Ryan Hunn è Illum Sphere.
Il moniker l’ha preso dal latino, perché di convenzionale non voleva proprio nulla, anzi puntava ad un’estetica del suono complessa ed elegante anche se avvolta in una patina spigolosa e sporca. Con il suo primo full-length “Ghosts Of Then And Now” (ne parlavamo giusto qui) Hunn regalava un fumoso ritratto di contaminazione jazz, post-dub, techno, deep house e squarci di electro soul che subito ricordavano Bonobo, (molto alla “Noctuary” per capirsi, perché alla fin fine ridendo e scherzando un Notturno cupo ed emotivo alla Chopin vagamente lo ricordava davvero).
L’esordio di Hunn era pura umanità suddivisa in più gradi di separazione: la paranoia di “Sleeprunner”, la joie de vivre di “Near The End”, la purezza mastodontica di “Embrionyc”, e l’angoscia metropolitana della title track “Ghosts Of Then And Now”.
Le premesse c’erano tutte: che Hunn venisse dal contesto giusto siamo d’accordo, che la Ninja Tune quando l’ha inglobato fosse in un periodo d’oro è indubbio (che pubblicava il primo LP era l’anno del signore 2014: “Run the Jewels 2”, Caribou con “Our Love”, Bonobo ed il suo EP “Flashlight”) eppure Illum Sphere ha stupito con la sua versatilità e la capacità di giocare con spessore e personalità. Della serie: era prevedibile, ma di certo non scontato. Tutto questo per dire? Che Hunn, il 4 novembre, è tornato col suo secondo LP sempre targato Ninja Tune.
“Glass” anticipato dai singoli “Red Glass”, “Thousand Yard Stare” e “Fall Into Water”, impacchetta sicuramente un tipo di pesantezza molto elegante e di classe, scandita da una complessa gamma di suoni che vanno analizzati con pinze e bisturi. Mettersi d’impegno e sezionare mano a mano la techno house dal jazz, aprire bene e dilatare il glitch, spolverare quella punta di jungle, è un operazione necessaria, ma? Ma “Glass” è completamente privo di equilibrio e coesione: è un calderone confuso e carico di distaccata glacialità.
Ascoltando i nove brani dell’LP spiccano senza dubbio tracce come “River” e “Wounded” che parlano senza dire una parola: brani come questi ritrovano un collegamento reale ed umano con l’ascoltatore, cadi in suoni che gocciolano una paranoia controllata, colmi di UK bass ed al tempo stesso di un suono grezzo ed essenziale, un suono reale e sporco nella sua naturalezza.
Eppure, proprio la presenza di simili elementi, accentua la mancanza che si avverte nelle altre tracce: ascoltando “Red Glass” si sente un distacco che lascia disorientati. “Oracle”? Stremati ed insoddisfatti. È un bene? In certi casi può esserlo, pensando all’ovvio: i Moderat hanno basato capolavori interi su quel tipo di ansia logorante e tremendamente autentica, ma dov’è la differenza? Che la pesantezza fine a sé stessa non basta se non è accompagnata da qualcosa di più intimo e nudo.
Hunn mette da parte gli spigoli più smussati e dolci che trovavamo in “Ghosts Of Then And Now”, amplifica all’ennesima potenza quella romantica ansia metropolitana che invece ci regalava “Second Sight” e “Spectre Vex”, distaccandosi però troppo dall’umanità che lo rendeva in qualche modo accessibile. Ha ovattato i suoi brani, levandogli personalità e lasciando dei perfetti corpi vuoti. Bellissimi certo, ma sterili. Li ha nascosti in una teca di vetro che permette di osservarli ma non di toccarli.
Per quanto ci siano sfumature drammatiche e sontuose che rendono monumentali certe tracce (vedi “The Journey”) tirando le somme rimane un album freddo, figlio di un’estetica troppo arida che alla fine dell’ascolto lascia poca voglia di cliccare rewind.