“Vincere? Mamma mia, ma magari…”: non era ancora stato svelato, il vincitore assoluto dell’edizione 2016 della Burn Residency, quando siamo volati ad Ibiza per farci una chiacchierata con Lollino (…e un boat party con in console gli altri due finalisti, Mira Joo e Ayman Awad: alla fine farsi un giretto in barca nei mari di fronte a San Antonio a buona musica a palla, con tanto di tramonto e delfini che circondano la barca, per quanto luogo comune ha sempre un suo perché: grazie Burn per l’invito, molto apprezzato). Già. Non era ancora stato svelato il vincitore. E Lollino fremeva. Perché sì, vincere alla Residency – quest’anno ancora più delle precedenti edizioni, si stanno perfezionando molti meccanismi – può davvero cambiarti la vita. Per i 100.000 euro a fondo perduto che puoi utilizzare per lanciarti definitivamente (da utilizzare in studio, pre-produzione, produzione, promozione), per il fatto di venire messo sotto contratto da un management di quelli cazzuti a livello internazionale. Poi chiaro: puoi vincere, ma te la devi anche giocare bene. Avere talento, ma giocartelo nel modo giusto. Guardare Lollino suonare toglie ogni dubbio: è incredibile quanto sia stato finora sottovalutato in Italia (demerito anche del nome d’arte un po’ così che si è dato? “Ma lo so, è che me le sono ritrovato addosso quando ho iniziato, perché ero sempre in giro a suonare fin da giovanissimo quindi mi trattavano tutti giustamente come il ragazzino da guardare con tenerezza e simpatia, e ad un certo punto non te lo togli mica di dosso, anche ora che ho passato i trent’anni…”). Tecnica ottima, gusto su standard piuttosto alti, comunicatività pazzesca.
E a vederla così è stata anche la Burn Residency stessa. Il vincitore è lui. Onori, gioie, festeggiamenti. La possibilità di dare una svolta alla propria carriera. Ma appunto, le occasioni devi giostrartele bene fin da subito: uno dei benefit di questa vittoria è stato andare a suonare per Hyte nella chiusura di stagione ad Ibiza, ma se Lollino questa cosa non se la fosse giocata bene di sicuro non lo avrebbero chiamato a suonare all’ADE e a farsi il Capodanno a Berlino, quelli di Hyte. Come invece hanno fatto. Più in generale, dopo i quattro mesi di fila ad Ibiza – i vincitori delle finali nazionali della Burn Residency vengono felicemente “deportati” sull’Isla per mesi, tutti insieme, sotto la guida di mentori come Carl Cox e con continue session si lecture, incontri, aggiornamenti, allenamenti, sfide – abbiamo visto il dj torinese veramente cresciuto, maturato, e ci ha raccontato delle cose importanti. Quindi ecco: sta diventando grande. In tutti i sensi. Siamo molto curiosi di sentire come sarà il suo set a Movement 2016: un Movement che è sempre stato “casa sua”, ma il rapporto adesso si è fatto più maturo, più consapevole. Lollino è cresciuto. L’esperienza della Burn Residency, con tanto di vittoria finale, lo ha cambiato parecchio. Professionalmente, umanamente.
Iniziamo con una cosa pessima: ci dicono che quando sei arrivato non è che sapessi l’inglese proprio bene…
Quando ho vinto la finale italiana, a Rimini, sono andato a vedermi il contratto ufficiale e tipo la prima regola era “Bisogna conoscere l’inglese in modo professionale”. Ah, bene! Aiuto! Quindi cosa ho fatto? Una volta tornato a Torino per tre settimane mi sono letteralmente segregato dal mondo esterno – tant’è che la gente pensava che me ne fossi andato da qualche parte in giro! – per una full immersion linguistica, almeno cinque ore al giorno di lezione e poi dopo anche a fare conversazione con amici, con mia sorella. Una cosa da pazzi. Ma un po’ è servita!
Poi, una volta arrivato al Bootcamp della Burn Residency qua ad Ibiza, l’impatto com’è stato? In realtà non è una cosa semplice: all’improvviso ti trovi davanti un sacco di persone che non conosci, e sai che dovrai vivere a continuo contatto con loro per settimane, per mesi…
Beh sì, all’inizio ero un po’ nervoso. Perché appunto non è solo questione di incontrare della gente, che quello si fa sempre con piacere, è che proprio ci devi vivere, ti piaccia o meno devi condividere quasi tutto con loro. Tutti insieme, si sta. Tutti nella stessa casa. Tutti a parlare inglese, maledizione! (risate, NdI) All’inizio mi sono, da bravo italiano, inserito sorridendo tanto e gesticolando come un pazzo. “Eccolo, l’italiano! Guarda come parla con le mani!”, e ridevamo tutti come dei pazzi. Loro mi hanno aiutato a perfezionare il mio inglese. Io però gli ho insegnato a gesticolare tantissimo!
Musicalmente, che tipo di situazione hai trovato?
Devo dire che il livello era alto, tutti i finalisti erano bravi, molto bravi. Anche questo mi ha fatto un mare di piacere: l’interazione musicale fra di noi era in questo modo di altissima qualità. Eravamo in competizione, chiaro: questo non lo dimenticava nessuno. Ma al tempo stesso ci siamo aiutati tantissimo fra di noi, perché comunque ci rendevamo conto che stavamo tutti vivendo la stessa avventura, con le stesse emozioni. Però davvero, il livello era proprio alto, gli scmabi sono stati super: sono arrivato che pensavo di essere già strapieno di musica, tornerò a casa con almeno il doppio dei dischi…
Però appunto, era competizione. Al contrario della Red Bull Music Academy, che per certi motivi – non solo di bibita energetica – è qualcosa di assimilabile alla Burn Residency, qui la competizione c’è ed è anzi un fattore centrale.
Vero. Infatti i momenti più complicati della giornata erano le prove a cui eravamo sottoposti. Succedeva spessissimo, praticamente una volta al giorno.
Come erano strutturate queste prove?
Farsi un set con Carl Cox di fronte che ti guarda e ti giudica. Fare un back to back con Dubfire. O cose tipo “Dovete scegliere due e solo due dischi adeguati per un set al tramonto, quali scegliete?”. C’è stata anche la prova vinili, e lì ovviamente me la sono giocata alla grande! Io coi vinili ci lavoro tantissimo. Su trenta finalisti, solo in tre erano abituati ad usarli. Comunque ecco, vero, eravamo tanto amici, con moltissimi lo siamo rimasti ancora adesso, ma quando c’erano le prove, beh – la competizione è competizione, non si guardava in faccia a nessuno.
C’è chi ci è rimasto male, immagino.
Beh sì. Tutti, direi. A parte io e i miei due colleghi che sono arrivati in finale. C’è stato un momento un po’ reality show (l’unico direi, per il resto è sempre stato tutto molto serio, molto concreto): tutti sul grattacielo dell’Ushuaia, ultimo piano, sul tetto, circondati da telecamere, schermi, e lì veniva detto chi era eliminato, chi restava. Ci sono stati pianti, abbracci, insomma, davvero le classiche scene da reality… (ride, NdI) Però davvero, su tutto il resto è stata un’esperienza davvero rigorosa, oltre che entusiasmante. Ho imparato parecchio. Ogni settimana c’erano anche lezioni su come gestirsi dal punto di vista manageriale, come portare avanti un’etichetta, e venivano davvero persone di altissimo livello nell’industria musicale a parlarci.
Dopo questa esperienza, formativa a trecentosessanta gradi, è cambiata anche la tua musica? O è sempre la stessa?
Diciamo che si è arricchita. Ogni volta che mi chiedono “Ma tu che genere fai?” io vado completamente in crisi. Che genere? Tech-house? Finisco col rispondere così, anche se per mille motivi è una definizione che non mi piace e che non trovo adatta. Nel mio set passo con naturalezza da dischi di trent’anni fa alle ultime novità techno. Cerco di fare un miscuglio possibilmente senza essere confusionario, ecco. Però sì: in questi mesi di Burn Residency avrò shazammato almeno cinque pezzi al giorno, ho scoperto tantissima nuova musica.
Quanto avete vissuto l’Isla?
Al trecento per cento! Io soprattutto! Sai, ti fai più di tre mesi di fila… Io ad Ibiza ovviamente c’ero già stato, ma era la prima volta che riuscivo a starci per più di un weekend e, incredibile!, con una casa, un tetto sopra la testa. Che detto così sembra una battuta, ma è la vera verità. Ibiza è assurda. Passi dalle stelle alle stalle in poche ore. Dalle festa in una villa pazzesca al dormire in spiaggia perché ti sei consumato tutti i soldi per promuovere la festa a cui suonerai il giorno dopo. Quest’anno è stata tutt’altra cosa: non avevo più il problema della sopravvivenza, potevo vivermela con calma, senza ansie. E’ stato fondamentale: anche perché il tempo libero non l’ho usato solo per cazzeggiare ed andare a feste – cosa che comunque ho fatto e ci sta, è fondamentale, ti aiuta a capire cose, ad accumulare contatti e relazioni – ma ho anche prodotto parecchio in studio. Ogni settimana avevo pronti gli abbozzi di almeno due o tre tracce nuove. E’ che proprio in generale, se sei un dj/producer, Ibiza ti aiuta a vivere tutto in modo molto più professionale: sia il lavoro vero e proprio, che i momenti di svago. Una cosa fondamentale è che qua sei capito, e sei rispettato: con chiunque tu parli qui sono persone che sanno cosa stai facendo, sanno che che fai parte di un settore fondamentale dal punto di vista sia sociale che economico. In Italia parli con la gente e “Ah sì, le discoteche…” e ti guardano come se fossi uno sfigato, un cazzone. Qua c’è grande rispetto, grande considerazione. Si fa festa, e anche molto, ma quando c’è da essere seri e da prendersi seriamente in modo reciproco non si tira indietro nessuno. Perché sanno che è per il bene di tutti.
Dopo questi tre mesi e passa, guardi ora alla scena italiana in modo differente?
Sì. Parecchio. Ora, non voglio fare quello che fa il figo “Oh, sono stato tre mesi ad Ibiza e ho capito tutto…”. Assolutamente no. Però ho avuto modo di analizzare molti fattori da una prospettiva diversa, più matura. E, fatti alla mano, ho concluso più cose tangibili e concrete in tre mesi ad Ibiza che in tre anni in Italia. E’ questione di modo di lavorare, guarda. In Italia prima di tutto ci sono un sacco di, diciamo così, problemi di comunicazione proprio con le persone con cui dovresti collaborare e che sarebbero lì per darti una mano: cosa che genera perdite di tempi e di nervi infinite. Qua ad Ibiza invece non si perde tempo: sei messo nella condizione di lavorare al meglio. Hai delle idee in testa? Ottimo. Mi chiedi aiuto? Te lo do, e anzi cerco di spingerti ad avere altre idee ancora – perché metti mai possano venire utili anche a me. La gente qui ragiona così. E’ paradossale che mi sono sentito aiutato e supportato molto più ad Ibiza, per cui in teoria sarei ancora un corpo estraneo, che nella mia città. E’ che qua senti di far parte di un’industria. Un’industria che si fa guidare da un concetto molto sanno: il tuo successo è il mio. Se ce la fai tu, vuol dire che ci creano più opportunità anche per me. Poi per carità, pure qua ad Ibiza la concorrenza esista, e anche forte, ma è una concorrenza vissuta e sviluppata in un modo molto più furbo rispetto a quanto facciamo noi. “Cerchiamo di non perdere tempo mettendoci i bastoni fra le ruote a vicenda, è solo una perdita di tempo e di energia”. In Italia, invece, e a Torino in particolar modo, uno degli sport preferiti è la guerra fra poveri. Pensa appunto alla mia città: abbiamo situazioni pazzesche, Movement, Savana Potente, Club To Club, però fra di loro si guadagno in cagnesco e non si sopportano.
Lo fanno in modo molto torinese, quindi cortese ed elegante, ma in effetti penso proprio sia così.
Vi rendete conto di quante energie sprechiamo? Il consiglio per Torino, ma anche per l’Italia tutta, è da un lato di prendersi molto meno sul serio, non farsi trascinare dall’ego, dall’altro invece di essere molto più seri e professionali, perché questo aiuta a focalizzarsi su un lavoro che sia costruttivo e non distruttivo (degli altri). Invece ci complichiamo la vita da soli. Con che risultati? Guardando a Torino, col risultato che quelli veramente in gamba se ne devono andare. Tipo il mio amico Topper, che una volta arrivato a Berlino è diventato resident del Visionaere. O come Yaya, che suonava a Torino da una vita, resident a Savana, ma la vita gli è cambiata realmente solo quando si è legato ad Ibiza, con tanto di rapporto strettissimo con Loco dice. Ancora: prendi Stev, un mago della techno, a Torino lo snobbavano tutti adesso è nelle chart di Resident Advisor. O i Boston 168, miei soci di studio, che a Torino non li chiamava nessuno, hanno iniziato a girare all’estero e ora all’improvviso in città hanno preso a considerarli. Potrei andare avanti con questo elenco, sai, a partire dal fatto di includerci me stesso. A me è stato detto: “Basta Lollino, il tuo tempo è finito”. Eh? Ma cosa dici? Io voglio suonare per tutta la vita! E’ che non si capisce che c’è spazio per tutti, non è che se uno ce la fa allora non ce n’è per gli altri, abbiamo la fortuna di operare in uno dei pochi settori economici che non conosce particolare crisi e, al di là di questo, dovremmo essere coscienti della fortuna che abbiamo, lavorare nel mondo della club culture è una cosa bellissima, una fortuna incredibile, dovemmo esserne grati invece di stare lì a crearci inutili problemi e inutili prese a male per rivalità senza senso.
Trasferirsi all’estero, insomma.
Eh, vediamo. Se ne avessi la possibilità non mi muoverei mai da Torino, mai! Amo la mia città. Ma patisco il fatto di non riuscire a lavorare al meglio. Questo perché sono proprio sbagliati alcuni meccanismi. Ancora adesso quando fai il dj ti chiedono “Eh ma quanta gente porti, quante liste fai?”: veramente, io sarei quello che suona… Ma va bene, accetti pure questo meccanismo. Poi però va a finire che nel flyer della serata non c’è manco il tuo nome. Sono cose che veramente fanno cadere le braccia ma che soprattutto fanno male non solo a me, ma a tutto il sistema. Però vediamo. Vediamo qua come va a finire, con la Burn Residency. Metti mai che vinca davvero…