, uova, bacon e sciroppo d’acero: un po’ poco, francamente, per chi fino a tre anni fa competeva nel substrato indipendente – o meglio dire d’essai – contro Justin Timberlake.
Di contro la voce è migliorata tantissimo, lo studio sui cori si nota e il cantato non ha più bisogno di essere sostenuto da quel muro di suono degli album precedenti. In quest’ottica possiamo celebrare il passo in avanti di Jamie Lidell, ma ciò non basta per promuoverlo a pieno; non perché si voglia per forza parlare sempre di un capolavoro, sia chiaro, ma quanto perché ci risulta incomprensibile l’appiattimento generale in fase compositiva di chi negli album precedenti, come nei featuring sparsi qua e là nel mondo dance, aveva dimostrato di avere almeno mezza marcia in più e di voler osare quel tanto che basta da meritarsi la dovuta attenzione e il dovuto riscontro.
Per tutto vale l’esempio di “How Did I Live Before Your Love”, un pezzo reggae pop, fuori tempo massimo alla “Baby I Love Your Way” talmente scontato e stantio nella sua costruzione da non valere nemmeno come throwback anni ’90.
Eppure c’è chi comunque apprezzerà e adorerà questo lavoro, e lo capiamo senza polemica o paura di critiche: se visto in funzione di chiave di uno scrigno contenente sconosciute perle di Stevie Wonder, o altri voci del soul di importanza storica, vale sicuramente l’ascolto. Se non avete mai approcciato le cose Motown, ascoltate e cercatene la storia, in alternativa dategli un ascolto anche distratto e tornate alle cose vecchie, vi sentirete fuori moda e anche impolverati ma, se questo è il futuro, si può tranquillamente attendere ancora un pochino.